Saggi sul fascismo
Fascismo e cooperazione
I l fascismo colpisce duramente
fra il 1919 e il 1924 la cooperazione democratica di ispirazione socialista,
cattolica e repubblicana. Lo squadrismo fascista individua nelle Case del Popolo
, nelle Camere del Lavoro , nelle Cooperative e nei Circoli operai i
principali obiettivi delle sue violente incursioni.
Gli echi delle incursioni risuonano
fino dal marzo 1921 quando la "Cooperazione Italiana" registra
passivamente i primi segni della "via crucis delle nostre cooperative".
Non esiste una statistica precisa delle distruzioni
sofferte dalle sedi cooperative; ma alla vigilia della marcia su Roma si calcola
fossero più di 200 le sedi distrutte. Contro le cooperative - scrive Italo Balbo
- si è agito con lo stesso spirito con cui si distruggono in guerra i
depositi del nemico.
Con il 1923 inizia un processo di normalizzazione
che pone fine alla fase distruttiva e da l'avvio ad una opera di revisione da parte del
partito nazionale fascista dei problemi cooperativi. Il fascismo intraprende la tattica
dell'annessione dei patrimoni altrui. Non più distruzioni dunque, ma una opera più lenta
e finalizzata all'estensione e al controllo del consenso al fascismo.
Nei riguardi dei grandi Consorzi e delle più affermate
cooperative si procede attraverso la "gestione straordinaria" imponendo di fatto
apparati dirigenti di sicura fede politica.
Conquistato il potere il fascismo, dopo avere sciolto nel 1925
la Lega e nel 1927 la Confederazione e dopo avere costretto i capi del movimento
cooperativo ad abbandonare ogni attività pubblica e, in molti casi, a lasciare lItalia,
intraprende una riorganizzazione dei settori cooperativi: nel 1926 viene creato lEnte
Nazionale Fascista per la cooperazione con sede a Roma e le cooperative vengono
inquadrate nellordinamento corporativo.
L'adesione formale al nuovo ente cooperativo il più
delle volte determina la chiusura delle singole cooperative in una dimensione
aziendalistica. Il regime fascista non manca di esaltare con la consueta retorica la
cooperazione, tuttavia la "Carta del lavoro", che è del 1927, la ignora
; e con quel singolare documento programmatico, che pure ambisce a regolare in modo
inedito i rapporti fra capitale e lavoro, non si è colta l'occasione di inserire
adeguatamente la cooperazione nella politica sociale del regime. In sostanza la
cooperazione resta ai margini dell'interesse e della politica di regime, tanto che
qualcuno la definisce "una piccola umile cosa tra cose grandissime: una
Cenerentola...".
D'altronde, non può rientrare nella logica di un regime
come quello fascista il rilancio di un movimento di massa cooperativistico democratico ed
efficiente, quando i rapporti fra capitale e lavoro vengono regolati forzosamente in base
al principio dell'economia corporativa. Perciò il contributo della cooperazione allo
sviluppo economico generale durante il fascismo è molto modesto, se si eccettua il
settore agricolo nel quale predomina una cooperazione ancora più burocratizzata e
subalterna agli interessi del capitalismo agrario: quella dei consorzi agrari.
Entrato in agonia, il fascismo tenta di rilanciare, nel quadro del suo
demagogico programma, anche la cooperazione. Tra i punti del "manifesto di
Verona" del novembre 1943 c'è anche l'espropriazione di terre incolte e
aziende mal gestite a favore di braccianti e cooperative e la moltiplicazione di spacci
aziendali e cooperativi, ma nessuno presta ascolto al governo repubblichino. D'altronde,
anche volendo i veri padroni di Mussolini, i tedeschi, disapprovano la
"socializzazione" escogitata dai fascisti.
Una nuova piattaforma politica sta invece nascendo, con
ben altro prestigio e credibilità, fra i monti e nelle stesse città presidiate dai
nazifascisti, nelle proposte dei CLN, l'organismo interpartitico espressione degli ideali
unitari ed antifascisti della resistenza, e dei partiti impegnati nella resistenza. Nel
periodo della Resistenza, dal 1943 al 1945, dietro la facciata di
alcune cooperative legalizzate si organizza una azione di appoggio alla lotta contro i
nazifascisti, si pongono le premesse per la costruzione o la ricostruzione di cooperative
libere e democratiche.
I partigiani e i dirigenti politici, nel vivo della lotta armata contro
i tedeschi e i fascisti, già pensano al dopoguerra e a come riorganizzare lo stato, le
strutture economiche e la società. Nei piani per la ricostruzione del paese le varie
forze antifasciste prevedono un ruolo anche per la cooperazione. Comunisti, socialisti,
azionisti, repubblicani, cattolici, sinistra cristiana, democratici del lavoro e perfino
liberali, includono il movimento cooperativo tra le forze che avrebbero dovuto contribuire
alla rinascita e allo sviluppo di un'Italia prospera, libera e democratica.
Certo ci sono tra loro differenze e gradi di convinzione
diversi, ma tutti s'impegnano a favorire la cooperazione, specialmente come elemento per
la riforma agraria e il riassetto produttivo e tecnico dell'agricoltura.
Non si può dire invece che nel 1944-1945 il
problema cooperativo fosse presente nell'attività dei governi Badoglio e Bonomi.
Tuttavia sul finire della guerra e nella regione di più viva tradizione cooperativistica,
l'Emilia Romagna, il problema cooperativo viene posto in termini netti e precisi; il
Comitato legislativo clandestino del CLN, formato da Roberto Vighi socialista, Tito
Carnacini liberale, Leonida Casali comunista e da Angelo Senin
democristiano, prepara tra l'altro un decreto legge che vuole affrontare la "questione
del maltolto " rendendo nulli tutti gli atti di spossessamento e di
esproprio" portati avanti durante gli anni venti dal regime fascista.
(tratto dal sito della
confcooperative.it)
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