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Scioperi marzo 1943
di Gabriele Polo
Il 5 marzo 1943 la sirena della fabbrica, che suonava regolarmente
ogni mattina alle dieci, rimase silenziosa: il segnale che doveva far partire il primo
sciopero dopo diciotto anni di niente era stato disinnescato dalla direzione. Qualcuno
aveva avvertito la Fiat. All'officina 19 di Mirafiori, Leo Lanfranco - manutentore
specializzato, reduce dal confino e assunto nonostante il suo curriculum di comunista
perché «sapeva dominare il ferro» - decise di muoversi lo stesso, lasciò la macchina,
fece un gesto con le mani e tutta l'officina si fermò. Il piccolo corteo si mosse in
direzione delle presse raccogliendo qua e là l'adesione di altri operai. Non era un
blocco massiccio, ma era la prima volta. Da quel giorno le fabbriche di Torino
cominciarono a fermarsi, con un crescendo che fece impazzire questura e partito fascista,
fino al blocco totale del 12 marzo e all'estensione dello sciopero a Milano, all'Emilia,
al Veneto. Un marzo di fuoco. Appena dopo Stalingrado, prima del 25 luglio, molto prima
dell'8 settembre, sono gli scioperi del marzo `43 a segnare l'inizio della fine del
ventennio fascista. Scioperi contro la guerra, contro la fame, contro il regime; quando la
borghesia italiana è ancora muta, i partiti antifascisti solo l'ombra di quel che erano e
ridotti alla dimensione di gruppetti clandestini, gli intellettuali combattuti tra
fedeltà alla patria e disaffezione per l'uomo del destino; quando le fabbriche sono
militarizzate e scioperare può costare il tribunale speciale, l'accusa di tradimento, la
galera, e, poi, la deportazione, la prospettiva del lager. Il 5 marzo del `43 è la data
del «risveglio operaio», il riannodarsi del filo rosso spezzato nel `22 e reciso -
sembrava definitivamente - con la guerra di Spagna. Il vero inizio della Resistenza.
Partono da Torino - «città porca» per Mussolini - e si estendono a tutto il nord:
continueranno fino alla fine della guerra, passando per la strage badogliana delle
Reggiane del 28 luglio `43, le grandi agitazioni dell'autunno successivo e della primavera
`44 che costano migliaia di operai deportati nei lager nazisti, fino all'insurrezione del
25 aprile `45, alle fabbriche occupate e autogestite. E, tra un evento e l'altro, la
migrazione dalle officine alle montagne, la scelta di combattere in armi, spesso
individuale, a volte collettiva con centinaia di lavoratori che - quasi in corteo -
abbandonano la fabbrica per aggregarsi alle formazioni partigiane, come i ferrovieri della
Val Susa, come i cantieristi di Monfalcone. E' la guerra di classe dentro la guerra di
Liberazione: tutto ha origine da quel gesto di Leo Lanfranco, da quelle braccia che si
incrociano e si allargano, come a dire «basta, stop, finito».
Finito il silenzio: il marzo `43 nasce dall'estraneità operaia al regime, dalla mancata
fascistizzazione dei lavoratori dell'industria. Distrutte, con stragi e confino, le
avanguardie comuniste e socialiste del biennio rosso, dissolta la Cgil a palazzo Vidoni e
conquistato il suo segretario generale, D'Aragona, il regime rende mute le fabbriche, le
occupa ma non le fa proprie. E dove la concentrazione operaia è più densa, come a
Torino, la distanza dal fascismo rimane: lo segnalano puntualmente i rapporti dell'Ovra e
dei federali, lo rimarca l'inaugurazione di Mirafiori del maggio `39 con il silenzio
operaio di fronte al discorso di Mussolini (che si infuria), lo rende chiaro la guerra.
Nel ventennio la fabbrica è gestita dai padroni e dai sindacati fascisti, non è più il
luogo della comunità operaia. Non bastano i dopolavoro a creare una socialità di regime,
i lavoratori preferiscono i circoli di barriera e le osterie: lì si ritrovano e lì
scorre il fiume sotterraneo della memoria, lì si rafforza la lontananza dal «baraccone
di Cerutti» (come veniva chiamata la banda di Mussolini). Non c'è opposizione, c'è
diffidenza e distanza. Quando scoppia la guerra, quando a 24 ore «dall'ora solenne che
bussa» sul cielo di piazza Venezia cominciano a cadere le prime bombe su Torino e sulle
altre città del nord, quella distanza diventa malessere che si gonfia con le tessere
annonarie, gli sfollamenti, la borsa nera, la militarizzazione delle officine e l'orario
di lavoro che aumenta fino a 12 ore al giorno.
Già negli ultimi mesi del `42 dalle fabbriche torinesi e milanesi giungono sul tavolo dei
gerarchi romani rapporti allarmanti che parlano di prime fermate spontanee, di rischi di
saboraggio, di «diffusa disaffezione al lavoro» e al regime. I giovani che arrivano in
fabbrica dalle «scuole operaie» incontrano vecchi lavoratori con la memoria del biennio
rosso. Portano con sé una spontanea curiosità per tutto ciò che è diverso dal grigiore
del fascismo e dal cupo clima di guerra, una predisposizione alla ribellione che si
affianca fisicamente ai saperi (professionali e politici) della generazione precedente:
«allievo» e «maestro» costruiscono un sodalizio che, contaminandosi, trasforma
l'estraneità al fascismo in avversione. In quei mesi Umberto Massola, dirigente
comunista, rientra in Italia con lo scopo di ricostituire il «centro interno» cento
volte smantellato: nella città della Fiat riannoda la rete del partito (lo racconta
splendidamente in una testimonianza filmata raccolta da Paolo Gobetti e conservata presso
l'Archivio nazionale cinematografico della Resistenza di Torino) e punta sulle fabbriche,
su Mirafiori. L'intuizione è quella di preparare una sorta di «piattaforma sindacale»,
rivendicazioni che possano raccogliere il consenso delle masse operaie già arrabbiate e
forse «pronte». Non più «cospirazione militare», ma preparazione clandestina di una
lotta di massa. Nei primi mesi del `43 piccole fermate spontanee alle Ferriere, alla
Diatto, alla Fiat Spa e in altre fabbriche fanno capire che è giunto il tempo di uno
sciopero vero e proprio, contro la guerra, la miseria delle condizioni di vita e di
lavoro, il regime: «pane, pace e libertà». La rete clandestina è sempre più fitta, ma
non potrebbe stringersi senza quella predisposizione covata a lungo nelle osterie di
barriera e cresciuta spontaneamente sotto i bombardamenti e nelle lunghe ore di lavoro
militarizzato.
La «piattaforma» chiede il riconoscimento delle 192 ore a tutti, l'estensione cioè a
ogni lavoratore di quella gratifica economica (192 ore di salario) data agli operai
sfollati dalle città in conseguenza dei bombardamenti. E la fine della militarizzazione
delle officine. Ciascuna fabbrica ci aggiunge qualcosa, soprattutto su orario e condizioni
di lavoro. Con queste richieste parte lo sciopero del 5 marzo, quello della sirena che non
suona e che ne smorza l'effetto. Ma nei giorni successivi si muovono altre fabbriche
(Grandi Motori, Fiat Aeronautica, Savigliano, Lancia, Riv) e Mirafiori si ferma
completamente il 12 - insieme a tutte le altre industrei torinesi - stavolta non alle 10
del mattino, ma dopo la pausa della mensa: gli operai non rientrano nelle officine e il
salone che «sfama» i 15.000 addetti della più grande fabbrica italiana diventa il
teatro di decine di comizi e capannelli. Di lì il movimento crescerà e si allargherà a
tutto il nord, soprattutto a Milano, alla Falk, alla Breda, alla Marelli.
«Non sapevo che stavo facendo uno sciopero, per me era una protesta, la parola sciopero
mi era sconosciuta» - ricorderà molto più tardi un allora giovane operaio appena uscito
dalla «scuola allievi Fiat» - «ho scoperto in quei giorni cosa volesse dire quella cosa
di cui parlavano i vecchi, quel movimento solidale che fa di tanti corpi un'entità sola.
E, poi, il senso di libertà: si diceva che in fabbrica c'erano dei comunisti, dei
socialisti, ma nessuno sapeva chi fossero... erano qualcosa di mitologico. In quei giorni
sono emersi dalle tenebre, si sono scoperti e in quella lotta si riconoscevano l'un
l'altro». Parole che spiegano bene il duplice senso degli scioperi del marzo `43:
l'emergere dal buio del conflitto sociale, il suo estendersi nel riconoscersi in una
condizione comune da combattere e cambiare, la sua valenza politica. Si può dire che
anche la Cgil rinasce in quell'occasione, che in quel movimento si fondano le basi per un
sindacato generale, l'opposto della natura corporativa dei sindacati fasciti, che i
comunisti della clandestinità tentarono vanamente di infiltrare durante gli anni `30 per
ricollegarsi alle masse operaie. Un ricongiungimento che avviene solo nel pieno del
conflitto, su una base rivendicativa materiale che assume caratteristiche generali. La
cosa che non sfugge al regime. La repressione è immediata: non riesce nei giorni degli
scioperi - che si concludono con conquiste salariali e la mediazione di Valletta corso a
Roma per convincere il regime a dare agli operai almeno una parte di ciò che chiedono -
nonostante le spedizioni punitive davanti alle fabbriche; ma nelle settimane seguenti
oltre duemila lavoratori vengono fermati, molti di loro arrestati e spediti davanti al
tribunale speciale. Ma il movimento non si ferma, rallenta la sua corsa per riprenderla
qualche mese dopo e dal marzo '43 le fabbriche italiane diventano un problema in più per
Mussolini, che investe di vane sfuriate i suoi gerarchi. E vana sarà anche la
«socializzazione» proposta da Salò per riconquistare il consenso operaio con
un'operazione tipicamente corporativa (la comunità produttiva della fabbrica tra azienda,
sindacati fascisti e lavoratori contro la borghesia parassitaria) che annuncia persino
presunti vincoli alla proprietà: l'ostilità operaia al fascismo diventerà sempre più
radicale e attiva. Da quel momento, per decenni, le fabbriche saranno altra cosa dal
potere economico e politico.
In quegli scioperi per la pace, il pane e la libertà risiede ancor oggi una parte
importante della costituzione materiale della repubblica: non furono un episodio torinese
o milanese, né solo una tappa della storia del Partito comunista italiano; furono
l'esplicitarsi della natura democratica del conflitto operaio, dell'ostilità del lavoro
alle logiche di guerra e dell'irriducibilità sociale del conflitto di classe.
(Il Manifesto, 5 marzo 2003)
Gli
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