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Svizzera
e Nazismo
Il tribunale
degli storici condanna la Svizzera
di Sergio Romano
Fra il 1940 e il 1945 la Svizzera
attraversò uno dei periodi più rischiosi e ambigui della sua storia. Era una democrazia,
ma circondata da regimi autoritari o totalitari. Era neutrale, ma confinava con Paesi in
guerra. Aveva una economia di mercato, ma costretta a operare nellambito di uno
spazio economico prevalentemente tedesco dove ogni decisione era subordinata alle esigenze
del conflitto. Quando chiesero a Emmanuel-Joseph Sieyès, dopo la Rivoluzione francese,
come se la fosse cavata negli anni del Terrore, labate rispose laconicamente
«Abbiamo vissuto» e passò in tal modo una mano di bianco sulle molte acrobazie che gli
avevano permesso di salvare la vita. Ho sempre pensato che la Svizzera avesse il diritto,
dopo la fine della guerra, di rispondere con le stesse parole. Prevalse invece negli anni
seguenti una forma di retorico compiacimento per le virtù civili di cui il Paese riteneva
di aver dato prova negli anni precedenti. Aveva dimostrato alla Germania che il suo popolo
avrebbe difeso con le armi, se necessario, lindipendenza nazionale. Aveva accolto
migliaia di rifugiati. Aveva dato prova di impeccabile imparzialità, ma di evidenti
simpatie democratiche. Mentre gli Alleati avevano vinto con le armi, la Svizzera, secondo
questo benevolo autoritratto nazionale, aveva vinto con la fermezza dei suoi valori.
Poi, con il passare del tempo, il pendolo della coscienza nazionale accennò a oscillare e
gli svizzeri cominciarono a farsi domande imbarazzanti sulle molte pagine grigie di quel
periodo: i rifugiati respinti alla frontiera, le forniture strategiche alla Germania in
guerra, il transito di carbone tedesco verso lItalia, la volontaria
«arianizzazione» delle aziende svizzere che operavano nel Terzo Reich, i fondi nazisti
albergati negli istituti finanziari della Confederazione, la dubbia provenienza
delloro tedesco che la Banca centrale svizzera accettò di scambiare contro la
propria valuta, i conti aperti dagli ebrei prima della guerra e incamerati di fatto dalle
banche dopo la loro tragica morte. Ma il periodo peggiore cominciò negli anni Novanta,
quando, in un nuovo clima internazionale, le comunità ebraiche, le associazioni
umanitarie e i mezzi dinformazione alzarono il volume del dibattito e intentarono
alla Svizzera una sorta di processo. Dopo avere goduto, con una punta di arroganza, dei
propri trionfi, la Svizzera dovette indossare il saio del penitente e sedere sul banco
degli accusati. Vi furono in quegli anni molte altre campagne dello stesso tipo, ma questa
fu la sola che prese di mira un Paese e le sue istituzioni.
La vicenda ebbe qualche ripercussione finanziaria. Fu creato un «Fondo svizzero per le
vittime indigenti dellolocausto» e fu deciso che i cittadini della Confederazione
sarebbero stati chiamati a esprimersi con un referendum sulla costituzione di una
«Fondazione Svizzera solidale» che il Parlamento approvò nel settembre 2001. Ma la
decisione più coraggiosa, per molti aspetti, fu la creazione, alla fine del 1996, di una
«Commissione indipendente di esperti sulla Svizzera nella Seconda guerra mondiale» a cui
fu permesso di esaminare, scavalcando il segreto bancario, gli archivi delle aziende e
delle banche coinvolte nelle vicende economiche della guerra. Presieduta da uno storico di
grande valore (Jean-François Bergier) e composta da studiosi di diversa nazionalità, la
Commissione ha lavorato per cinque anni e ha prodotto un rapporto finale: 600 pagine di
analisi, documenti, grafici, dati economici e considerazioni conclusive che sono state
presentate ieri a Berna con una conferenza stampa.
La Commissione non si considera un tribunale e ritiene che il suo lavoro sia soprattutto
un «progetto storiografico» destinato a sollecitare altre ricerche e verifiche. Ma il
rapporto verrà inevitabilmente considerato una sentenza e i lettori frettolosi andranno
subito alla ricerca di un verdetto.
Innocente o colpevole? La risposta della Commissione, se ne ho ben capito lo spirito, è:
colpevole, ma con molte attenuanti.
Per capire gli svizzeri e le loro acrobazie occorre tornare alla grande depressione del
1929. La Confederazione restò fedele alla convertibilità del franco e ai suoi principi
liberisti, ma si trovò alle prese con un mondo dominato dal protezionismo commerciale e
dai controlli valutari. Il risanamento delleconomia tedesca, dopo lavvento di
Hitler al potere, fu salutato a Berna e a Zurigo con un sospiro di sollievo. Gli svizzeri
riformarono il loro sistema finanziario, adottarono una legge sul segreto bancario e non
esitarono a inserirsi, con qualche cautela, nei programmi per il riarmo della Wehrmacht.
La politica antisemita del regime hitleriano non fu motivo dimbarazzo. Lebreo
era diventato in Svizzera, negli anni precedenti, sinonimo di «forestiero», quindi
oggetto di pregiudizi e diffidenza. Per meglio lavorare con il Reich le ditte della
Confederazione non esitarono quindi ad «arianizzarsi». Quando lAustria fu annessa
dalla Germania, il direttore della Schweizer Rück (una compagnia di riassicurazione) si
precipitò a Vienna, «sollevò dalle funzioni lintera direzione dellaffiliata
austriaca Der Anker», licenziò 73 dipendenti ebrei e li liquidò con una indennità di
fine rapporto che ammontava a meno di un terzo di quella prevista dalla legge. Non basta.
Fino al 1942 la Svizzera sostenne che i profughi per motivi razziali non potevano
considerarsi «politici». E fu la Confederazione che chiese alla Germania nel 1938, per
meglio difendersi dagli emigranti indesiderati, di stampigliare con una «J» (Jude) i
passaporti degli ebrei tedeschi. Ma la peggiore manifestazione di cinismo risale al
dopoguerra quando le banche resero praticamente impossibile la restituzione agli eredi del
denaro che gli ebrei avevano depositato presso i loro sportelli. Dopo essere stato una
garanzia per il cliente, il sacrosanto segreto bancario divenne un boomerang e uno
strumento di confisca.
Anche le attenuanti, tuttavia, furono importanti e numerose. La Svizzera viveva
dimportazioni e dipendeva pressoché interamente dai suoi vicini, vale a dire, in
ultima analisi, dalla Germania. Trattò molti profughi con durezza e ne riconsegnò
parecchi alle autorità tedesche; ma non si comportò peggio di altri Paesi (la Svezia,
gli Stati Uniti) e accolse, soprattutto durante lultima fase della guerra, 115.000
rifugiati. Fu prudente, ambigua, opportunistica. Ma la sua magistratura, la sua diplomazia
e la sua polizia dettero prove, anche in condizioni difficili, di coraggio e indipendenza.
Lattenuante decisiva, tuttavia, fu quella che i membri della Commissione hanno
omesso. La Svizzera ebbe in quegli anni una fondamentale esigenza, la difesa della propria
indipendenza, e distribuì i propri favori in funzione di quellobiettivo. Sino a
quando non poté essere certa che la Germania avrebbe perduto la partita, tenne conto
delle esigenze del Reich.
Poi, quando capì che la sconfitta di Hitler era questione di mesi, raddrizzò
progressivamente il corso della sua politica. Chi può dimostrare che in quelle
circostanze avrebbe agito diversamente, scagli la prima pietra.
(Corriere
della Sera, 21 marzo 2002)
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