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Gli ultimi giorni di Hitler

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Nell’aprile del 1945, con l’armata rossa ormai alle porte di una Berlino devastata, il fuhrer della grande Germania, della nazione eletta, destinata a dominare il mondo, era un autentico morto vivente, che viveva seppellito nel bunker tetro e scuro, scavato nelle viscere della cancelleria.

Le giornate trionfanti di Norimberga, il mito di un uomo che appariva agli occhi del mondo come un semidio, gli eserciti invincibili del III reich millenario, rappresentavano ormai un ricordo sbiadito, cancellato dalla straripante offensiva alleata.

Alla fine del 1942, Hitler era la guida di un impero sconfinato, che si estendeva dalle coste dell’atlantico fino al Caucaso, dai deserti del nord Africa ai ghiacci del polo; nulla sembrava poter fermare i progetti del nazional-socialismo, volti a realizzare la conquista dello spazio vitale ad est, per fornire, al supremo popola ariano, la giusta espansione, ai danni dei popoli inferiori; ma nel giro di pochi mesi le sorti del conflitto mutarono radicalmente, con i primi, drammatici, rovesci degli eserciti tedeschi, cominciati, rovinosamente, a Stalingrado e proseguiti, in Normandia, con lo sbarco alleato del giugno 1944.

Ebbene, da quelle tragiche sconfitte il fuhrer non si riprese più, specialmente dopo il fallito attentato avvenuto nel suo quartier generale di Rastenburg, la cosiddetta "tana del lupo", dal quale, pur salvandosi per miracolo, ne uscì fisicamente debilitato.

L’Hitler degli ultimi tempi era un uomo totalmente distrutto, nel fisico e nel morale, al pari di una Germania allo stremo, devastata dai bombardamenti alleati e attaccata ad est dai sovietici e ad ovest dagli anglo-americani; rinchiuso nel suo bunker, il suo stato di salute peggiorò sempre di più: era evidente, nelle sue rarissime comparizioni pubbliche il tremore alla mano, sintomo palese del morbo di Parkinson; era evidente la sua rassegnazione per una fine sempre più prossima.

Ormai sempre più debilitato, dipendeva completamente dal suo segretario Bormann e dal suo uomo più fedele, Joseph Goebbels, che, sostituendosi in tutto e per tutto al suo amato fuhrer, si prodigò allo stremo per organizzare l’improbabile difesa di una capitale prossima alla capitolazione per mano dell’odiato nemico bolscevico.

Nel bunker, la vita di Hitler e degli uomini al suo seguito, veniva condotta in un clima surreale:

come riferito da alcuni testimoni, era come vivere nell’oltretomba, in una bara di cemento, senza avere distinzione tra il giorno e la notte; fu proprio in questo clima che Hitler trascorse gli ultimi giorni della sua vita, senza essere più in grado di prendere alcuna decisione, completamente distaccato dalla realtà ed incapace di percepire ciò che avveniva all’esterno, ove le armate della grande Germania, che avevano stupito il mondo per la loro straordinaria potenza, erano ridotte ad un manipolo di anziani male armati ed ai ragazzi della gioventù Hitleriana, che andarono incontro ad un inutile martirio.

Il 20 aprile 1945, nel buio del bunker si festeggiò, in un’atmosfera allucinante, il cinquantaseiesimo ed ultimo compleanno di Hitler e tutti i gerarchi, sfidando le bombe di una Berlino assediata dall’armata rossa, vollero rendere omaggio al loro fuhrer, in quello che, in realtà, si tramutò in un vero e proprio ultimo, estremo, macabro atto, della loro grande e tramutata potenza.

Ad alleviare le sofferenze di un Hitler assolutamente distrutto, contribuì la presenza di Eva Braun, la sua amante, la donna che decise di seguire il suo uomo fino alla morte, un uomo che amava alla follia e per il cui amore fu condannata ad una vita di profonda sofferenza, che la indusse, per ben due volte, a tentare il suicidio:

anche se il loro legame risaliva ai primi anni trenta, Eva Braun rimase sempre nell’ombra, nell’emarginazione più assoluta, costretta a subire la psiche cinica e deviata, di uno dei personaggi più discussi della storia, che gli provocò ogni genere di umiliazione e la sensazione di vivere in una prigione dorata; ciononostante la Braun, decise di seguire il suo amato fuhrer fino a Berlino, nelle profondità sotterranee del bunker, accettando di morire con l’amore della sua vita, il quale, il 29 aprile 1945, a poche ore dalla fine, decise di esaudire quello che rappresentava il suo desiderio più grande, ossia quello di unirsi in matrimonio con lui.

Hitler sposò dunque Eva Braun, ma la felicità durò poco poiché le nozze furono il preludio di una fine già scritta e preordinata da tempo, programmata attraverso la distribuzione, per quei morti viventi, di capsule di cianuro, che ebbero come prima cavia inconsapevole, l’amatissimo pastore tedesco del fuhrer Blondie, vittima di una soppressione che non risparmiò i suoi cuccioli, anch’essi barbaramente eliminati per volontà dello stesso Hitler.

Il 30 aprile 1945 fu l’ultimo atto della vita di un uomo che sconvolse i destini del mondo e della sua sposa, che per fin dall’inizio non aveva desiderato altro se non divenire la signora Hitler; due capsule di cianuro posero fine alla loro esistenza ma l’ultimo ordine del signore della grande Germania fu quello di predisporre la cremazione sua e di Eva, per evitare uno scempio dei corpi pari a quello subito a Piazza Loreto dal suo grande amico ed alleato Benito Mussolini, di cui aveva saputo pochi giorni prima, al pari della notizia del tradimento di Goering e di Himmler, due tra i suoi gerarchi più fidati, che avevano con lui condiviso, la prepotente ascesa al potere del nazional-socialismo.

I corpi di Hitler e di Eva Braun, scomparvero, dunque, tra le fiamme, pochi prima che la bandiera rossa fosse issata sul pennone della cancelleria, a suggellare il grande trionfo dell’armata rossa e di Stalin.

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Il giorno seguente, si consumò il dramma della famiglia del ministro della propaganda Goebbels, il quale decise, in accordo con la moglie Magda, di porre fine alla sua esistenza e, soprattutto, a quella dei loro sei giovani figli; tutto il personale asserragliato nel bunker tentò in ogni modo di far cambiare idea ai coniugi, al fine di salvare quelle giovani vite, ma fu tutto inutile:

il fuhrer era morto, il nazional-socialismo era morto e tutti dovevano morire; una vita senza il grande reich, senza il dominio della svastica, era, nel loro farneticante pensiero, una vita inutile: Magda Goebbels, dopo aver preparato i suoi figli per la morte, schiacciò loro, durante il sonno, nella loro bocca, sei capsule di cianuro, suicidandosi, poi, insieme al marito, in quella che fu l’ultima ed insensata follia di un altrettanto insensata e folle ideologia.

Scomparve, dunque, in questa lugubre maniera, al termine di un agghiacciante tramonto, un reich che si voleva millenario e che invece non sopravvisse ai primi rovesci.

L’Hitler degli ultimi tempi, sconnesso e sconvolto e il lugubre bunker della cancelleria furono dunque i macabri simboli di una sorta di caduta degli dei, della fine di un impero del male, di una malvagia dottrina che aveva, nella sua ascesa, conosciuto i tempi felici e trionfanti di Norimberga e delle olimpiadi del 1936, esaltati dalle geometrie di Speer e dai filmati della Riefensthal, , ove un Hitler al culmine della potenza, arringava folle oceaniche, dall’alto del suo pulpito, fiero e più forte che mai, condottiero invincibile di una nazione apparentemente invincibile e che invece cadde vittima di quella stessa violenza che scatenò, incontenibile, nel mondo per ben sei lunghi anni e che condusse alla distruzione della Germania e del nazional-socialismo.

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