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La Liberazione

La Resistenza e il 25 aprile in tre storie di ragazze di allora

Il  suo nome di battaglia era - ed è ancora oggi per tutti quelli che la conoscono - Fiamma.
Uno dei suoi compiti nella Resistenza era quello di portare ai capi delle organizzazioni fasciste milanesi lettere firmate dai capi partigiani. Lettere minatorie; come quella portata da Fiamma all'Ospedale di Vialba, oggi ospedale Sacco, nella quale il commissario Francisco, della 183esima Brigata, minacciava il direttore generale del sanatorio per il suo rifiuto di prestare cure ai reduci italiani dalla Russia, poiché essi erano ormai per i fascisti "gente che non serviva, inadatta a essere carne per i cannoni".

Quella fu la prima volta che Fiamma si lasciò truccare. Aveva diciannove anni e non si era mai messa il rossetto sulle labbra. Rifiutava di indossare abiti che la relegassero a un qualche ruolo seduttivo delle donne. Ma quella mattina le fecero indossare delle calze nere. Le diedero una bicicletta da donna, poiché lei usava sempre quella di suo fratello e "non sarebbe stato bello arrivare al presidio tedesco, in una piazza, con il sedere per aria".  Ci arrivò, invece, sfoderando un sorriso allo stesso modo di un'arma, "salutando in perfetto tedesco i nazisti là fuori". Entrò nell'ufficio facendo "schioccare i piedi sul pavimento al momento del saluto fascista". Consegnò la lettera al segretario precisando che era per il direttore sanitario e che era urgente fargliela avere. Quindi, "sempre con un bel sorriso ricambiato dai presenti", riprese la bicicletta e volò via, verso l'Alfa Romeo, dove era iniziata la sua storia di giovane partigiana milanese.

Era stato infatti in quella fabbrica, adibita all'industria bellica dal regime fascista, che nel 1941 Antonietta Romano era entrata con altre ragazze a lavorare "per la Patria, per il Duce e per il Re", in sostituzione degli uomini chiamati alle armi. Aveva sedici anni e di questo era persuasa, di dover fare il suo dovere per l'Italia fascista.
Ma non ci volle molto, fra la traduzione di un telegramma dal tedesco all'italiano e l'intensificarsi degli avvenimenti, perché lei comprendesse che cosa in realtà fosse quella patria la cui idea aveva coltivato nell'aula dell'Istituto tecnico commerciale Pietro Verri, che doveva frequentare in divisa fascista come tutte le sue compagne.
Poi venne l'incontro, all'interno della fabbrica, con una segretaria di direzione già collegata con la Resistenza. E Antonietta scelse il suo nome, Fiamma. Entrò in uno di quei gruppi antifascisti che venivano chiamati "cellula", fece parte dei Comitati di difesa della donna e del Movimento dei cattolici comunisti. La sua tessera di riconoscimento era quella della 111cesima Brigata Garibaldi delle S.A.P., le squadre di azione partigiane.
In fabbrica gli operai venivano costretti a produrre sempre di più. Quando suonava l'allarme essi non potevano neanche allontanarsi per correre nei rifugi  a ripararsi dai bombardamenti e dalla paura. Il cibo della mensa aziendale era sempre più ridotto. E la paga era diventata solo un acconto su un salario non più concesso. "Quando le maestranze reclamavano e fermavano il lavoro, quelli che erano considerati agitatori scomparivano, e ai familiari, che piangendo andavano in direzione a chiedere notizie, si rispondeva che erano stati mandati in trincea in prima linea. Solo dopo si seppe che erano stati deportati nei campi di sterminio di Mauthausen e Gusen".

Fiamma vide tutto questo, e fece la sua parte da allora sino alla fine. Si diede al volantinaggio antifascista; raccolse il siero antivipera e indumenti di lana e denaro per i partigiani della montagna; scriveva a quei partigiani "lettere di sostegno morale"; portava  ai fascisti "le lettere minatorie fornite dalla cellula Curiel e da altri commissari"; andava "nelle case di ringhiera o nelle mense aziendali della Pirelli e della Falck o dell'Azienda tramviaria, scortata dai gappisti, a parlare e a preparare le persone alla lotta".
Quando, la mattina del 25 aprile 1945, iniziò anche per lei "l'opera di staffetta portaordini", Fiamma ebbe la sua tessera di riconoscimento dal C.N.L., prese ancora una volta la sua bicicletta e andò nelle zone a lei assegnate "a riferire al Comando quali erano i punti in cui ancora si sparava, Quarto Oggiaro, Porta Volta, Porta Garibaldi". Entrò nella sua fabbrica "con il tricolore al braccio". Un uomo la rimproverò perché, le diceva, avrebbe dovuto aspettare gli ordini della responsabile delle donne partigiane dell'Alfa. Non sapeva, quell'uomo, che quella responsabile era proprio lei: Antonietta, nome di battaglia Fiamma.
Fiamma che ancora oggi corre da una scuola all'altra - è in pensione come insegnante di matematica - a parlare della Resistenza; perché, come dice la sua nipotina Veronica in una poesia, "quel grande libro dobbiamo scriverlo nella mente e tramandarlo, per far sì che resti scritto nella nostra storia".
 
Pina Spataro era in quarta ginnasio quando, nel '43, dovette abbandonare con la  famiglia la sua città, Reggio Calabria, per sfuggire ai bombardamenti. Rimase tre mesi a Foligno, in Umbria. Continuava a studiare per gli esami di quinta ginnasio. La seguiva un professore antifascista dell'Università di Firenze. "E non è un caso - lei dice- che poi ho preso Filosofia all'università, avevo già letto tutti i dialoghi di Platone".
"I tedeschi andavano e venivano. Dopo l'8 settembre la Germania aveva bisogno di uomini per far funzionare le industrie. Allora vi fu la fuga di moltissimi giovani per nascondersi, per non andare a lavorare in Germania verso l'ignoto ma, semmai, in montagna con i partigiani".
Pina era "obbligata a riflettere". Suo zio era capodeposito delle ferrovie. Pina andava alla stazione. Un giorno vide lei stessa  "uno di quei treni".   Lei stava mangiando un panino con qualcosa dentro. Qualcuno chiese un po' di cibo da una feritoia. Lei fece per avvicinarsi. Un tedesco la spinse via con il fucile spianato. Un'altra volta si trovò davanti a una pattuglia tedesca. E allora lei, figlia di un socialista, cantò: "Bastone tedesco non doma l'Italia".
Pina seguiva attraverso la radio  e i giornali le vicende. Poiché neanche a Foligno si era al riparo dai bombardamenti, fu un granaio di campagna di alcuni amici di famiglia il suo nuovo rifugio, dove non smettere di studiare e di pensare.
Dopo la conquista da parte degli Alleati, la via del ritorno al Sud fu fatta da Pina e dai suoi su un camion scoperto, dal quale lei poteva vedere le spaventose immagini della guerra, tremare ancora per i bombardamenti dei tedeschi a Napoli. Da Gioia Tauro fino a Reggio, poi, il viaggio durò tre giorni, e fu fatto su un carretto trascinato da un asino che era un privilegio, "perché quasi tutti andavano a piedi".
A Reggio Pina trovò le macerie che aveva lasciato "quando aveva camminato sui cadaveri". Il 25 aprile anche laggiù si esplose nella festa "per la liberazione dall'incubo della guerra; anche se il Sud non potè vivere in diretta la Resistenza del Nord Italia e se la rivolta di Napoli la fecero gli scugnizzi; anche se, a Reggio, molti gerarchi fascisti erano diventati all'improvviso comunisti".
Ma era stata Resistenza, per  la ragazza Pina, anche ascoltare nella sua città Radio Londra; anche reagire con queste parole: "Farebbero meglio a farci studiare", quando il duce teneva discorsi al Paese e  a scuola si era costretti ad ascoltarli; anche dirle, quelle parole, sotto gli sguardi minacciosi delle figlie dei gerarchi. Ed era stata Resistenza, per Pina, anche quel bando dei giornalai della città durante il fascismo: "Il Tempo! Il Popolo d'Italia! La- Tri - buna!", con quello scandire le sillabe "la- tri"- che in calabrese formano la parola ladri. Era stata Resistenza, il cui valore consegnare ai suoi studenti in quarantacinque anni di insegnamento, anche "quel pezzo di pane che non ho potuto dare a un ebreo che me lo chiedeva dalla feritoia di un vagone piombato". Quel pezzo di pane dato poi, in tutti questi anni, con la testimonianza e la memoria.
 
 
Su quegli anni ha scritto un libro, Felicia Ziparo Lacava. S'intitola Cantavamo Lili Marlene.
Poco prima dell'arrivo degli Alleati suo padre aveva trovato a Serrata, in provincia di Catanzaro, "una caverna per nascondere tutte le ragazze, poiché temevamo lo stupro da parte delle truppe marocchine, di cui ci erano arrivate voci, e anche la ritirata dei tedeschi e la loro reazione". Così i reggini si prepararono a "un'ondata di nemici, americani o tedeschi", e sfollarono tutti "nei paesini o in campagna". I tedeschi si ritirarono invece tagliando i ponti e le ferrovie e "senza dare fastidio ai civili. Non erano SS".
I tedeschi a Reggio Calabria c'erano già prima che l'Italia entrasse in guerra, poiché avevano fatto della città una piazzaforte per il loro esercito verso l'Africa.
Felicia abitava in piazza Sant'Agostino, vicino al distretto militare. Rideva al mattino quando vedeva i tedeschi partire dal loro presidio per i rifornimenti in città. La facevano ridere "la loro disciplina, le loro mosse". Lei aveva fiducia che Mussolini non entrasse in guerra.
Ma la campagna d'Etiopia aveva già fatto maturare nella sua coscienza e in quella dei suoi concittadini l'antifascismo. Già allora  "la popolazione reggina era piombata nella miseria, si era dovuto fare ricorso alle scarpe di cartone, al mercato nero.  E poi i fascisti non si rassegnarono e ripresero a illudere il popolo con la campagna di Spagna".

Il padre di Felicia, Alberto, era un  funzionario delle ferrovie. Era antifascista ma aveva accettato di indossare la divisa fascista per sfamare la sua famiglia. Si definiva "un milite involontario nella milizia volontaria". L'ingegnere Strologo lavorava con lui a un progetto per la ferrovia in collina, che liberasse la costa dai binari. Una sera  avevano lavorato fino a tardi. La mattina dopo Alberto Zipora non vide più il suo compagno ebreo. Era sparito. Lo avevano preso. Quando Alberto lesse Il Manifesto della razza capì; restituì la divisa fascista. "L'indifferenza uccide", disse.
Il marito di Felicia, Vincenzo, era stato mandato in Russia. "Tornò e si mise con i partigiani, un gruppo di reggini nascosti nell'appartamento di un geraca  fuggito in Svizzera". Felicia lo dava per morto. In un altro dei paesini dove rimase in attesa della fine della guerra, Cannitello, vide soldati che, dopo l'8 settembre, cercavano di tornare a casa, in Sicilia. Gli sfollati accorrevano a dar loro pezze, stracci per avvolgersi i piedi insanguinati. E quei soldati compravano barche sulla spiaggia. La Sicilia era così vicina che sembrava di poterla toccare con un dito in quel punto dello Stretto. Essi volevano attraversarlo subito. Ma alcuni naufragavano. E di notte Felicia li sentiva gridare aiuto.  "Erano grida strazianti, in mezzo alle correnti del mare".
Quando Felicia tornò in città a casa sua "c'erano solo i muri". Era contenta perché il colonnello Poletti delle truppe alleate aveva fatto riaprire l'Università di Messina. Questa era già stata per lei la Liberazione, prima ancora del 25 aprile. Ma bisogna festeggiarlo, il 25 aprile, per ricordare tutti insieme che cosa è stata la guerra. "La guerra che è una cosa feroce che continua per la produzione di armi", dice  adesso Felicia. 

(ilnuovo 25 aprile 2002)

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