Durante loccupazione tedesca, 1941-44, in Francia si
realizzarono 226 film. Pessimi, di propaganda, asserviti agli ordini dei collaborazionisti
di Vichy? Niente affatto, anzi spesso di indubbio valore, tanto che già Truffaut ne
giudicava «interessanti» almeno novanta. Oggi il regista Bertrand Tavernier (il cui
nuovo film, «Laissez-passer », dedicato al cinema francese di quegli anni, ha fatto
arrabbiare i critici di Libération e di Le Monde ), si spinge più avanti. E in unintervista
a Maurizio Cabona su il Giornale dichiara che per una decina di titoli si può parlare di
«capolavori». Per esempio, «Il corvo» di Clouzot, «La conversa di Belfort» di
Bresson, «Evasione» di Autant-Lara. Seppure strettamente francese (per i nostalgici
della Nouvelle Vague il cinema nasce ancora con Godard; ma più in generale, in Francia
non si vede di buon occhio chi non crede alla leggenda del paese composto al 99 per cento
di partigiani) la polemica in qualche modo riguarda anche noi, e riapre il dibattito sulla
valutazione del cinema di Salò. E, allargando il tiro, di quello del Ventennio. «Da noi,
la rilettura del cinema durante il fascismo partì negli anni 70» ricorda Claudio
Carabba, che nel 74 pubblicava una ricerca sul «Cinema del ventennio nero». «Dopo
la stagione neorealista e gli anni dellimpegno, in cui si parlava di frattura,
taglio netto (il discrimine è "Ossessione" di Visconti, girato nel 42 e
ispirato a francesi e americani), si cominciò a studiare quel periodo. Per scoprire che
era esistita unindustria italiana, molto assistita e curata dal regime, ma assai
interessante per livelli qualitativi e personalità. Anche se Mussolini diceva che il
cinema è "larma più forte", i film del ventennio furono raramente di
propaganda, e nei pochi casi dichiarati - "Camicia nera" di Forzano,
"Vecchia guardia" di Blasetti, oppure i kolossal come "Scipione lAfricano"
- risultarono scarsamente efficaci e senzaltro poco graditi al dittatore. Prosperò
invece un buon cinema di genere, la commedia in particolare, con Camerini e il giovane
Mattoli, la cui lezione - insieme a quella di Blasetti e Alessandrini - sarebbe passata ai
registi del rinnovamento. Vista la produzione francese e americana degli stessi anni, di
capolavori non parlerei, di molti film interessanti sì».
E il cinema di Salò? Tullio Kezich è categorico: «Nemmeno un titolo decoroso fra quelle
poche pellicole realizzate negli stabilimenti della Giudecca. Solo dei poveri disgraziati
erano andati al Nord, lavoravano come dei deportati, e in unassoluta mancanza di
materiali. I francesi, invece, riuscirono a mantenere la loro qualità. Paradossalmente
grazie a un tedesco, quellAlfred Greven, patron della Continental per cui lavorava
Clouzot (e di cui parla Tavernier nel suo film): Goebbels laveva mandato per
appiattire il cinema francese, lui invece disobbedì».
Anche lo storico Gian Piero Brunetta non salva niente di Salò. «A parte De Robertis, che
comunque terminò il suo film dopo la Liberazione, cerano registi di serie Z. Linteresse
di alcuni film risiede solo nel fatto che recano i segni del momento storico: in
"Ogni giorno è domenica" cè un soldato che torna a Venezia dallAlbania;
in "Aeroporto" di Costa si riforniscono gli aerei con fiaschi di benzina.
Importanti invece sono i cinegiornali Luce, una sessantina, che mostrano, con il commento
repubblichino, alcuni momenti della guerra civile». Quanto al cinema realizzato «durante
il fascismo», Brunetta riconosce che molti cineasti seppero affermare il «primato della
qualità professionale rispetto allideologia». Massimo esempio, Blasetti. «Ma in
fondo, fino al 43, il fascismo fu una dittatura imperfetta, e anche il cinema se ne
avvantaggiò».
(Corriere della Sera, 18 gennaio 2002)