CEFALONIA una strage dimenticata
LA STORIA SENZA MEMORIA
di Mario Pirani
Il generale Gandin
Cefalonia, la bella isola greca nello Jonio, è oggi un luogo di
vacanze. Vi sono tornato quest'estate con alcuni amici di più verde età. Un giorno mi
venne l'idea di accompagnarli a vedere il piccolo monumento, nei pressi di Argostoli, che
avevo visitato in un
precedente soggiorno e che ricorda il massacro della Divisione Acqui, avvenuto per ordine
di Hitler, dopo l'armistizio dell'8 settembre. Non sono riuscito a ritrovare la località,
ma nessuno sembrò deluso: di quella lontana vicenda, di cui proprio in
questi giorni ricorre l'anniversario, i più non sapevano nulla o avevano vaghissime
rimembranze. Eppure si trattava di persone colte e informate, per cui sono convinto che,
se anche il campione fosse stato più variegato, il risultato del test sarebbe risultato
il medesimo. Questo "buco" nella memoria storica degli italiani merita qualche
riflessione. Prima, però, è bene riassumere brevemente quello che avvenne cinquantasei
anni orsono.
La memorialistica in merito è scarsa, anche se si tratta della strage di gran lunga di
maggior proporzioni che i tedeschi abbiano compiuto contro gli italiani. Tra le tante
storie della Resistenza, ad esclusione di quella di Battaglia che vi dedica qualche
attenzione, molte non ne fanno neppure menzione. In sostanza solo Giorgio Rochat, il
nostro più accreditato studioso di storia militare, con l'ausilio di Marcello Venturi, ha
promosso l'unica ricerca accurata in merito con un volume, esaurito e quasi
introvabile ma di cui sembra annunciata la ristampa, edito da Mursia (La divisione Acqui a
Cefalonia), che comprende anche saggi di altri studiosi, italiani e tedeschi.
Le testimonianze, le documentazioni, le ricostruzioni dei fatti, contenute in questo
libro, forniscono un tragico resoconto di quello che avvenne a Cefalonia e Corfù tra l'8
e il 22 settembre del 1943. Al momento dell'armistizio le forze dell' Asse occupavano
ancora la Grecia, aggredita nel 1941. Le isole joniche erano presidiate dalle truppe
italiane della divisione Acqui, prive, peraltro, di qualsiasi copertura aerea, con una
presenza germanica localmente meno consistente, ma che poteva usufruire dell'appoggio
aereo dalle vicine basi greche. Subito dopo il proclama di Badoglio, il comando tedesco,
così come avvenne negli
altri scacchieri, rivolse agli ex alleati un ultimatum: consegnare le armi e arrendersi, a
meno che non decidessero di proseguire la guerra a fianco del Reich, aderendo all'appello
di Mussolini che Hitler era, frattanto, riuscito a liberare.
A Cefalonia il gen. Gandin, comandante della Divisione, e il suo sottoposto, colonnello
Lusignani, alla testa del 18 reggimento fanteria di stanza a Corfù, cercarono di prendere
tempo, con la speranza anche di ricevere ordini precisi dallo Stato Maggiore,
che, al seguito del re, era riparato a Brindisi, già in mano degli Alleati, dopo
l'abbandono di Roma. Nei giorni che seguirono, mentre continuavano le trattative con gli
ufficiali tedeschi, si ebbero alcuni scontri minori. In seguito ad uno di essi, il
presidio tedesco di Corfù fu fatto prigioniero dai nostri. Del tutto imprevedibilmente si
andava manifestando nella truppa e nella maggioranza degli ufficiali un forte sentimento
di ostilità nei confronti dei nazisti e, comunque, di rifiuto della resa, tanto che di
fronte alla tattica temporeggiatrice di Gandin si sparse la voce che egli propendesse per
l'accettazione dell'ultimatum ed un
gruppo di ufficiali, armi alla mano, si presentò al comandando per intimargli di
resistere. Ma non ce n'era bisogno: giunto da Brindisi un cablo dello Stato maggiore che
invitava a non cedere le armi, "a considerare le truppe tedesche come nemiche e a
regolarsi di conseguenza", Gandin prese un' iniziativa davvero straordinaria che
dimostra come egli avesse compreso il profondo mutamento avvenuto tra quelle migliaia di
giovani italiani, pur tuttavia educati e cresciuti, fino alla vigilia, nella esaltazione
della dottrina fascista e dell'alleanza con Hitler. Il 13 settembre, dunque, egli indisse
in tutti i reparti un referendum su tre quesiti alternativi: unirsi ai tedeschi o cedere
le armi oppure resistere all'attacco. La terza opzione venne accolta a stragrande
maggioranza. Immediatamente il generale Gandin trasmise ai tedeschi il seguente messaggio:
"Per ordine del Comando Supremo italiano e per volontà degli ufficiali e dei soldati
la Divisione Acqui non cede le armi". Richiese poi un sostegno aereo e navale che non
arrivò mai.
Le truppe tedesche e gli aerei in picchiata iniziarono gli attacchi. La battaglia venne
ingaggiata ma, purtroppo, dopo iniziali, alterne vicende, il 22 settembre, a causa dei
micidiali attacchi dei caccia- bombardieri Stukas e dell'afflusso continuo di rinforzi
tedeschi con notevole supporto di artiglieria, Gandin fu costretto ad alzare bandiera
bianca. Negli scontri 1200 soldati e 65 ufficiali erano caduti, di cui molti uccisi appena
arresi. Subito dopo la cessazione dei combattimenti altri 155 ufficiali e 4700
soldati italiani, considerati "franchi tiratori", malgrado indossassero la
divisa, furono assassinati, a mano a mano che venivano fatti prigionieri. Sempre dopo la
resa il generale Lanz, responsabile in loco delle truppe tedesche, chiese al comando delle
armate della Wehrmacht in Epiro "istruzioni circa le modalità con cui si deve
procedere contro di lui [cioé Gandin], il suo Comando e contro gli altri
prigionieri". La risposta fu: "Il generale Gandin e i suoi ufficiali
responsabili devono essere trattati
immediatamente secondo gli ordini del Führer". In esecuzione a tale ordine fra il 24
e il 28 settembre vennero giustiziati il gen. Gandin, altri 193 ufficiali e 17 marinai. A
Corfù le perdite italiane ammontarono a 640 morti e 1200 feriti. Dopo la cessazione
del fuoco vennero fucilati numerosi ufficiali, tra cui i colonnelli Lusignani e Bettini
che comandavano la guarnigione. I soldati, peraltro, vennero considerati prigionieri di
guerra e deportati, forse per la presenza in quell'isola di comandanti tedeschi che
interpretarono in modo meno globale e crudele l'ordine di Hitler, a differenza del
generale Lanz e del maggiore von Hirschfeld, responsabile diretto delle esecuzioni a
Cefalonia.
I superstiti furono stivati in navi sovraccariche per essere deportati in Germania. Una
prima nave, l'Ardena, saltò in aria al largo del porto: l'equipaggio tedesco si salvò ma
degli 840 italiani chiusi nelle stive, solo 120 scamparono all'annegamento. Altre due
navi urtarono contro le mine e affondarono causando la morte di circa altri 650
prigionieri. I pochi sopravvissuti finirono nei lager del Reich, assieme agli altri
600.000 militari italiani fatti prigionieri sui vari fronti e che si erano rifiutati di
aderire alla repubblica di Salò.
Al tribunale di Norimberga anche questi eventi rientrarono fra i capi di accusa contro i
crimini nazisti. Il generale americano Telford Taylor, capo dell'accusa, dichiarò
testualmente: "Questa strage deliberata di ufficiali (e di soldati) italiani che
erano stati
catturati o si erano arresi è una delle azioni più arbitrarie e disonorevoli della lunga
storia del conflitto. Questi uomini, infatti, indossavano regolare uniforme. Portavano le
proprie armi apertamente e seguivano le regole e le usanze di guerra. Erano
guidati da ufficiali responsabili che, nel respingere l'attacco, obbedivano ad ordini del
maresciallo Badoglio, loro comandante in capo militare e politico, debitamente accreditato
dalla loro Nazione. Essi erano soldati regolari che avevano diritto a rispetto, a
considerazione umana e a trattamento cavalleresco". Analogo il giudizio dello storico
tedesco, Gerhard Schreiber, in un saggio contenuto nel libro curato da Rochat. Egli, pur
giustificando dal punto di vista militare l'ultimatum della Wehrmacht per ottenere
il disarmo della Acqui, afferma che le migliaia di soldati italiani uccisi "caddero
vittima di brutali crimini di guerra". E aggiunge: "Nonostante siano stati presi
in considerazione nei processi di Norimberga, tuttavia gli eventi di Cefalonia e di Corfù
continuano
ad essere in Germania sostanzialmente ignorati se non addirittura negati".
Ma se è in qualche modo comprensibile la reticenza tedesca, assai meno lo è la rimozione
italiana. Perché Cefalonia non è stata accolta come una data fondamentale nel calendario
delle ricorrenze patrie? Come mai non si è visto nella tragica epopea della
Acqui, deliberatamente affrontata dal comandante fino all' ultimo soldato semplice, il
momento d'inizio della Resistenza? Come mai né gli storici di sinistra, né gli odierni
revisionisti, né le Forze armate come istituzione hanno cercato di rievocare e
trasmettere, soprattutto alle generazioni successive, una vicenda di questa esemplarità e
dimensioni che segna l' ultima grande testimonianza di eroismo dell'Esercito italiano?
Le risposte probabilmente s'intrecciano. La storiografia antifascista, tutta incentrata
sull'azione partigiana, sull'impegno comunista e azionista, sui Cln ha evidentemente
rimosso una visione più globale che ne avrebbe stemperato gli assunti politici
basilari, ponendo come evento d'avvìo della Resistenza l'immolarsi di una intera
Divisione del Regio Esercito, che eseguiva, con consapevole amor di patria e di bandiera,
gli ordini del maresciallo Badoglio. Del resto eguale sottovalutazione si è verificata
nei
confronti dei 600.000 militari chiusi nei lager, 40.000 dei quali perirono in prigionia.
Sarebbe quanto mai opportuno se Ciampi e il ministro della Difesa, Scognamiglio, come già
tentò di fare senza eco di stampa nel '98 il presidente della Camera, Violante,
prendessero l'iniziativa, una grande iniziativa riparatrice.
C'è anche, però, da chiedersi perché la storiografia cosiddetta revisionista non abbia
affrontato la questione. Per taluni si può pensare che essa venga trascurata per la sua
scarsa rilevanza ai fini delle polemiche attuali. Non emergono, infatti, qui i risvolti
delle colpe comuniste che, dalla guerra di Spagna al triangolo rosso di Reggio Emilia,
inducono a rivisitazioni critiche delle vecchie versioni troppo "politicamente
corrette". Senz'altro più interessante sarebbe confrontare i fatti di Cefalonia alla
luce
della tesi della "morte della Patria", per tanti versi ricca di sollecitazioni,
che Ernesto Galli della Loggia ha definito a proposito dell'8 settembre. E'una tesi che
risale, almeno in parte, a Renzo De Felice. Sono andato, in proposito, a rivedermi le
desolate
pagine che egli vi dedica nell'ultimo volume della biografia di Mussolini (Mussolini
l'alleato, II. La guerra civile 1943-1945, Einaudi). Su quella che egli definisce una
catastrofe nazionale, uno "sciopero morale" della Nazione, il suo giudizio è
drastico.
Tra i pochi episodi di resistenza militare egli cita - se la mia lettura è stata attenta
- solo quella dei granatieri a porta S.Paolo a Roma. "Non può certo
meravigliare", scrive, "che la maggior parte degli ufficiali non solo non
rispondesse più ai richiami del
fascismo, ma, quel che è più grave, nemmeno a quelli del tradizionale patriottismo...
fosse psicologicamente e moralmente disponibile ad abbandonare la lotta e non pensasse
menomamente ad intraprenderne un'altra, anche solo per difendersi dai tedeschi".
Ora, è pur vero che i comandi al momento dell'armistizio si dissolsero, lasciando
subentrare nell'esercito l'aspirazione disgregante del "tutti a casa", ma
l'evento di Cefalonia dimostra che laddove i capi seppero conservare il senso delle loro
responsabilità la stragrande maggioranza dei soldati nutrivano già passioni di forte
rivolta antifascista e anti tedesca, certamente maturate in seguito alla disastrosa
condotta di una guerra non sentita. Da questo punto di vista Cefalonia non è una
eccezione ma uno straordinario test popolare, che dimostra la fallacia del considerare la
Resistenza solo uno scontro armato tra due
minoranze che si combattevano nell'indifferenza diffidente delle popolazioni. I fanti di
Cefalonia e Corfù prefigurarono, invece, con le loro decisioni e il loro comportamento i
sentimenti di una gran parte degli italiani di allora, anche di quelli che non
parteciparono direttamente alla lotta partigiana.
Il tempo - dice Rochat nella sua prefazione - ha cancellato le ferite e facilitato
l'oblio. Io penso che vi abbia contribuito: il paradosso per cui non è la Storia, così
come è avvenuta, ad alimentare la Memoria, ma la memoria, volutamente o inconsciamente
distorta o silente, a "costruire" la Storia. Anche per questo val forse la pena
chiudere con questi versi in dialetto friulano di un fante della Acqui, Olinto G. Perosa,
che prefigurano le Lettere dei condannati a morte della Resistenza. S'intitolano Il dì
plui trist: "Nus puartin / vers Argostoli / incolonaz / sote la curte cane / del
"mascin" / un puar drapel / batut / e
dezimat / Vin piardut / guere e speranze / e i nestris muarz / son lì / par tiere / di
cà e di là de'strade / cui voi sbaraz / E il mar...lajù / cui tant ò vin sperat / nus
vuarde / indiferent / e mut! (Il giorno più triste: "Noi partivamo / verso Argostoli
/ incolonnati / sotto le corte canne / del mitra / un povero drappello / battuto / e
decimato / Abbiamo perduto / guerre e speranze / e i nostri morti / sono lì / per terra /
di quà e di là della strada / con gli occhi sbarrati / E il mare...laggiù / in cui
tanto avevamo sperato / ci guarda / indifferente / e muto!").
(da La Repubblica, 15 settembre 1999)
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