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La guerra di Etiopia (1935)

Gli italiani in Etipia: l'uso dei gas, la persecuzione degli ebrei libici

di Giovanni De Luna

LE grotte si aprivano nelle rocce sulla destra del fiume profonde, inaccessibili. Per stanare i guerriglieri occorreva penetrare in stretti cunicoli dove poteva passare un uomo alla volta, facile bersaglio dei difensori. Si decise di inondarli di gas velenoso. I risultati furono definitivi e terrificanti. «28 marzo 1936... Sono stato a visitare i campi di battaglia che si trovano nei pressi di Selaclacà... ciò che mi ha fatto maggiore impressione è stata la vista di un gruppo di abissini morti in una specie di caverna, ben nascosta, che sembrava un infido nido difficilmente scovabile. Sono in tutto nove giovani vite, e sono abbracciate, o meglio afferrate una all'altra in una stretta disperata: il loro atteggiamento, le loro posizioni, e quel loro aggrapparsi alla terra o al compagno, mostrano evidente che morirono nel momento istesso che tentavano di fuggire disperatamente alla morte certa; e caddero così... come se in quel momento un fulmine li avesse improvvisamente e per sempre fermati e fotografati...». Non sono le grotte di Tora Bora: siamo in Etiopia, nel 1935 e la testimonianza è quella di un soldato italiano, Manlio La Sorsa, impegnato nella guerra scatenata dall'Italia fascista contro il regno del Negus. Pure, le grotte, le armi terrificanti, e soprattutto quei corpi avvinghiati nella morte ci restituiscono il fondo destoricizzato che ogni guerra porta con sé: dall'Etiopia all'Afghanistan, dal 1935 al 2001, in un tempo e in uno spazio radicalmente diversi, sembra che alla fine tutto si riduca a una ciclica ripetizione di gesti, a un frenetico andirivieni tra il morire e dare la morte. Quella guerra il fascismo la vinse soprattutto grazie alla superiorità tecnologica, all'uso di armi e di tecniche militari terribilmente distruttive (i bombardamenti aerei, i gas) anticipando una delle configurazioni tipiche delle guerre postnovecentesche in cui - («guerra del golfo», Kosovo, Afghanistan) - il confronto è tra uomini e macchine, con ordigni sofisticati che riescono quasi ad azzerare le perdite nel proprio campo. La testimonianza del soldato italiano si presta anche a altre letture più interne alla nostra storia, che chiamano in causa «nodi» irrisolti della nostra memoria collettiva su cui vale la pena riaccendere i riflettori del dibattito storiografico. Quella di La Sorsa è infatti solo una delle tante voci raccolte in un libro appena uscito di Nicola Labanca (Posti al sole. Diari e memorie di vita e di lavoro dalle colonie d'Africa, Museo storico Italiano della Guerra); un'antologia di grande efficacia che, per la prima volta, ci restituisce nitidamente gli aspetti soggettivi e autobiografici del nostro passato coloniale, di quell'inseguimento «al posto al sole» che si protrasse ininterrottamente fino alla metà del Novecento. Labanca ha pazientemente raccolto lettere, diari, carteggi e memorie sparse in vari archivi (il fondo più consistente è quello conservato nell'Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano), una documentazione straripante che lascia affiorare l'intero universo di quelle centinaia di migliaia di italiani che - tra il 1882 e il 1943 -, in Eritrea, Libia, Somalia, Etiopia, furono coinvolti nel nostro «sogno africano». Per la maggior parte si tratta di scritti di petit blancs; non i diplomatici, quindi, non i militari, non quelli che andarono in colonia per assumere cariche istituzionali e amministrative o per investire grandi capitali, ma tutta la massa di quelli «che si mossero portando con sé solo se stessi e al massimo le proprie famiglie, con l'ausilio solo delle proprie braccia da lavoro o del proprio modesto titolo di studio, contadini, piccoli commercianti, microimprenditori». Furono l'assoluta maggioranza dei nostri coloniali; ai Censimenti del ventennio risultavano infatti solo un 2% di possidenti e imprenditori e un 5% di professionisti; per il resto, furono in gran parte i ceti medi a lasciarsi coinvolgere nei nostri progetti di dominio coloniale: in Africa cambiarono il loro nome - diventando petit blancs, appunto - ma non la propria condizione sociale. L'eccezionalità di questa documentazione sta proprio nella sua provenienza: tradizionalmente i ceti medi costituiscono un universo sociale amorfo, abituato a lasciare scarne testimonianze della sua «piccola storia», pronto a delegare il proprio protagonismo ai poteri forti che costruiscono la «grande storia». Qui, invece, è come se l'enormità dell'avventura africana ne stimoli i ricordi, li solleciti a rompere la crosta del loro tradizionale riserbo per lasciare liberamente fluire passioni, invettive, recriminazioni, entusiasmi, nostalgie. Lungo questo percorso si incontrano testimonianze che si limitano ad aggiungere particolari inediti a quanto già si sapeva: ad esempio, il nesso ideologico tra le leggi contro gli ebrei del 1938 e la pratica di separazione razzista nei confronti della popolazione indigena avviata nei possedimenti coloniali, in particolare nell'Etiopia appena conquistata. Così, i ricordi di Arthur Journò ribadiscono questo collegamento. Siamo nel 1938 e Journò è un giovane ebreo italiano che vive a Tripoli. Il Governatore della colonia, Italo Balbo, ordina agli ebrei di tener aperti i loro negozi anche il sabato. Ovviamente i negozi restarono chiusi. A quel punto i fascisti prendono dieci ebrei libici e decidono per una loro pubblica fustigazione: «in mezzo alla piazza alcuni genieri dell'esercito avevano eretto un palco abbastanza alto proprio per dare la possibilità a tutto il popolino di godere dello spettacolo... non so dire quante frustate ogni condannato ricevette, tenni gli occhi chiusi e sentivo solo i lamenti e i battiti delle mani della gente che gridava piena di odio».
Altre testimonianze ribadiscono stereotipi razziali, con particolare riferimento alle donne, («Entrando, l'ingresso è squallido e umido. Un odore strano di erbe e di altre sostanze non definibili fluttua qui dentro; le abitatrici si avvicinano curiose, timide e sorridenti. Sembrano tante bestie rare...», Unno Bellagamba, 1935) che esaltano la natura ferina delle popolazioni nere, in un misto di disprezzo e timori ancestrali. In quasi tutte domina poi un'autorappresentazione fortemente segnata dalla propaganda colonialista, in particolare - per quanto si riferisce all'Etiopia - di quella fascista, segnata dal trinomio «Dio, Patria, Famiglia»: «Dio, andare in Africa significava evangelizzare, essere missionari, pionieri in terre sconosciute e abitate da popoli primitivi; Patria, assicurare al proprio paese le materie prime, il lavoro e la possibilità di emigrare, accrescere il prestigio del nostro popolo; Famiglia, una via più breve e più sicura per realizzare i sogni della famiglia, significava trovare un impiego al termine della campagna della conquista coloniale, nella stessa terra africana per la quale avevo arrischiato la vita», (Angelo Filippi, 1935). Sotto queste esplicite intenzioni affiora, però, anche una realtà diversa, quasi che quei documenti alla fine parlino «malgrado se stessi». Certamente in essi incontriamo la guerra, la dimensione epica del «mal d'Africa», l'orgoglio di sentirsi allo stesso tempo italiani e conquistatori; ma incontriamo anche la vita quotidiana, le abitudini e le relazioni sociali, mode e comportamenti collettivi e - soprattutto - il lavoro, tanto lavoro. Camionisti e braccianti, coloni agricoli e commercianti, piccoli artigiani e impiegati, per tutti la vita in colonia è essenzialmente il lavoro, la fatica, il confronto assiduo con una natura sconosciuta, poche volte apprezzata per la sua bellezza, più spesso maledetta per le sue asperità. La centralità del lavoro toglie, alla fine, ogni epicità a quei ricordi e ci consegna una delle chiavi per spiegare il «mistero» del loro inabissarsi fino a scomparire dalla nostra memoria collettiva. Per i petit blancs italiani la fine del sogno africano coincise, infatti, con la rovinosa sconfitta militare dell'Italia fascista. Il loro ritorno in patria fu traumatico. Nella nuova Italia repubblicana non c'era più nessun posto al sole da magnificare e difendere. I neofascisti tentarono di cavalcarne recriminazioni e rimpianti. Anche la Dc lo fece, in un modo tipicamente democristiano, alimentando cioè una politica puramente assistenziale, con una legislazione che soddisfaceva tutte le loro richieste economiche, rifiutandone però la dimensione ideologica e revanscista; si assicurò i loro voti, se non la loro riconoscenza. Alla fine, quando smisero anche di essere un serbatoio di voti, la loro memoria divenne solo un oggetto storiografico da studiare.

(La Stampa, 14 gennaio 2002)





 

 

 

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