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Saggi sul fascismo
La Mostra della Rivoluzione Fascista
di Stefano Mannucci
La Mostra della Rivoluzione Fascista, che fu
inaugurata al Palazzo dell’Esposizione di Roma in via Nazionale il 28 ottobre 1932,
nell’anniversario del decennale
della marcia su Roma, rappresentò un grande impegno del regime nel forgiare una propria
immagine ricorrendo ad un insieme complesso di mezzi di comunicazione, assegnando un ruolo
di primo rilievo alla fotografia.
L’impiego della fotografia,
in effetti, fu massiccio e diffuso in tutta la mostra, sebbene essa fosse presente in
forme diverse. Furono impiegate circa 3.127 riproduzioni fotografiche; 2.170 furono i
metri quadri d’ingrandimenti superiori al metro; circa 1.030 le fotografie che
andavano dai formati di 50x65 centimetri a quelli di un metro quadro; più di 8.000 le
fotografie che andavano dai formati 13x18 centimetri a 24x30 centimetri.
L’Istituto Luce aveva appositamente approntato un
laboratorio nella vicina via Cernaia, per produrre e sviluppare gli ingrandimenti
fotografici e raccogliere tutto il materiale necessario per la realizzazione della mostra.
Le immagini erano ricavate da materiali documentari o di repertorio d’istituzioni
statali, oltre a quelle inviate per l’occasione dai privati.
L’iniziativa di richiedere alle organizzazioni
del partito fascista un contributo documentario alla mostra, infatti, aveva consentito un
ritorno di ben 15.000 fotografie, che vennero selezionate da squadre di storici sotto la
supervisione di Luigi Freddi, prima di essere consegnate ai vari architetti e curatori per
la rielaborazione e l’allestimento. Inoltre, l’appello rivolto verso tutti i
fascisti, a mobilitarsi nella ricerca e nell’invio dei documenti, li fece sentire
partecipi in prima persona nella costruzione della mostra, creando così il presupposto
del grande afflusso di pubblico che si sarebbe successivamente prodotto, ampliato ed
alimentato in continuazione dalla capillare propaganda, diffusa intensamente per tutto il
paese.
Il progetto iniziale della mostra, ideato da Dino
Alfieri nel 1928,
prevedeva che essa dovesse avvenire nel Castello Sforzesco di Milano; ma successivamente,
il PNF, con l’appoggio di Mussolini, decise di spostare la sede espositiva a Roma per
assicurarle un maggior successo di pubblico. Proprio a tal fine, le ferrovie decisero di
praticare il 70% di sconto sul biglietto, che concedeva anche il diritto ad un ulteriore
sconto sul prezzo d’ingresso.
Gli architetti Mario De Renzi e Adalberto Libera
coprirono interamente la facciata del Palazzo dell’Esposizione, sostituendola con una
struttura geometrica di colore rosso. Davanti ad essa, spiccavano quattro fasci metallici
alti 25 metri, collegati alla pensilina dell’ingresso su cui poggiavano dei caratteri
dai colori metallici, misuranti ognuno due metri, che formavano il titolo della mostra
stessa. Ai due lati della facciata, si stagliavano due X di lamiera alte 6 metri, ad
indicare l’anno decimo dell’era fascista, inaugurata appunto con la marcia su
Roma. Dal punto di vista estetico, la facciata si imponeva come una fortezza od
un’inesorabile e minacciosa macchina da guerra.
La stessa stilizzazione del fascio richiamava
l’immagine di una futuristica fabbrica o del fumaiolo di una nave, collegando così
il mito della romanità alle intenzioni moderniste della rivoluzione fascista. Era stato
lo stesso Mussolini, d’altronde, ad impartire l’ordine, ai realizzatori della
mostra, di “far cosa d’oggi, modernissima dunque, e audace, senza malinconici
ricordi degli stili decorativi del passato”,
e dunque una mostra che fosse esteticamente “palpitante di vita virile ed anche
teatrale”.
La percezione dell’immagine guerresca, inoltre,
era evocata in continuazione dalla presenza permanente della guardia d’onore, vestita
in uniforme ed elmetto. Balilla, artisti, architetti e la milizia, si alternavano durante
la giornata a presidiare l’entrata, ed il loro cambio di guardia era immancabilmente
fotografato dagli operatori del Luce.
Salite le scale del Palazzo dell’Esposizione, si
passava attraverso un arco trionfale, al fondo del quale s’intravedeva l’entrata
sormontata da tre X. Una volta entrati, i visitatori si trovavano in un lungo corridoio
tappezzato di scaffali, colmi di cataloghi della mostra. Giunti alla fine del corridoio,
s’imbattevano in una parete su cui si leggeva il giuramento fascista; girando a
destra cominciava il percorso delle 19 sale.
Procedendo dalla sala A (1914) alla sala Q (1922), in
senso antiorario, i visitatori percorrevano tutto il perimetro dell’edificio,
entrando ed uscendo dalle varie gallerie, ognuna allestita con plastici a parete,
fotomontaggi, bandiere, sculture.
L’itinerario della mostra conduceva i visitatori
negli avvenimenti storici italiani dal 1914 al 1922, secondo una lettura fascista della
storia: dal 1914 (sala A) all’adunata del Fasci d’Azione rivoluzionaria (sala
B), alla guerra italiana del 1915-18 (sale C e D); dalla fondazione dei Fasci di
combattimento (sala E) agli altri avvenimenti del 1919 (sale F e G); dal 1920 (sale H e I)
alla presa di Fiume e della Dalmazia (sale L e M); dall’anno 1921 (sala N) fino al
1922 (sala O).
I visitatori avevano così ripercorso la storia del
fascismo, assaliti dalle innumerevoli informazioni visive che straripavano dalle pareti e
dalle bacheche, allestiste in maniera tale da costituire oggetti tridimensionali collocati
sul percorso. Il pittore Mario Sironi aveva allestito le sale P e Q, rispettivamente
relative all’adunata di Napoli ed alla marcia su Roma. L’architettura di tali
sale diventava stabile e celebrativa, ad assolvere il compito di rappresentare la marcia
come un punto fermo nella storia del fascismo, celebrando appunto il momento in cui il
movimento fascista si trasformava in regime.
Dalla sala Q, i visitatori entravano in altre sale
comunicanti, ma non più ordinate cronologicamente. Il “Salone d’onore”
(sala R), dominato da un altorilievo di Mussolini soldato, comprendeva anche la
ricostruzione del primo ufficio di Mussolini al “Popolo d’Italia” in
via Paolo da Cannobio. Subito dopo, vi era la “Galleria dei Fasci” (sala
S), fiancheggiata da pilastri a forma di fascio, e dove erano spiegate le bandiere delle
organizzazioni fasciste. Da qui, si entrava in un’altra sala dedicata al duce, che
oltre alla ricostruzione del suo secondo ufficio al “Popolo d’Italia”
in via Arnaldo Mussolini, narrava gli episodi della sua vita. Con tale disposizione delle
sale, tutti gli eventi finora rievocati apparivano come la diretta creazione della
volontà di Mussolini.
Il percorso si concludeva nel “Sacrario dei
Martiri” (sala U), una cripta circolare, che terminava con una grande cupola,
sulle cui pareti erano state installate delle bande metalliche, che portavano ognuna
l’iscrizione “presente!”. Le basi delle pareti erano foderate da
bandierine e gagliardetti delle varie squadre d’azione, su cui erano riportati i nomi
degli squadristi caduti, venerati appunto come martiri, attraverso anche un impianto
fonico che diffondeva, con tono solenne, l’inno degli squadristi, ad evocare la
presenza spirituale dei martiri della rivoluzione. Al centro del Sacrario si ergeva una
croce di metallo che portava la scritta “Per la Patria immortale”.
Salendo il primo piano della mostra, il visitatore
esaminava una rassegna delle istituzioni e delle organizzazioni del regime, priva però
dell’impatto emotivo delle sale del piano terra. Le sale includevano fotoplastici a
tutta parete, diagrammi e tabelle, a presentare le realizzazioni del fascismo durante il
regime, oltre ad esporre testi, riviste, manoscritti, ed altri materiali appartenenti alla
bibliografia fascista.
L’atmosfera più calma, d’altronde, doveva rappresentare la disciplina e
l’ordine, costruito e conquistato dal regime, rispetto al turbolente periodo
precedente, ricreato nelle tumultuose sale della rivoluzione.
La mostra raccolse un successo che superò le più
ottimistiche previsioni. Furono stampati e venduti circa 250.000 cataloghi, e le sale
furono visitate da quasi quattro milioni di persone. La chiusura fu rimandata diverse
volte, e la mostra rimase aperta per due anni consecutivi, prima di essere trasferita
nella Galleria d’arte moderna in Valle Giulia. Inaugurata una seconda volta nel 1937,
con un diverso allestimento, la mostra fu chiusa nel 1938, ma allo stesso tempo fu
dichiarata permanente da Mussolini.
La fotografia era un elemento centrale
nell’allestimento e nell’architettura delle sale espositive, seppure sotto
diverse forme, che andavano dalle gigantografie ai fotomontaggi montati su pannelli. Dal
punto di vista del contenuto, le immagini riproducevano essenzialmente le sfilate di
camicie nere al ritorno dalle spedizioni punitive, le pose grintose di gruppi armati
davanti all’obiettivo fotografico, le vigilie sulle bare dei caduti, i raduni delle
partenze per la marcia su Roma, foto ricordo di guerra in trincea o di manifestazioni
politiche; il tutto rielaborato secondo un determinato piano logico.
La mostra, infatti, rappresentava, ancora una volta,
la rilettura ideologica della storia nazionale da parte del regime, che fondava così la
legittimazione della propria esistenza in un contesto socio-politico ricreato attraverso i
vari fotomontaggi.
Nella sala G (dal giugno al dicembre 1919), Marcello
Nizzoli aveva rappresentato il movimento degli ex combattenti, creando una sagoma di
fante, ricoperta di fotografie di medaglie al valore, attorniata da altre figure di
dimensioni minori, rappresentanti un ardito, un soldato ed un mutilato, ricoperti da
illustrazioni ritagliate da quotidiani frammiste ad ingrandimenti fotografici di De Bono,
Starace, Balbo.
La fotografia era anche un elemento strutturante
nell’architettura della sala O, ideata da Giuseppe Terragni. Egli ideò un
allestimento basato su fotomosaici e fotomontaggi a tutta parete, che interpretavano gli
episodi salienti del 1922, creando un’immagine che, comprendendo primi piani a piani
medi e lunghi, riproduceva la percezione del tumultuoso ed incalzante evolversi degli
avvenimenti riprodotti, rappresentando il susseguirsi delle azioni squadriste, dalla
mobilitazione contro gli scioperi all’assalto all’“Avanti!”, il
cui incendio era reso plasticamente da rosse fiamme di metallo.
Ancor più importante era il fotomosaico “Adunate!”,
che ricopriva tutta la parete di sinistra della sala O, riproducendo un fotomurale
gigantesco lungo 10 metri, composto di primi piani e sfondi d’adunate oceaniche che
emergevano tra eliche e turbine, dal cui moto si stagliavano delle mani levate nel saluto
romano.
Al centro del fotomontaggio era riprodotta una lettera
di Mussolini, incorniciata nella sagoma di un tamburino, sotto alla quale era apposta la
scritta “Adunate!”. Ai piedi del pannello, erano collocate una serie di
vetrinette, con all’interno cimeli ed oggetti dei caduti fascisti, che si estendevano
per tutta la parete.
L’immagine centrale della massa era contenuta e
risucchiata dalle turbine, e più che indicare la propria partecipazione politica,
sembrava quasi perdere in esse la propria individualità, divenendo materia inerte, pronta
ad essere rimodellata dalle pale delle macchine, per uscirne trasformata nelle mani che si
ergevano protese nel saluto romano.
Innumerevoli gigantografie e fotomontaggi
riproducevano immagini di folle in corteo, adunate squadriste, maree di partecipanti ai
comizi di Mussolini, piazze stracolme di manifestanti, inquadrando così le masse non
soltanto sulle pareti della mostra, ma anche in una logica che costruiva la percezione, ed
insieme l’illusione, di un eterno legame indissolubile fra le masse ed il regime
fascista.
I visitatori venivano aggrediti in continuazione dal
materiale esposto, e questa permanente sollecitazione visiva ed emotiva, faceva sì che
ogni eventuale elaborazione critica e razionale venisse rimandata in continuazione, fin
quasi ad arrivare alla negazione del pensiero valutativo.
Sorta con il proposito di celebrare il decennale, la
mostra glorificò la rivoluzione fascista, ma allo stesso tempo, la rilegò nel passato,
imbalsamando politicamente gli squadristi in una sorta di monolitico tempio mussoliniano.
Se da un lato, infatti, essa enfatizzò la storia della rivoluzione come storia del popolo
italiano, d’altro lato, essa assolutizzò la figura di Mussolini, celebrandone
l’ascesa al potere, ma ancor di più, ponendolo quale unico capo del fascismo, sotto
le vesti di fondatore, guida ed ispiratore di tutto il movimento.
Se il percorso tematico, le cui sale vengono
paragonate da Gentile
a delle stazioni liturgiche di una storia sacra, narrava le origini e le vittorie del
fascismo, la disposizione stessa delle sale rappresentò Mussolini come l’unico
messia di tale religione fascista.
La sua presenza, d’altronde, era avvertita in
tutte le sale, sia sotto forma d’effige, sia attraverso cimeli a lui appartenenti,
quali i diversi frammenti di frasi o di lettere, la barella insanguinata e la stampella di
quando fu ferito durante la guerra.
La stessa centralità delle sale interamente a lui
dedicate, lo rendevano elemento cruciale e decisivo nel successo del fascismo, oltre che a
raffigurarlo come unico rappresentante del legame fra lo squadrismo, trasfigurato ormai
sempre più in leggenda, e l’esistenza stessa del regime. Non era un caso che per
entrare ed uscire dal sacrario, in cui riecheggiava continuamente la registrazione di voci
che intonavano “giovinezza”, bisognasse obbligatoriamente passare per le
sale dedicate a Mussolini, perché, in tal modo, si poteva creare l’impressione di
un’intima unione fra il duce ed i martiri.
Per quanto riguarda la fotografia, essa stessa
diveniva una reliquia della marcia su Roma come le altre reliquie esposte: zaini,
tamburelli, gagliardetti, manganelli, pistole, bandiere rosse ed altri vessilli trafugati
agli avversari politici, trofei e bottini delle spedizioni squadriste, ecc. Ma la sua
esistenza all’interno della mostra aveva anche un ulteriore notevole significato.
La presenza della fotografia accanto alle cinghie
consumate dello zaino di Mussolini, infatti, era importante, perché, il tramutare
anch’essa in un cimelio della storia fascista, le conferiva una sorta
d’oggettività nel suo rapporto con la storia, rendendola, come tutti gli altri
oggetti conservati nelle vetrinette, una testimonianza vera di quel periodo.
Era una forma di legittimazione, che spianò, in tal
modo, la strada verso quel ruolo di defattualizzazione della realtà, che la fotografia
avrebbe avuto nel corso del decennio successivo.
La fotografia avrebbe permesso, così, di ricostruire
una realtà confacente ai propri propositi, ma sarebbe stata assunta dalla popolazione,
non come luogo di una rappresentazione fittizia, ma come documento oggettivo di una
verità esistente, caratterizzando una messa in scena, e dando vita ad
un’articolazione delle immagini, che nella guerra coloniale etiopica avrebbe avuto
un’ulteriore conferma e collaudo.
Breve
bibliografia
Alfieri
Dino, Freddi Luigi (a cura di), Guida alla Mostra della rivoluzione fascista,
Firenze, Vallecchi, 1933.
Fioravanti
Gigliola, Mostra della Rivoluzione Fascista, Roma, Archivio Centrale dello
Stato, 1990.
Gentile
Emilio, Il culto del littorio. La sacralizzazione della politica nell’Italia
fascista, Roma-Bari, Laterza, 1993.
Bertelli
Carlo, Bollati Giulio, L’immagine fotografica. 1845-1945, in Storia
d’Italia, Annali vol.I, Torino, Einaudi, 1979.
Russo
Antonella, Il fascismo in mostra, Roma, Editori Riuniti, 1999.
Note
Per celebrare la marcia su Roma, l’Istituto Luce girò un
documentario, intitolato “Il Decennale”, e lo proiettò in ogni singola
scuola elementare e media d’Italia. Il Luce, inoltre, fu incaricato di realizzare
anche un grande film politico a soggetto in grado di emozionare le masse. Affidata la
regia Gioacchino Forzano, il film, intitolato “Camicia
nera”, fu girato sullo sfondo delle
Paludi Pontine, e rappresentava un excursus nelle vicende storiche italiane fra il
1914-22, attraverso l’esperienza di Fabbro, un reduce della Prima Guerra Mondiale,
che trovava l’appagamento delle sue aspirazioni partecipando al movimento di
Mussolini. Il film fu proiettato per la “prima” il 23 marzo 1933 in
contemporanea in tutte le città d’Italia, nonché a Parigi, Londra, Berlino. 
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