LIBRI: LA RESISTENZA NEI DIARI
DELLA "GENERAZIONE RIBELLE"
(AGI) - Roma, 23 mag. - La Resistenza
si riprende la parola. E lo fa attraverso la memoria scritta, priva di filtri agiografici
e strumentalizzazioni di parte, di quella "generazione ribelle" che tra il 1943
e il 1945 restitui' all'Italia la dignita' perduta nel ventennio fascista e ristabili',
sia pur per poco tempo, il legame ideale con il Risorgimento. "Oggi in nessuna
nazione civile il distacco fra le possibilita' vitali e la condizione attuale e' cosi'
grande: tocca a noi di colmare questo distacco e dichiarare lo stato di emergenza",
scrive Giaime Pintor al fratello Luigi tre giorni prima di saltare in aria su una mina, in
una delle lettere che appaiono nel volume "La generazione ribelle", a cura di
Mario Avagliano (Einaudi, pagg. 455, euro 24), la prima raccolta di lettere e diari che
arrivano direttamente dal cuore del mondo partigiano.
Le parole di Giaime Pintor al
fratello Luigi appaiono nei manuali di storia contemporanea. Ma qui, in questo volume,
servono a dire lucidamente quello che ad altri, spesso, non riesce di dire. Nelle 150
testimonianze raccolte con cura da Avagliano, direttore del Centro studi del Lazio per la Resistenza,
esce fuori la lotta di liberazione cosi' com'era, senza l'alone di mito che sarebbe
arrivato dopo il '45 ne' le ombre di crimini che una storiografia esageratamente
revisionista vi ha gettato addosso con evidente abuso strumentale. Quanta distorsione
sarebbe arrivata alla fine della guerra, gli stessi partigiani piu' accorti lo avevano
capito gia' durante la guerra: "Bisogna scrivere di questi fatti, perche' fra
qualche decennio una nuova retorica patriottarda o pseudoliberale non venga a esaltare le
formazioni dei purissimi eroi. Siamo quello che siamo", annota nel suo diario
Emanuele Artom, ebreo azionista, docente universitario, dopo aver criticato alcuni fatti
disdicevoli commessi da partigiani.
"Siamo quello che siamo":
la Resistenza era fatta di uomini e donne, una gran parte di eta' tra i 17 e i 24 anni,
che fecero, dopo l'8 settembre, la scelta piu' difficile e che a loro stessi appariva, e'
ancora Pintor a scrivere, "di esito incerto". Ludovico Ticchioni, 17 anni, nome
di battaglia "Tredicino", operativo nelle valli del ferrarese: "La vita da
partigiano e' dura, molto dura e se uno non avesse la fede che abbiamo noi non la potrebbe
fare certamente! Per me, ragazzo di 17 anni e' stata una mazzata sulla testa per i primi
giorni", scrive nel diario, documento in cui, rispetto alle lettere inviate ad altri,
risuonano di piu' le contraddizioni di ciascuno, le sofferenze, le allegrie, i tormenti
interiori.
Leggendoli, torna alla mente la
"questione privata" di Beppe Fenoglio, quella narrativa intima della Resistenza
a cui la raccolta di Avagliano si collega: "Ora e' un po' di giorni che sono in casa,
costretto da circostanze alquanto gravi e - cosa ho mai fatto - mi sono innamorato... E'
la prima volta che mi innamoro in vita e solo ora capisco cosa sia, quale terribile male e
terribile bene allo stesso tempo sia l'amore", ha il tempo di dirsi Ludovico prima di
ripartire per le valli. Alla sua autoconfessione fa da sfondo "il forte sentimento di
amor patrio" che lo ha spinto a imbracciare il mitra contro i tedeschi.
E'
la "moralita'" della Resistenza, quella descritta dallo storico Claudio Pavone,
che trova nella raccolta di Avagliano una documentazione concreta in cui e' evidente,
scrive nell'introduzione Alessandro Portelli, il "bagaglio culturale" con cui
"ciascuno individualmente ha scelto di resistere". Lettere e diari, raccolti in sette anni in decine di
archivi pubblici e privati di tutta Italia, forniscono una diario collettivo che e' anche
una cronaca dell'anima di uomini e donne posti di fronte a scelte cruciali - "Perdona
questo nuovo dolore, ma io devo fare cosi", scrive l'alpino Francesco de Gregori alla
moglie; "Se potevo stare a casa ci sarei stato", quasi si scusa il partigiano
Tullio Cola con la madre - o in condizioni impensabili per un essere umano: "Divento
pazzo, fucilano ogni giorno. Sono impazziti", annota l'operaio Antonio Strani mentre
si trova nel campo di concentramento della Risiera di San Sabba.
Lettere e diari scandiscono due anni
di storia italiana e di italiani. Avagliano le ha selezionate in capitoli, ognuno dei
quali introdotto da una ricognizione storica parca perche' rispettosa dei protagonisti. Il
curatore e' attento a mettersi da parte per lasciar parlare loro e interviene a pie' di
pagina solo per spiegare chi scrive e da dove scrive. E chi scrive, sottolinea Portelli,
e' certo una minoranza che ha avuto la possibilita' di imparare a farlo.
La scrittura appartiene a pochi,
certo, ma attorno alle loro parole "vibrano voci che gridano e cantano con accenti
diversi, dissonanti". Esemplari le righe con cui il comandante gappista Franco
Calamandrei racconta la preparazione dell'attentato a via Rasella e riporta le voci della
gente che incontra subito dopo l'esplosione degli ordigni contro una colonna di militari
tedeschi. Torna alla mente la descrizione del rastrellamento nel Ghetto di Roma del 16
ottobre 1943, attraverso le parole dei protagonisti alle quali diede forma scritta, in un
altro volume, Giacomo De Benedetti: intellettuali, ufficiali, studenti, professionisti si
assumono una responsabilita' ulteriore, insomma, quella di dire cio' che altri non sanno
ne' possono dire.
Tanti, invece, non hanno
semplicemente il tempo sufficiente a "dire". Il matematico Adolfo Vacchi, nel
giorno della caduta del fascismo, scrive alla figlia Urania: "Vorrei scrivere la
lettera piu' bella che io abbia mai scritto, bella come la liberta' sognata e di cui
spunta l'alba, ma sono stanco sfinito, tu mi conosci e mi capisci... il fascismo e' stato
travolto, finito in un attimo, per sempre". E poi, dopo aver scritto e cancellato con
un tratto di penna il mussoliniano "credere obbedire combattere", Vacchi
aggiunge il nuovo comandamento del cittadino italiano: "capire sapere pensare".