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La Liberazione

Luigi Gui: «Quel respiro di liberazione a Padova"

di Paolo Vigato

A 87 anni (compiuti il 26 settembre), Luigi Gui conserva il suo bel profilo aquilino da antico senatore romano, e una vitalità tutt'ora nutrita di studi e attenzione per l'oggi, oltre che di memorie. La sua presenza, carica di esperienze e d'autorevolezza, non mancherà neppure quest'anno a nobilitare le cerimonie del 25 aprile nel 57º anniversario della liberazione dal nazifascismo. Luigi Gui, padovanissimo, porta nella propria persona un concentrato di storia della Repubblica. Dopo la laurea in Storia e Filosofia all'Università cattolica di Milano e l'inizio dell'insegnamento nelle scuole superiori, dopo la guerra in Russia come alpino, il ritorno in Italia e la partecipazione alla resistenza, è stato eletto all'Assemblea costituente nel 1946. Quindi è stato ripetutamente eletto alla Camera e al Senato fino all'83. E' stato prima sottosegretario all'Agricoltura e poi ministro del Lavoro, della Pubblica Istruzione, della Difesa, della Sanità, per la Riforma dell'Amministrazione, dell'Interno. Un'esistenza al servizio dello Stato e di impegno nel sociale, da democristiano di forte identità popolare, grande amico e stretto collaboratore di Aldo Moro, e da uomo sempre aperto al confronto politico.
Gui era presente a Padova nel 1945 il giorno della liberazione. «Che», ricorda, «nella nostra città fu il 28 aprile. Dopo l'8 settembre del '43 mi trovavo sopra Gorizia con i miei alpini del battaglione Val Cismon. Eravamo reduci dalla Russia e ritornati in Italia fui io ad assumere il comando, portando i miei uomini sino a Feltre, sempre a piedi, dove diedi loro il "rompete le righe" e potei ringraziare Dio perché ci eravamo tutti salvati. Io mi recai sul monte Grappa, ospitato a casa del mio attendente che era di Alano di Piave. Fu da lì che iniziai l'attività clandestina nella resistenza. Tornai a Padova, dove la nostra casa in zona piazzale San Giovanni era stata bombardata. Riparammo tutti - io, i genitori e i fratelli - in provincia a Brusadure di Bovolenta, ospitati in canonica dal parroco don Bruno Cremonese, impegnato nella lotta. Fra il '43 e il '44 cominciai a venire in città e a partecipare all'azione di resistenza».
Quali furono i suoi compagni di quegli anni?
«Soprattutto i laureati cattolici e i Volontari della libertà, con in testa Stanislao Ceschi e Marcello Olivi, ma non solo. Ci dedicavamo particolarmente all'attività di preparazione politica dell'insurrezione. Cominciai anche a scrivere: monsignor Luigi Nervo dalla "base" del Collegio Barbarigo stampò in qualche centinaio di copie un mio opuscolo dal titolo La politica del buon senso che ebbe discreta diffusione. Importante, sempre presso il Barbarigo, l'impegno di un gruppo di signorine che si occupavano del centro di assistenza per ex internati provenienti da campi di concentramento, in genere rilasciati dai tedeschi perché in pessime condizioni di salute: fra loro c'erano Gigliola Valandro, la dottoressa Lena Ferraro e Alessandra Volpi che sarebbe diventata mia moglie. Sempre nel periodo a ridosso della liberazione, ma naturalmente anche negli anni successivi, i miei rapporti d'amicizia più stretti furono con Mario Saggin, Lanfranco Zancan, Luigi Carraro, Giuseppe Bettiol, Francesco Simioni (che poi si fece Gesuita), Mario Mosconi».
Come ricorda la liberazione del 28 aprile a Padova?
«Soprattutto come una giornata di gran movimento, in senso letterale. Gli alleati anglo-americani nei giorni precedenti, provenienti da sud, avevano attraversato il Po e l'Adige. Qui in città arrivarono nel primissimo pomeriggio, attraversandola di corsa con i loro automezzi, da Prato della Valle attraverso via Roma e corso del Popolo, praticamente senza fermarsi nonostante l'enorme festa di folla. Io mi trovavo davanti al Bo e fui tra i moltissimi che li invitarono a proseguire per Trieste, dove erano già arrivati per primi i "rossi" di Tito. Però tra di noi, qui, i rapporti fra i cattolici e "gli altri" erano naturalmente di differenziazione e magari pure di scontro, ma sempre in spirito di confronto. Da tutti i partiti presenti nel Cln, il Comitato di liberazione nazionale, uscirono il prefetto Gavino Sabadin, cattolico, ma anche il sindaco comunista Giuseppe Schiavon, il mitico "Bepi Tola". Poi le elezioni del '46 insediarono il sindaco democristiano Cesare Crescente. Contatti importanti io ebbi con il rettore Egidio Meneghetti, azionista, con il socialista Gastone Costa che poi divenne sindaco. Nella cospirazione si era distinto, amico di tantissimi, monsignor Gianesini».
E quali sono i suoi sentimenti oggi, nel celebrare la liberazione di allora?
«In questo tempo, e spettacolarmente nell'ultima tredicina d'anni, il mondo è cambiato radicalmente. Ma solo chi non ha memoria ignora che l'impegno profondo coagulatosi in quel periodo è poi proseguito a lungo, con motivazioni che giungono fino all'attualità odierna. Con il crollo del Muro sono venute meno tante ragioni di contrasto ideologico, e questa attenuata opposizione dialettica ha forse implicato un allentamento d'impegno politico nelle persone. Anche il benessere economico ha sfilacciato la tensione morale. Noi la liberazione di 57 anni fa la vivemmo con gioia tanto più intensa quanto maggiori erano state le sofferenze. Ma le spinte per continuare a impegnarsi ci sono tutte, e consistono nel filo che deve seguitare a legare la libertà con la solidarietà e la giustizia sociali. Nel pianeta le situazioni di oppressione e violazione dei diritti umani sono ancora diffusissime. Oggi la "frontiera" è il terzo mondo: che peraltro non è lontano, ma pure qui fra noi, con gli immigrati. L'altra mobilitazione è per lo sviluppo dell'Europa unita».

(Il Mattino di Padova, 25 aprile 2002)

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