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Il
movimento pacifista
"No alla guerra e al terrore"
Washington, i no global contro la "crociata"
di Bush
di MAURIZIO RICCI
WASHINGTON - «Niente violenza». Non è un appello a Bush o a Osama Bin
Laden e neanche un generale invito al mondo. La richiesta perentoria che parte dal
megafono, quando, all'angolo della 14esima strada, la marcia sta entrando nel centro di
Washington, riguarda un gruppetto di ragazzi che, qualche metro più in là, poco dopo la
testa del corteo, si stanno accapigliando con i poliziotti in tenuta antisommossa. Qualche
spintone, sette fermati: lo scontro si spegne in un attimo. Una vittima c'è, ma è un
caso di "friendly fire": il capo della polizia è stato centrato agli occhi da
uno spruzzo di spray al pepe, partito dai suoi uomini. Dietro il megafono, Matt tira un
sospiro di sollievo. Genova è lontana dai cuori e dalle teste e, dopo l'11 settembre,
niente è più uguale. I duemila dimostranti che stanno marciando verso le sedi del Fondo
Monetario e della Banca Mondiale sono l'ombra sparuta delle masse che avrebbero dovuto
assediare i simboli della globalizzazione, in questo week end di fine settembre. Il mondo
si è spostato. E la protesta dei duri di «Convergenza anticapitalista» si è riciclata.
Non hanno dovuto frugare a lungo nell'armamentario ideologico della estrema sinistra:
«Nessuna guerra, se non la guerra di classe» proclama un cartello.
In testa al corteo, dietro lo striscione che recita "Anticapitalisti contro la
guerra, il razzismo, il terrore, la povertà", c'è un manipolo di una trentina di
"tute nere", con il fazzoletto sul volto, qualche maschera antigas, scudi e
paragomiti di plastica. Ma solo perché è una divisa. «Siamo anarchici e non
terroristi», aveva avvertito un loro comunicato, prima della marcia: «e, nelle
condizioni attuali, anche gli strumenti di lotta devono essere diversi». Il compito di
Matt è quello di assicurare che la consegna venga mantenuta e gli strumenti di lotta non
debordino. Anche il paracolpi da football americano che porta sulle spalle è soprattutto
un problema di identità.
Barba, 27 anni, una vita da attivista, Matt, oggi, ha una maschera da diavolo tenuta
rovesciata sulla nuca, una pallina rossa da clown sul naso, il megafono in una mano, un
cartello con lo slogan «I poliziotti sono nostri amici, vi ringraziamo della
collaborazione» nell'altra e una bandiera della marina americana avvolta in vita. Quel
drappo che circonda il ventre generoso di Matt è l'unico stendardo nazionale in vista. Il
corteo è punteggiato di bandiere rosse e nere, ma è la prima volta in due settimane che
capita di vedere un assembramento di più di tre americani, senza una bandiera a stelle e
strisce nelle vicinanze.
E' anche la prima volta che la tragedia dell'11 settembre non sommerge ogni parola e ogni
slogan. Torna solo in prospettiva. Due ragazzi portano due bare nere che recitano una
lunga litania di numeri: 7 mila morti al World Trade Center, 200 mila a Timor, 6.200 in
Kosovo, 200 mila in Colombia, un milione in Iraq, mille a Panama, 350 mila in Somalia, 85
mila in Salvador. «Quanti altri ancora» domandano le bare? «La guerra non ci riporterà
i nostri cari» dice, qualche centinaio di metri più in là un cartello, al margine della
fontana di Pennsylvania Avenue. E' il filo che lega i duemila duri davanti alla sede del
Fmi agli oltre settemila pacifisti, raccolti su Pennsylvania Avenue, e che li unirà,
qualche ora dopo, in una marcia verso il Parlamento. Intorno alla fontana, non ci sono
scudi di plastica, le bandiere americane abbondano, il tasso di orecchini scende
drasticamente, mentre si innalza quello di capelli grigi. Il ricordo dell'11 settembre è
martellante. Ma la folla scandisce: «Il nostro dolore non è un grido di guerra. La
violenza genera violenza». L'orizzonte ideologico si restringe e si precisa. Si
rintraccia, nei bellicosi discorsi di Bush, il fascino immarcescibile del petrolio
mediorientale, si difendono i diritti degli immigrati. A parlare contro la politica estera
americana non sono studenti barbuti, ma veterani con i baffi. Il discorso, però, non è
molto diverso. «La nostra politica estera non è equa» spiega Robert, che ha fatto la
seconda guerra mondiale ed è venuto apposta dal Minnesota: «Guardate Israele, guardate
il rifiuto di firmare la convenzione contro le armi leggere». Robert e Matt stanno per
marciare insieme, per ridire le stesse cose davanti al Congresso. Sono meno di diecimila e
praticamente invisibili, in un paese che, nei sondaggi, approva al 90 per cento l'idea di
un attacco militare all'Afghanistan. Essere pacifisti, oggi, negli Stati Uniti è un
esercizio di umiltà.
(la Repubblica, 30 settembre 2001)
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