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Saggi sul fascismo
La fotografia strumento
dellimperialismo fascista
di Stefano Mannucci
La guerra dEtiopia rappresentò per
lIstituto Luce un momento senzaltro cruciale nel suo rapporto con il regime
fascista, raggiungendo il coronamento ufficiale della sua posizione allinterno della
macchina della propaganda. Nonostante la presenza di diverse altre agenzie fotografiche,
lIstituto Luce, infatti, detenne il monopolio della diffusione delle immagini
coloniali che furono portate a conoscenza degli italiani. La famosa fotografia di Alfred
Eisenstaedt, che ritraeva i piedi scalzi di un soldato abissino morto, fece il giro del
mondo, ma non fu mai fatta circolare in Italia. Se allesercito ed allaviazione
furono accordati armamenti ed uomini di quantità imponenti, allIstituto Luce,
sicuramente, furono concessi altrettanti mezzi ed agevolazioni.
Ad un mese dallinizio delle operazioni belliche,
precisamente il 7 settembre,
era stato lo stesso Mussolini a comunicare ai ministeri della Guerra,
della Marina, dellAeronautica ed al Capo dello Stato maggiore della milizia, di aver
disposto, da parte del Luce, la costituzione di un reparto foto-cinematografico per
lAfrica Orientale. Egli chiedeva, pertanto, a tali ministeri la massima
collaborazione con il reparto del Luce, al fine di poter effettuare una propaganda
coordinata ai massimi livelli. Il Museo Coloniale di Roma mise a disposizione del nuovo
Reparto tutto il suo materiale di pellicole e foto, il Ministero della Guerra e quello
della Marina
elargirono, a titolo di contributo, anche quattrocentomila lire ciascuno.
Mussolini nominò De Feo
come direttore, e decise che la sede fosse adibita ad Asmara, dove sarebbe stato situato
anche il Quartiere generale delle forze militari italiane. A Roma, invece, fu creato un
comitato interministeriale, composto dai tre ministeri militari, da quelli degli Interni,
delle Colonie, della Stampa e Propaganda.
Il 12 settembre, il consiglio damministrazione
del Luce diede vita formalmente al Reparto AO, iniziando a mettere in piedi
unorganizzazione di grandi proporzioni, destinandovi uomini e mezzi. Ad Adigrat era
sistemata la sezione avanzata del Reparto, alla quale affluiva tutto il negativo
impressionato, per poi essere inviato, tramite motociclette od autocarri postali o
autocolonne, alla Direzione Generale di De Feo allAsmara. Una volta diviso per
argomenti, elencato in appositi moduli esplicativi, esso veniva spedito in Italia, per via
aerea o marittima a seconda del suo carattere di attualità, in modo tale che gli
avvenimenti riportativi non arrivassero in ritardo.
Le diverse unità fotografiche erano dislocate sui
vari punti del fronte, dotate ciascuna di carri-laboratorio che consentivano di sviluppare
e stampare le foto sul posto, e quindi di distribuirle agli inviati della stampa circa tre
ore dopo la conclusione dogni evento. Per le azioni sul fronte eritreo, ogni
operatore era a capo di un nucleo someggiato, e disponeva di un assistente, di cinque
ascari e un muntaz, di cinque muletti per il trasporto del materiale fotocinematografico e
logistico.
I fotografi erano Chiari, Giovinazzi, Miniati, Ottolenghi, Bovini, Moccia, cui si
aggiungeva Craveri, che si destreggiava con abilità fra la fotografia e le riprese
cinematografiche.
Paulucci di Calboli, a guerra finita, scrisse una
lettera
di relazione a Mussolini, per tracciare un primo bilancio consuntivo delloperazione,
dichiarando di aver realizzato circa 70.000 metri di negativo cinematografico ed oltre
7.000 negativi fotografici, da cui, una volta sviluppati, vennero distribuite circa
350.000 immagini del conflitto, sia in Italia sia allestero. Una copia delle
fotografie era anche inviata ad enti come la Società africana dItalia di Napoli,
lIstituto coloniale italiano ed il Museo Coloniale di Roma.
Il Luce effettuava la propaganda anche nei confronti
delle truppe, attraverso la produzione di un considerevole numero di serie fotografiche,
stampate in piccolo formato (di solito il 60x90 o il 65x93) e destinate appunto ai
soldati, in un ampio disegno di pedagogia imperiale, volto a celebrare la superiorità
militare, razziale, materiale dellItalia. Inoltre, una coppia di unità mobili,
dotate di autocarri cinesonoro, si spostava continuamente per proiettare cinegiornali e
documentari ai soldati ed alle popolazioni locali, con lo scopo di tener alto lanimo
dei soldati, e contemporaneamente impressionare gli indigeni, mostrando loro appunto la
potente attrezzatura civile e militare italiana, nonché ladesione del popolo al
duce.
Il 3 ottobre 1935, LItalia iniziò ad invadere lEtiopia, per poi
conquistarla appena dopo sette mesi. Il Reparto Luce AO testimoniò la guerra seguendo
lottica del regime. Le sue fotografie dovevano dipingere la terra etiopica, agli
occhi dei proletari disoccupati o dei contadini affamati, come un immenso e ricco paradiso
da colonizzare. Agli occhi dei borghesi bisognava illustrare la prospettiva di redditizie
carriere e prosperosi affari nello sfruttamento della colonia. Ai giovani, infine, la
fotografia doveva alimentare limmaginario della guerra come viaggio avventuroso,
come unevasione dalla noia della vita normale, che avrebbe condotto alla gloria ed
al successo.
Il Reparto Luce AO non riprese mai scene che potessero
danneggiare limmagine di potenza dellesercito italiano, riprendendo le varie
postazioni dartiglieria incolumi da ogni pericolo. Gli operatori del reparto
seguirono le truppe, mentre avanzavano tranquille verso le prime linee non incontrando
ostacoli, o si apprestavano a posizionare il filo spinato nelle postazioni difensive lungo
lUebi Scebeli, od ancora si prodigavano a liberare gli schiavi ed a gettare le basi
per la modernizzazione del paese. Le difficoltà territoriali erano utilizzate, semmai,
per esaltare la figura di un soldato che, scalando le ambe etiopiche, domava la natura
ribelle, spinto dalla forza della propria volontà e dellideologia fascista che lo
guidava.
Le fotografie propagandavano con insistenza
unimmagine alquanto umanitaria della guerra e delloccupazione italiana. Esse
amplificavano il messaggio politico del soldato buono, stando attenti alle direttive, che
però imponevano di evitare di dimostrare intimità fra i soldati italiani e gli abissini.
Le fotografie dovevano dare limpressione di
benevolenza da parte dei soldati verso gli indigeni, ma non di cordialità, di protezione
ma non di affetto.
Per costruire tale immaginario, il Luce AO non
documentò nessuna delle atrocità italiane, né durante il conflitto, né durante gli
anni successivi alla proclamazione dellimpero. Non fu fotografato lutilizzo e
gli effetti delle armi chimiche, tuttavia, ampiamente usate in Etiopia, fino a circa il
1939. Il Luce ha lasciato soltanto indizi di tale utilizzo, come le fotografie
dellottobre 1935, riguardanti la preparazione dellautotreno chimico nei pressi
del Colosseo, od ancor prima, le fotografie scattate nel maggio dello stesso anno, che
riprendevano la dimostrazione bellica, da parte dellesercito, degli aggressivi
chimici e delle cortine di nebbia artificiali, alla presenza del duce.
Furono altri fotografi a riprendere lallucinante
sequenza delle fotografie che ritrassero la testa mozzata del dejach Hailù Chebbedé,
esposta al ludibrio sulle piazze dei mercati di Socotà e Quoram, o le stragi di migliaia
di etiopici compiute ad Addis Abeba dopo lattentato del 19 febbraio 1937 contro il
viceré Graziani, durante la distribuzione dei talleri dargento ai poveri della
città, al Piccolo Ghebì, in occasione della nascita del primogenito del principe Umberto
di Savoia.
Fu proprio un operatore dellIstituto Luce, il
viareggino Danilo Birindelli, incaricato di seguire la cerimonia, a caricare Graziani,
svenuto e sanguinante, sopra di un automobile per trasportarlo allospedale della
Consolata. Birindelli raccontò successivamente in unintervista,
che aveva con sé tre fotografie, scattate da un suo collega, che riprendevano i momenti
dellesplosione delle bombe. La censura ne aveva però vietato sia la pubblicazione
sia la distribuzione alla stampa.
Il controllo e la censura sulla fotografia coloniale,
da parte del regime fascista, erano daltronde precedenti al conflitto etiopico. Nel
giugno del 1930, lo stesso Graziani, lallora vice-governatore della Cirenaica, aveva
diramato una circolare,
in cui saffermava che era assolutamente proibito prendere fotografie di esecuzioni
capitali, ed esigeva da tutte le autorità preposte il massimo rispetto di tale ordine.
Graziani era stato indotto a tale circolare, dalla pubblicazione su Afrique Française di una fotografia di impiccagioni di residenti
libici, eseguite a Barce il 21 giugno 1930.
Lintenzionalità politica, soggiacente a tale
censura, era di impedire che eventuali notizie, ed ancor di più fotografie, potessero
minare limmagine della pacificazione delle colonie, che il regime
fascista propagandava allinterno della società italiana. I giornali non dovevano
ammettere lesistenza di una resistenza etiopica contro limpero, ma descriverli
come sporadici episodi di brigantaggio. Alcuni fotografi, tuttavia, ripresero non soltanto
il momento dellattentato e del trasporto di Graziani ferito, ma anche la violenta
repressione e le innumerevoli rappresaglie dellesercito italiano, comprese le
drammatiche immagini di centinaia di tuculs divampanti in roghi, sotto lazione dei
lanciafiamme italiani, o dellincendio del quartiere indigeno di Addis Abeba nella
notte del 19 febbraio.
Molte di queste immagini erano state effettuate dai soldati che parteciparono agli stessi
massacri.
Oltre alle squadre ufficiali dellesercito,
infatti, lo sviluppo delle macchine fotografiche portatili, semplici ed a basso costo,
aveva spinto molti soldati a munirsene per fotografare i propri ricordi di guerra,
riprendendo anche uninnumerevole quantità di scene crude e cruenti, che iniziarono
a circolare fra le varie truppe. La Domenica del Corriere aveva
destinato, fin dai primi mesi del 1935, le sue due pagine di fotografie del pubblico alle
immagini inviate dai soldati in A.O.
La rubrica, intitolata per loccasione Africa
Orientale Italiana, proponeva molto spesso unimmagine najona e
rassicurante della guerra, attraverso fotografie che ritraevano i divertimenti caserecci
delle truppe, o raffiguranti le donne indigene nude, seguendo così il filone esotico e lo
stereotipo iconografico della Venere Nera,
un mito, o meglio un luogo comune, largamente diffuso non soltanto fra i soldati che
parteciparono alla campagna etiopica, ma anche nel resto della popolazione italiana.
Soltanto con lapprossimarsi della fine del conflitto, iniziarono ad essere
pubblicate, su tali pagine, fotografie di feriti italiani o di cadaveri di ascari.
Se le atrocità commesse nei confronti degli italiani
o della popolazione etiopica non vennero dunque sempre mostrate in Italia, per non turbare
lopinione pubblica, il regime, però, si appropriò ben presto di queste immagini
clandestine. Tale produzione amatoriale, infatti, fu utilizzata dal regime per dar forza e
credito alla facciata dellintervento umanitario, ed entrò a far parte di una serie
fotografica che fu ufficialmente utilizzata per documentare le crudeltà e le barbarie
etiopiche davanti alla Società delle Nazioni, a giustificazione dellintervento
italiano in nome della civiltà e del progresso.
Le fotografie riprendevano gli effetti delle
pallottole dum dum, alcuni etiopici vittime
della maschera di fuoco, nonché le immagini del massacro del cantiere n.1
della Gondrand, avvenuto ad opera di guerriglieri etiopici allalba del 13 febbraio
1936, durante il quale vennero uccisi e mutilati tutti gli operai. Ma i soldati avevano
documentato anche le atrocità degli italiani sulla popolazione civile, dalle innumerevoli
rappresaglie agli effetti devastanti delluso dei gas chimici.
La circolazione in Italia di queste immagini iniziò
nel luglio del 1936, con il rientro dei primi soldati dellAOI, mettendo a
scompiglio, e di conseguenza mobilitando, lintero apparato poliziesco del regime. Un
rapporto riservato di polizia
rivelava, inoltre, come molti reduci dellAO avessero con se delle fotografie, che
ritraevano orribili scene di italiani torturati e barbaramente mutilati, di immensi cumuli
di soldati italiani morti gettati alla rinfusa sopra autocarri, ed altre immagini ancora
inadatte e dannose per il pubblico. Tali fotografie andavano ad avvalorare il malcontento
ed i racconti di molti volontari reduci dallAO, che in gran parte ancora
disoccupati, smontavano lentamente il quadro roseo della gloriosa e vittoriosa guerra
fascista, descrivendo la dura realtà etiopica, caratterizzata dal caldo, dalla
dissenteria, da una pacificazione ancora lontana ad avvenire, con le continue voci sulla
ribellione perdurante nei territori occupati.
I problemi riguardanti tali immagini vennero,
tuttavia, ben presto risolti, mettendo tutto a tacere, sotto lincombenza della
guerra di Spagna, ove, fra laltro, furono inviate alcune truppe dellAO.
Ritornando alla produzione del Luce AO, esso iniziò a
documentare il più possibile la ricchezza della colonia. Il Luce AO effettuò molte
riprese aeree,
che oltre a seguire i movimenti delle truppe, potevano essere utilizzate per mostrare la
terra a disposizione dei coloni.
Se agli inizi del secolo, si erano fotografati le
barbabietole ed i cavolfiori giganti,
per sottolineare le potenzialità commerciali e le generosità delle colonie, il Luce AO
indirizzò costantemente i propri obiettivi sulle immense piantagioni di caffè,
intervallati da qualche immagine di raccolta o coltivazione delle banane o da qualche
scorcio di miniere platinifere.
Un altro aspetto saliente della produzione del Luce AO
era la continua esposizione delle attività delle massime autorità del regime, seguendole
in tutte quelle manifestazioni che il regime voleva fossero enfatizzate. Il quadrumviro De
Bono, il maresciallo Badoglio, il generale Graziani, Vittorio e Bruno Mussolini
mentre pilotavano, Ciano in visita o Starace sul lago Tana, erano continuamente ripresi.
Innumerevoli fotografie ritraevano Graziani mentre passava in rassegna i soldati, premiava
i valorosi decorandoli al merito, parlava ai notabili etiopici, o riceveva gli omaggi
della popolazione.
Attraverso le fotografie dei gerarchi, il regime
intendeva così mettere in risalto come la guerra dEtiopia fosse una guerra
combattuta in prima persona dal fascismo e dai suoi uomini scelti. La presenza di
Mussolini, a fianco dei soldati, era fatta avvertire dalle fotografie del Luce, che
immortalavano i suoi ritratti, innalzati allinterno delle trincee delle legioni
delle camicie nere.
Intanto, il 2 maggio 1936, il negus Hailé Selassié
abbandonò il suo impero, per rifugiarsi allestero. Alla notizia della partenza del
negus per lesilio, Addis Abeba precipitò nel caos, divenendo teatro di disordini,
saccheggi e violenze. Le truppe italiane aspettarono tre giorni per occupare la città. La decisione era stata di Mussolini, che
intendeva così sfruttare la tragedia etiopica, affinché lItalia potesse
atteggiarsi a salvatrice di un popolo semibarbaro, ancora incapace di gestirsi da solo. Il
5 maggio, il Luce, durante lentrata delle truppe nella città, fotografò i corpi
senza vita degli etiopici, abbandonati per terra.
Per suggellare in maniera epica la vittoria, i
fotografi ritrassero una camicia nera che, salita sopra di una scala, demoliva il leone
imperiale scolpito sul muro di un edificio, ed anche la statua di Menelik, nel momento
stesso in cui veniva tolta dal piedistallo.
Il consenso della popolazione etiopica nei riguardi
dei gerarchi fascisti, inoltre, veniva costruito fotografando le cerimonie di
sottomissione dei capi etiopici arresisi, nellatto dinchinarsi e baciare la
bandiera italiana, o le folle di ascari inneggianti che alzavano striscioni pro duce, o le
accoglienze della popolazione che mostrava la propria gratitudine alle truppe italiane.
Ricorrenti erano anche le immagini di bambini od uomini che, liberate le braccia dalle
catene della schiavitù, ora potevano ergersi, a volte goffamente, nel saluto romano a
ringraziare i propri salvatori.
La pacificazione
ed il conseguente sviluppo dellEtiopia, invece, erano rappresentati attraverso le
fotografie delle rapide costruzioni di strade, di ferrovie
e ponti, di villaggi per gli etiopici, di panifici, mulini, pastifici. Furono fotografate,
in primo piano, linstallazione dei pali della luce o delle antenne della radio, od i
missionari che, in una scuola allaperto, insegnavano ai bambini a scrivere sulla
lavagna, frasi come io amo la mamma, tu ami il papà, egli ama lItaglia.
Ancora più interessanti, erano le fotografie che attestavano la distribuzione, alla
popolazione etiopica, di aratri dai nomi altisonanti quali Adua od
Axum, ma dalla scarsa capacità nel dissodamento del terreno,
testimoniando, ancora una volta, la priorità dellimmagine sulla sostanza.
La colonizzazione civilizzazione era
testimoniata dalle ambigue fotografie, che testimoniavano cosa sintendesse, per il
regime, con il termine di civilizzazione. Esse, infatti, riprendevano linquadramento
sistematico della gioventù locale nelle organizzazioni pedagogiche, che subito vennero
espatriate. Iniziarono, così, i saggi ginnici della Gioventù Etiopica del Littorio.
Altre fotografie, invece, riprendevano gli ascari e gli indigeni durante gli
addestramenti, o mentre, ordinati in riga, facevano il saluto fascista.
Le fotografie degli ascari e delle truppe indigene,
erano, senzaltro, le immagini prevalenti e preferite per rappresentare e celebrare
lopera civilizzatrice dellItalia.
La fotografia dellascaro, durante il periodo
fascista, consacrava lelevazione in soldato di un guerriero precedentemente
seminudo, primitivamente armato, fondamentalmente crudele.
Lascaro, una volta indossata luniforme e
soggetto alla disciplina, combatteva
valorosamente al servizio dellautorità italiana, portatrice di civiltà,
rappresentando così lemblema attraverso cui enfatizzare i meriti del regime
fascista in suddetta trasformazione.
Innumerevoli fotografie del Luce testimoniavano anche
linsediamento ad Addis Abeba della casa Littoria, della sede del Banco di Roma, o di
negozi italiani, le cui insegne erano denominate Azienda Alimentari,
Prezzo Unico, Farmacia Littoria, Libreria
dellImpero, Ala Littoria S.A., Premiata
Pasticceria Lasagna, il Cinema Impero, che trasmetteva un
film intitolato Il ladro delle Casbah, ed un cinema per etiopici, che
invece trasmetteva Il poliziotto Schwenke. Il Luce, infine, fotografò
anche la filiale della Fiat, i padiglioni della Lancia, la sede dellOlivetti, il
fabbricato della ditta del legno Hendel.
Dopo la vittoria,
il reparto Luce continuò ad operare a ranghi ridotti, e fu trasferito da Asmara ad Addis
Abeba, dove cera soltanto il laboratorio per sviluppare e stampare le fotografie;
mentre i film dovevano essere spediti a Roma per i successivi processi di sviluppo e
stampa. In seguito, finito limpegno continuo e residenziale, i fotografi del Luce
tornarono in Africa soprattutto per accompagnare le visite dei vari gerarchi del regime, o
per immortalare inaugurazioni o cerimonie pubbliche, o per documentare i successi della
colonizzazione demografica italiana.
A tal fine, i fotografi del Luce simbarcarono
con i ventimila coloni diretti in Libia nellottobre del 1938. Essi fotografarono le
varie fasi dellintero viaggio, riprendendo sia le solenni manifestazioni, pervase da
un clima di festa, per la partenza dai porti di Genova e Napoli, sia Mussolini che passava
in rivista le quindici navi del convoglio, allaltezza di Gaeta, sia ancora
larrivo dei coloni a Tripoli, nellalba del 2 novembre, accolti dal governatore
Balbo, che li aveva preceduti in volo. I fotografi ripresero Balbo inginocchiarsi a terra
per recitare il Pater Noster, nel tripudio della folla, pronta a sistemarsi nei villaggi
che le erano stati promessi ed assegnati.
Conclusa pertanto lesperienza del conflitto
etiopico, il Luce fu oggetto non soltanto di lodi e medaglie al valore, ma anche di
innumerevoli critiche da parte di molti esponenti del regime. Essi si lamentavano della
lentezza o della cattiva qualità di molte fotografie, o dellassenza di una visione
eroica e fascista della guerra nei cinegiornali e nei documentari, cercando così di
danneggiare limmagine del Luce agli occhi di Mussolini. Il duce, che considerava il
Luce come un organo tecnico cinematografico dello stato alle sue dirette dipendenze, per
manifestare pubblicamente la sua stima alla dirigenza del Luce, aveva ricevuto a Palazzo
Venezia Paulucci di Calboli con lintero consiglio damministrazione
dellIstituto.
Sicuramente, soggiacente a tali critiche, vi era
lintenzionalità, da parte di molti gerarchi, di minare il monopolio ufficiale di
ripresa degli avvenimenti detenuto dal Luce. Già il 28 maggio 1936 il Capo di Stato
Maggiore del Comando delle Forze Armate dEtiopia gen. Melchiade Gabba
diramò un foglio dordine, concernente lo scioglimento del Reparto Luce per il
servizio fotocinematografico in AO, innestando le proteste di Paulucci di Calboli, che
reagì scrivendo direttamente a Mussolini. Il duce, nelloccasione, non sopportando
che qualcuno facesse da padrone in Etiopia al suo posto, scavalcando i suoi voleri, fece
telegrafare a Graziani, al gen. Gabba, al gen. Guzzoni, ed a Casertano, ordinando che il
Reparto del Luce non si toccava. Successivamente, il dirigente dellUfficio Stampa e
Propaganda in AOI, in una lettera datata 4 febbraio 1937, proponeva anchegli lo
scioglimento del Reparto.
Non era certo un caso che Casertano,
dopo tante critiche alloperato del Luce, proponesse di costituire un proprio
gabinetto fotografico, in cui sarebbero stati incorporati gli operatori del Luce, privati
di ogni autonomia operativa per essere sottoposti alle dipendenze dellUfficio. Il
gabinetto sarebbe stato infine dotato di un laboratorio di sviluppo e stampa, da adibire
negli scantinati della sede dellUfficio Stampa e Propaganda AOI in via Mussolini ad
Asmara. Anche le relazioni di Luigi Freddi, Direttore Generale per la Cinematografia,
furono portatrici di aspre critiche nei confronti del Luce, bollato come un ente che non
sapeva o non voleva fare propaganda.
A mio avviso, anchesse appartenevano alla
tattica di una campagna politica denigratoria, che mostrò i veri intenti soltanto nel
1938, allorquando Freddi si rivelò il padrino della costituzione dellINCOM
(Industria Cortometraggi Milano). Non potendo minare lazione del Luce nel campo dei
cinegiornali, lIncom si specializzò essenzialmente nella propaganda. Tali critiche
ed azioni rappresentarono lambizione di un alto dirigente dello stato che metteva in
opera unazione per minare alle basi il prestigio e lefficacia di un organismo
dello stato stesso, ed ancor di più lesistenza di travaglianti lotte di potere
interne al regime fascista.
Un ultimo aspetto da studiare, riguardo alla
fotografia coloniale, è il rapporto fra essa e lo sviluppo delle concezioni razziali. Il
Luce non documentò lapplicazione della legislazione segregazionista razziale varata
nel 1937. Tale legislazione doveva rimodellare i rapporti fra gli italiani e gli etiopici,
che avrebbe condotto ad una piena supremazia dei primi sugli ultimi. I piani urbanistici
furono ridisegnati, per separare definitivamente i quartieri e le aree di abitazione per i
bianchi da quelli della popolazione locale suddita. Successivamente, anche il madamato
fu proibito, pena la reclusione da uno a cinque anni, essendo considerato una minaccia per
la purezza della razza italiana.
Il Luce, tuttavia, ha lasciato molti indizi di tale
segregazione. Basti vedere le fotografie delle manifestazioni di massa nelle colonie, dove
i bianchi ed i neri erano ormai separati, e non più mescolati; o le fotografie che
testimoniavano lesistenza di diversi cinema, quelli solo per la popolazione
italiana, e quelli riservati agli indigeni. Od ancora la stessa Gioventù Etiopica del
Littorio, che dopo la legislazione razziale divenne la Gioventù Indigena del Littorio, ma
non fu mai incorporata nella GIL, rimanendone
sempre unappendice separata, rappresentando ancora una volta la distinzione fra la
popolazione bianca e quellautoctona.
Il Luce riprese il lavoro degli indigeni nelle colonie
italiane, cercando più di costruirvi lottica del consenso, che di documentare la
realtà di subordinazione e sfruttamento alla quale essi erano sottoposti. Raramente gli
indigeni furono fotografati nei loro antichi lavori tradizionali ed artigianali, se non
nel contesto di mercati o feste, come quella di Mescal. Il più delle volte marciavano
come ascari, o ammiravano estasiati le costruzioni innalzate da ingegneri od architetti
italiani.
Se il Luce ha lasciato, dunque, solo indizi della
segregazione razziale, la fotografia per Lidio Cipriani
ha senzaltro rappresentato un ottimo strumento per documentare la superiorità
razziale italiana, cercando di giustificare, e trasmettere visivamente, le proprie
considerazioni antropologiche, intrise di razzista nazionalismo.
Le fotografie ritraevano i tratti somatici degli
indigeni, i loro profili o le circonferenze dei crani. I soggetti erano ripresi sul
modello delle fotografie segnaletiche della polizia, di prospetto e di profilo, cercando
di documentare così le caratteristiche tipiche della fisionomia del soggetto ripreso. I
sudditi coloniali furono così catalogati scientificamente in un repertorio di immagini,
classificati e misurati come singoli o come appartenenti e rappresentanti di determinati
gruppi etnici. La fotografia divenne il principale strumento per testimoniare
linferiorità genetica africana, oltre che per costruire delle solide basi
scientifiche, da cui divulgare la
dottrina di unantropologia razzista, a giustificare così il dominio imperialista
del fascismo.
Laura Ernesto G., Le stagioni dellAquila.
Storia dellIstituto Luce, Roma, Ente dello spettacolo, 2000.
Del Boca Angelo, Labanca Nicola,
Limpero africano del fascismo nelle fotografie dellIstituto Luce, Roma,
Editori Riuniti, 2002.
Goglia Luigi (a cura di), Colonialismo e
fotografia. Il caso italiano, Messina, Sicania, 1989.
Goglia Luigi, Storia fotografica dellimpero
fascista. 1935-1941, Roma-Bari, Laterza, 1985.
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