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Londra si mobilita
20mila soldati in Oman

Il ministro della difesa Hoon illustra il piano "Aquila nobile"

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di Antonio Polito

LONDRA - Dietro la scrivania di Geoff Hoon, sistemata appropriatamente nell'"Old War Office", c'è una carta militare della Macedonia. E' ora di cambiarla, gli dico. «E quale mi consiglia?», risponde lui. Ho l'impressione che non sia solo una battuta: forse nemmeno il giovane ministro della difesa di Blair sa oggi esattamente dove sarà giocata la prossima mossa di questa partita a scacchi col terrore. Ma intanto un convoglio di 14 navi inglesi transita in queste ore nel Canale di Suez, altre sei sono già passate. Ventimila soldati di Sua Maestà stanno raggiungendo l'Oman.
E' l'inizio dell'"Operazione Aquila Nobile", la "guerra asimmetrica" che secondo il Times avete coordinato con gli Usa?
«Noi stiamo lavorando ai nostri piani e alle nostre opzioni. Allo stesso tempo stiamo verificando la disposizione delle nostre forze perché siano anch'esse nel posto giusto al momento giusto, come quelle americane. Avevamo programmato da tempo una massiccia esercitazione in Oman e andrà avanti. Questo vuol dire che abbiamo già dispiegato un gran numero di forze e di equipaggiamenti in un luogo che è quanto meno sulla strada di dove lei e i suoi colleghi pensate che potremmo andare». Intanto il ministro ha annullato tutti i suoi impegni: questo weekend doveva essere a Pontignano, per l'annuale Conferenza italoinglese, ma ha dovuto rinunciare.
Tutti si aspettano l'uso delle Sas inglesi sul campo di battaglia...
«Mi spiace, ma noi non parliamo mai delle nostre forze speciali. Più se ne parla, e meno possibilità ci sono di metterle in azione».
Se questa è una guerra, chi è il nemico?
«Tutti coloro che pianificano o commettono atti terroristici su scala internazionale. Dobbiamo colpire chi usa la libertà moderna di viaggiare per il mondo per perpetrare atrocità».
Dov'è il nemico?
«Abbiamo informazioni accumulate da tempo che dimostrano che essi usano basi, campi di addestramento, infrastrutture in varie parti del mondo. Sappiamo dove. Il nostro messaggio è duplice: prenderemo quelli che l'hanno fatto, non avremo tolleranza per i paesi che li sostengono».
Se questa è una guerra, quando la considererete finita?
«L'obiettivo immediato è di scovare i responsabili di questo atto. Ma intendiamo anche rendere la vita difficile a chi in futuro volesse pianificare azioni simili: togliendo loro la capacità di finanziarsi, di muovere denaro, ostacolando i loro spostamenti, e usando la forza militare in modo appropriato contro i loro covi».
Quanto ci vorrà? Cinque, dieci anni?
«Nessuno lo sa. Oggi dobbiamo dimostrare la nostra determinazione a punire i responsabili. Ma per cambiare leggi nazionali, trattati internazionali, rafforzare l'"intelligence", la cooperazione tra stati, e compiere le azioni militari ci vorrà del tempo».
Possono vincerla i soldati, una guerra così?
«Non da soli. Non c'è solo una risposta militare a questi problemi».
La diplomazia sta tentando di costruire un'ampia coalizione di stati. I militari hanno bisogno di decisioni rapide ed efficaci. Non c'è il rischio che più ampia sarà la coalizione e meno potrà fare?
«Bisogna agire su tutti e due i pedali. Ma credo che non dobbiamo perdere mai di vista il primo obiettivo: prendere i colpevoli».
I paesi europei hanno forze armate all'altezza del compito?
«Il mondo moderno richiede forze rapidamente dispiegabili sul terreno. Noi abbiamo affrontato questa riforma nel ‘98, altri paesi stanno facendo la stessa cosa. Ma oltre a chi apre la strada, intervenendo con prontezza in una crisi, c'è poi bisogno di chi arriva dopo e garantisce il "peacekeeping". E' quello che è accaduto nei Balcani, e lì gli italiani hanno fatto un gran lavoro al fianco dei soldati inglesi».
Lei ha lanciato l'allarme per il rischio di attacchi terroristici con armi biologiche o chimiche. Su quali informazioni si basa?
«Non c'è una minaccia specifica. Ma sappiamo che c'è gente in giro per il mondo che è pronta a usare questo tipo di armi. C'è un nuovo fanatismo, gente pronta a morire pur di uccidere».
Dopo l'attacco a New York, ha ancora senso parlare del miniscudo spaziale?
«Sì. Ciò che l'11 settembre americano ci prova è che non ci sono limiti al disprezzo della vita umana cui il nuovo terrorismo può arrivare. Dunque, se si può sviluppare un sistema di difesa capace di metterci al riparo anche solo da una parte dei rischi che corriamo, dobbiamo farlo».

(la Repubblica, 21 settembre 2001)

 

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