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Il movimento pacifista

trangolino.gif (131 byte) All'università di Berkeley
torna in piazza il pacifismo

Sfilano gli studenti: "No all'occhio per occhio"

di Federico Rampini

BERKELEY - Mentre l'America si avvolge nella bandiera
nazionale, qui a Berkeley l'hanno tolta dai camion dei
pompieri. Per evitare quello che successe nel 1991 durante le
manifestazioni contro la Guerra del Golfo, quando gli studenti
assalirono i vigili del fuoco? «Il clima politico a Berkeley è
diverso, dobbiamo pur tenerne conto» si giustifica il capo dei
pompieri locali Rick Guzman, sommerso dalle polemiche. È
vero: l'università californiana che inventò la contestazione nel
1964 e fece da modello per il Maggio ‘68 parigino, è tornata
in pochi giorni al centro di un nuovo movimento pacifista che
dilaga a macchia d'olio nei campus americani. Qui la più
grossa manifestazione ha mobilitato 12.000 studenti. In testa
al corteo un grande striscione con le parole di Gandhi
«Occhio per occhio: e il mondo diventa cieco». Come ai
tempi delle manifestazioni contro la guerra in Vietnam, gli
studenti cantano «One, two, three, four, we don't want
another war! Five, six, seven, eight, stop the violence, stop
the hate!».
Non passa giorno senza che un corteo attraversi le vie
alberate di questo enorme campus a 20 km. da San
Francisco. In tutta la Baia improvvisamente fioriscono i
dibattiti politici, le firme di appelli, i concerti per la pace. Di
colpo si è ricreata una magica intesa fra leader religiosi,
militanti di lunga data delle tante organizzazioni terzomondiste
californiane, e una nuova generazione di giovani che hanno
scoperto la politica per uno shock istantaneo, di fronte alla
strage terroristica dell'11 settembre. «Chi andremo a colpire?
- si chiede sfilando in corteo lo studente Paul George - Che
cosa chiameremo giustizia?».
Sembra quasi impossibile che la memoria storica di questa
università riaffiori così in fretta: eppure gli anni Sessanta sono
davvero lontani. Questi ragazzi che oggi manifestano a
Berkeley hanno studiato la guerra del Vietnam sui manuali
scolastici. Ai tempi del conflitto contro Saddam Hussein,
erano alle elementari. Oggi la loro prima preoccupazione,
come per i loro padri ai tempi del Vietnam, è di autodifesa e
sopravvivenza. Nonostante tutte le smentite ufficiali, gira di
bocca in bocca la voce di un (improbabile) ritorno alla leva
obbligatoria. E hanno paura. È vero che nel clima patriottico
sono aumentate le domande di arruolamento nell'esercito. Ma
per lo più accorrono quarantenni, spesso già troppo vecchi
per combattere.
Le differenze con gli anni Sessanta ci sono eccome. Intanto
qui nessuno dimentica il punto di partenza, la tragedia che l'11
settembre ha cambiato il mondo: 6.000 civili americani morti
ammazzati. Le stesse manifestazioni studentesche sono
cominciate come veglie funebri, in solidarietà con le vittime.
Poi hanno preso una piega diversa. Ma ancora oggi questo
non è un movimento antiUsa e neppure ipocritamente
«equidistante» fra America e terrorismo. La parola d'ordine
che meglio lo rappresenta è lo slogan che rimbalza dai
dibattiti alle manifestazioni, «Restrained Response»: reazione
contenuta. Spesso i professori di Berkeley, exsessantottini,
sono più a sinistra dei loro studenti e si candidano al ruolo di
coscienze critiche del movimento. Uno di questi docenti,
Robert Lovato, ha raccontato gli interrogatori a cui sottopone
i suoi allievi: «Sapete situare il Pakistan su un mappamondo?
Avete idea di cosa sia una guerra?» Ieri a Berkeley si sono
riuniti in tremila sulla Sproul Plaza per ascoltare la
testimonianza di uno studente, Yes Duffy, 22 anni. Sua zia,
Renee Newell, lavorava per l'American Airlines. Era sul volo
numero 11, si è schiantata contro una torre del World Trade
Center. «I terroristi hanno ucciso mia zia - ha esordito Duffy
in un silenzio di tomba - ma quando accendo la tv vedo le
sigle degli speciali che dicono: l'America in guerra. Il mio
cuginetto non ha più la sua mamma. Ma io non voglio che
altri bambini in altri paesi debbano dire: l'America ha ucciso
mia madre, mio padre».
Berkeley è la punta avanzata ma questa mobilitazione dilaga
in tutte le università: San Francisco City College, Santa Clara
University, perfino la privata Stanford è coinvolta; dalla East
Coast arrivano le notizie di tante manifestazioni simili. Qui
nella Baia il movimento ha anche la sua stazione radio di
riferimento, la Kgo dalle cui onde Bernie Ward lancia una
requisitoria: «Credo che oggi è nostro dovere chiederci che
cosa hanno fatto gli Stati Uniti per provocare la rabbia di tanti
popoli del mondo contro di noi. La mia è una domanda, solo
una domanda. Ma perché non se la pongono i nostri leader,
quelli che stanno per prendere gravi decisioni?».
BerkeleyOakland è il collegio elettorale rappresentato
dall'unica parlamentare che ha votato contro i poteri di guerra
a Bush. La voce di Barbara Lee, donna nera di 55 anni, è
risuonata solitaria al Congresso contro i 420 sì dei suoi
colleghi parlamentari: «Un'azione militare non impedirà nuovi
atti di terrorismo internazionale negli Stati Uniti. Stiamo
attenti a non avventurarci in una guerra dai tempi indefiniti,
senza avere un bersaglio preciso né una strategia di uscita».
Qui in California la sua non è una posizione estrema. Ieri un
sondaggio del Field Institute ha rivelato una preoccupazione
diffusa tra i californiani: il 46% è preoccupato che «il governo
esagererà nelle misure antiterrorismo e potrebbe limitare
troppo le libertà personali».
In tutte le università californiane, le più multietniche del
mondo, uno dei timori è che si crei un clima di sospetto
indiscriminato contro arabi e musulmani. L'organizzazione
terzomondista Global Exchange di San Francisco sta
distribuendo dei manifesti gialli con su scritto «HateFree
Zone», zona libera dall'odio: da regalare ai negozianti di
origine mediorientale perché li appendano alle vetrine, contro
atti di vandalismo o di ostilità. Nei campus cresce l'allarme
per la voce - non infondata - che l'Amministrazione Bush
voglia restringere la concessione di visti agli studenti stranieri,
dopo le rivelazioni sulla storia dei dirottatori. Fanno paura
anche le nuove leggi di sicurezza che il ministro della Giustizia
vuole varare in tempi rapidi: le forze di polizia potrebbero
arrestare a tempo indeterminato o deportare un cittadino
straniero sulla base di sospetti di terrorismo, senza dover
passare al vaglio della magistratura. I californiani ricordano le
rivelazioni sul trattamento subito proprio in questo Stato dagli
immigrati giapponesi e italiani dopo Pearl Harbor: campi di
prigionia, espropri, vessazioni. Nessuno oggi pensa
seriamente che l'America possa ripetere quegli errori della
seconda guerra mondiale, di cui ha fatto ammenda. Ma
intanto si segnalano già molti casi di studenti arabi che hanno
fatto le valigie in fretta e furia, da qualche giorno
abbandonano l'università per tornarsene a casa. Se dovesse
andare così, i terroristi avranno un'altra vittoria, perché
un'America senza di loro sarà più povera di prima.

(la Repubblica, 22 settembre 2001)

 

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