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Le indagini 

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trangolino.gif (131 byte) Documenti, dossier FBI sull'11 settembre

La caccia non è solo a Bin Laden

di CARLO BONINI e GIUSEPPE D'AVANZO

WASHINGTON - L'uomo della Fbi ha una maledetta fretta.
Da dieci giorni il tempo, o meglio la mancanza di tempo, se lo
mangia vivo, come raccontano gli occhi cerchiati di nero e
una faccia stropicciata. "Mettiamola così... il caso è chiuso.
Mohamed Atta, Waleed M. Alshehri, o come diavolo si
chiamassero davvero, oggi ci interessano, ma fino a un certo
punto. Erano a bordo dell'American Airlines 11 e si sono
gettati contro la Torre Sud...".

Bene. Noi non stiamo cercando le prove della loro
colpevolezza», continua l'uomo dell'Fbi. «Non stiamo
raccogliendo prove da portare in un tribunale, davanti a un
giudice. Non è più affare per giudici, questo. Non ci stiamo
preparando a un processo. Ci stiamo preparando a una
guerra e, quando sei in guerra, devi sapere chi, dove e
quando può colpirti alle spalle. Ecco che allora tornano utili
Mohamed Atta, Waleed M. Alshehri, Khalid alMidar, Hani
Hanjour e gli altri. Hanno avuto dei complici? Quali? Quanti?
Dove sono? Sono pronti a colpire ancora? E dove, e come?
Questi sono i miei grattacapi, e non dimostrare che quei
diciannove sono di Al Qaeda e che Al Qaeda è guidata da
Osama bin Laden. Il mio problema è mettere le mani, prima
che si sveglino ancora, sugli uomini di Al Qaeda che sono «in
sonno» da qualche parte nel Paese. Nella nostra lista ci sono
250 nomi: ecco il mio problema. Non le prove».
Il colloquio con l'uomo del Bureau dura non più di dieci
minuti. L'uomo parla chiaro come chiare e nitide sono state
anche le immagini della notte. Nella solennità del Congresso
degli Stati Uniti potevi vedere una macchia di colore nero tra
le grisaglie dei senatori. Era il nero delle toghe dei giudici
della Corte suprema. William H. Rehnquist, John Paul
Stevens, Sandra Day O'Connor, Antonin Scalia, Anthony M.
Kennedy, David Hackett Souter, Clarence Thomas, Ruth
Bader Ginsburg, Stephen G. Breyer sono in piedi.
Applaudono il presidente George W. Bush quando dice
all'America e al mondo: «Gli americani chiedono: chi ha
attaccato la nostra terra? Le prove che abbiamo raccolto
indicano un gruppo di affiliati all'organizzazione terroristica
chiamata Al Qaeda. Questo gruppo ha un capo, e il nome del
capo è Osama bin Laden. Questo gruppo ha legami con altre
organizzazioni che si annidano in altri Paesi e tra queste la
jihad islamica egiziana e il movimenti islamico
dell'Uzbekistan. Da questo giorno in avanti i Paesi che
insistono nel dare rifugio e nel sostenere il terrorismo saranno
classificati come regimi ostili agli Stati Uniti». Ad eccezione
dell'Afghanistan, Bush non nomina questi Paesi. Ma a
nessuno sfugge il riferimento a due «Stati canaglia», Iraq,
Iran.
I giudici della Corte Suprema approvano dai loro scranni.
Applaudono a prove che non ci sono o che, se ci sono,
nessuno ha ancora visto e potuto «pesare». L'uomo del Fbi
ha ragione. Non è più un affare di giustizia. Di indizi e fonti di
prova. Di riscontri e cross examination. Non ci sono avvocati
e testimoni in quest'affare, anche se a White Planes si è
insediato un Gran Giurì. Questo è un affare di guerra, e allora
bisogna avvicinarsi alle informazioni che, da domani,
guideranno la mano armata degli Stati Uniti. Sono quelle
informazioni che faranno da canovaccio al lavoro dei
«commandos della guerra sporca», i 30 mila Berretti Verdi e
Rangers di Omaha Beach e «teste di cuoio» della Delta
Force; i 9.500 dell'Air Force Special Operations Command; i
5.500 dei reparti speciali della Navy.
Bisogna avvicinarsi a quelle informazioni per comprendere
perché Bush alza il dito contro l'Iraq di Saddam e tira in ballo
le responsabilità dell'Iran e della Jhiad islamica egiziana.
Bisogna comprendere il ruolo nell'«attack on America» di
uomini chiave come un dottore egiziano, Ayman Al Zawahiri,
e di un libanese, Imad Mughniyeh. Bisogna ricominciare
allora con pazienza da capo. Da quel martedì di sangue.
* * * *
11 settembre. Ore 8,45. All'Edgar Hoover Building, in
Pennsylvania Avenue, Washington, D.C., il direttore del Fbi,
Robert Muller, ha raccolto il suo staff per il consueto briefing
quotidiano. Accanto a lui c'è Dale Watson, il capo
dell'antiterrorismo. Watson è il primo che intercetta il
dispaccio di sole undici parole: «Un Boeing si è schiantato
contro la Torre Nord del Wtc». David Remnick, premio
Pulitzer e oggi direttore del New Yorker, racconta che la
riunione viene rapidamente chiusa. Manca qualche minuto
alle 9. Molti si precipitano nell'ufficio di Thomas Pickard, il
vicedirettore del Bureau. Sono le 9.05. La telecamera fissa
della Cnn inquadra il Boeing 767 della United Airlines
centrare in pieno la Torre Sud del World Trade Center. Uno
dei funzionari dice a Pickard: «Non c'è dubbio, è un attacco
terroristico...». Quelle parole ronzavano nella testa di tutti e
nessuno aveva il coraggio di pronunciarle per scacciare
l'incubo, fino a quando fosse stato possibile. Cade il silenzio.
Dale Watson è ancora una volta il primo a scuotersi. Si
precipita nella hall a piano terra e avvia la procedura
d'urgenza prevista per gli attacchi terroristici. E' una
«modalità» che prevede la «messa in moto» dello Strategic
information operations center, Sioc.
Il Sioc, che dirige e controlla 4mila agenti e 3mila analisti, è
un ufficio che occupa l'intero quinto piano del palazzo del Fbi.
Alle 9.10, otto uomini entrano nella sala comandi, intitolata a
George Hervert Walker Bush, il padre del presidente degli
Stati Uniti. La sala ha grandi pannelli elettronici alle pareti
che permettono di gestire contemporaneamente cinque crisi,
cinque attacchi. Dale Watson non guarda, però, quei pannelli.
Preferisce il telefono. Chiama tutti i capi dei singoli uffici del
Fbi. E' ancora al telefono quando - sono le 9,45 - il Boeing
757 dell'American Airlines distrugge un'ala del Pentagono.
Ora la voce di Watson, al telefono, è decisamente concitata.
Vuole che si controllino tutte le comunicazioni, in entrata e in
uscita, dei telefoni «sensibili». «Ditemi tutto quello che non
torna. Se uno dice: domani, c'è un matrimonio, voglio sapere
chi è, dove vive, dove era stamattina, dove era ieri e l'altro
ieri, se c'è stato un matrimonio e chi si sposava. Se uno dice:
vieni a casa mia, voglio sapere dov'è quella casa, chi ci vive e
ci ha vissuto. Datemi tutto ciò che vi fa pensare a quel che
stiamo vedendo su quel fottuto televisore...».

ASIMMETRIA. Fin dalle 9,45 dell'11 settembre il confronto
tra gli Stati Uniti e i terroristi che li hanno colpiti è apparso
subito assimmetrico. C'è abitualmente una simmetria
nell'indagine. Cerco un uomo che ha un nome, che è nato da
qualche parte, che ha un lavoro, che spende i suoi soldi.
Identità, relazioni sociali, denaro sono i punti che creano una
simmetria tra quell'uomo, la comunità e lo Stato. Lungo
questa strada ognuno è rintracciabile e nessuno può rendersi
invisibile. In poche ore, al contrario, seimila agenti del Fbi
scoprono che le tecnologie sono cieche, le banche dati
impotenti, l'incrocio dei dati inutile se hai di fronte delle ombre
che hanno rinunciato al nome, alla socialità, all'uso del denaro
nei modi consueti e moderni del conto in banca, della carta di
credito, del bonifico bancario, dell'assegno. * * * * Mohamed
Atta, "il pilota" dell'American Airlines 11 decollato da Boston
alle 7,45 e finito nella Torre Nord alle 8.45, usava soltanto
cash. Andava in giro con un rotolo di dollari. Se lo rigirava
spesso tra le mani. Una notte, alla cameriera di uno dei bar di
Hollywood, Florida, preoccupata per i 48 dollari di drink che
non saltavano fuori, dice brutalmente: "Che credi, ragazzina.
Sono un pilota. Posso pagare quel che bevo". Mohamed Atta
ha pagato in contanti i 38 mila dollari del corso di volo alla
Huffman Aviation di Venice, Florida. In contanti ha pagato
l'affitto di un Cessna 150 (55 dollari l'ora) e sei ore al Sim
Center inc. di Dade County nel simulatore di volo per Boeing
727 (1.500 dollari). In contanti (17 dollari al giorno) ha pagato
la sua stanza a Venice. Oggi lo ricordano per dettagli inutili.
Lucilla Voss, che gli affittò una camera del suo
appartamento, dice che non lo sopportava. "Faceva la doccia
e se ne andava in giro a piedi nudi sgocciolando acqua
dovunque. E quel che è peggio si scrollava l'acqua dai capelli
scuotendo velocemente la testa spargendo acqua sulle pareti,
sui mobili, sullo specchio". I feds, i federali, sanno dire che
cosa Mohamed bevve allo Shuckums Oyster Pub and
Seafood Grill la notte di venerdì 7 settembre, quando Atta
decise di festeggiarsi prima della morte. Bevve un rum
Capitan Morgan e una vodka Stolichnaya. Il proprietario del
"Pink pony", il cavalluccio rosa, strip bar di Daytona beach
(Florida), è in grado di ricordare i suoi occhi fissi sul seno
delle ragazze con cui, l'ultima sera da vivi, i "martiri di Allah"
decisero di congedarsi dal mondo. I feds sono ancora al
lavoro per rintracciare negli angoli degli Stati Uniti - spesso
località turistiche, Delray Beach, Daytona Beach, Laurel,
Cheasepeak Bay, molti motel, molte stanze vuote, tanti
pensionati con troppo tempo da spendere, osservando e
ascoltando - le orme leggere lasciate dai "martiri di Allah".
Uno shopping mall del Maryland dove erano state affittate
due caselle postali. Il Daily Giant Supermarket dove
compravano frutta e verdura per cene a cinque dollari da
cucinare nell'angolo cottura delle loro stanza, al motel. Il
negozio Champs Sports di Willowbrook, dove a lungo
discussero sulla larghezza delle cinture per pesi da comprare
e da indossare la mattina di martedì 11 settembre per
simulare il possesso di bombe a strappo che non avevano.
Ma questi dettagli - dove le "ombre" hanno dormito; la pizza
ai peperoni che hanno mangiato; la birra che hanno bevuto; il
video porno che hanno a lungo occhieggiato in uno store di
Beltsville, Maryland e non hanno avuto il coraggio di
comprare: "sembravano italiani", ha detto un testimone;
l'asciugamano steso a coprire un poster con una donna dai
seni scoperti al Panther Motel di Deerfield Beach, Florida; la
"Gold Gym", palestra che frequentavano a Greenbelt,
Maryland - alla fine appaiono una dimostrazione di
impotenza. Sono un accumulo di dati (l'Fbi ha raccolto 96
mila indizi) che non riesce a spiegare da dove è venuta (e
potrà ancora venire) la morte, non indicano chi si nasconde
dietro la strage. Che poi è quel che conta, per la Casa Bianca
e per gli americani, e non solo per loro. * * * * La verità è
che, ancora oggi, nessuno a Washington è in grado di dire
qual è la vera identità dei diciannove terroristi del "martedì di
sangue". Di dieci di loro, a mala pena, si conosce il nome
(ammesso che sia il nome vero, circostanza da escludere). Di
Satam al Suqami, forse nato il 28 giugno 1976, si presume di
conoscere l'ultimo indirizzo negli Emirati Arabi. Di Wail
Alshehri, provvisorie residenze a Hollywood, Florida e
Newton, Massachusetts. Di Fayez Ahmed, Ahmed
Alghamdi, Hamza Alghamdi e Mohald Alshehri soltanto un
indirizzo a Delray Beach, Florida. Di Waleed M. Alshehri si
conoscono sette date di nascita diverse (13 settembre 1974, 1
gennaio 1976, 3 marzo 1976, 8 luglio 1977, 20 dicembre 1978,
11 maggio 1979, 5 novembre 1979); tre possibili residenze
(Hollywood, Florida; Orlando, Florida; Daytona Beach,
Florida) e un curriculum studiorum che copia come in un
calco la vita, l'educazione e i viaggi di Waleed M. Alshehri,
pilota della Saudi Arabian Airlines, un buon uomo con moglie
e figli che è stato pacificamente negli Stati Uniti per qualche
anno e che oggi vive, senza aver ucciso nessuno, in Marocco.
Di Khalid al-Midar, presentato come kamikaze sul volo
Americani Airlines 77 finito sul Pentagono, dicono che la Cia
lo avesse segnalato per tempo alla polizia dell'immigrazione.
Troppo tardi, dice l'Immigrazione, "era già in California".
Dicono ancora che per un anno abbia vissuto a San Diego,
ospite nella casa del capo della comunità islamica,
Abdussattar Shaikh, prima di raggiungere una scuola di volo
in Arizona. Ma nessuno riesce a dimostrare che Khalid fosse
su quell'aereo. Al contrario, i federali si stanno convincendo
che qualcun altro abbia usato il suo nome. Che Khalid sia
vivo. In Malesia. * * * * Quel che conta è ancora una volta
la sproporzione, la differenza tra quel che le "ombre" hanno
lasciato alle loro spalle e le macerie che hanno provocato.
Basta misurare il risultato "asimmetrico" tra quanto le
"ombre" hanno speso per preparare l'attentato e i danni che
ha provocato. Mohamed Atta ha speso, cash, ventimila dollari
e tutto il "commando" non più di 200 mila. I danni che hanno
provocato ammontano (e sono stime provvisorie) a 6.333
"dispersi", oltre duecento morti, 84 mila miliardi di lire di
perdite per l'economia reale americana e 12 mila miliardi di
lire nell'economia finanziaria a Wall Street, 60 mila licenziati
dalle compagnie aeree. Anthony Blinkin, consigliere del
Center Strategic and International Studies (Csis), think-tank
della Washington che conta, fino a novembre senior advisor
di Bill Clinton, dice che "la guerra asimmetrica era finora un
concetto patrimonio della comunità dell'Intelligence
americana, oggi è un titolo da prima pagina". Per decenni, gli
Usa hanno mosso sul terreno forze tali cui nessun nemico era
in grado di opporsi, una supremazia assoluta in un "conflitto
simmetrico" che contrappone armi convenzionali. Tu hai le
tue bombe, io le mie. Le mie sono maggiori di numero e più
efficienti. Dunque, non mi farai la guerra e la sicurezza del
mio Paese è solida come la tua paura. "Da un certo momento
in poi - continua Blinkin - l'unica risposta possibile dei nostri
nemici è stata la risposta asimmetrica. Che significa impiego
di soluzioni tecnologicamente povere, persino rozze e
abborracciate, ma che - se arrivano a segno - sono capaci di
produrre effetti devastanti peggiori di una risposta
simmetrica". "Ciò che oggi ci minaccia - aggiunge Anthony
H. Cordesman, analista del Csis - è un conflitto in cui il
nemico, prima ancora che uno Stato o una rete terroristica
addestrata, è il singolo capace di colpirci sfruttando la
vulnerabilità delle nostre infrastutture, del nostro sistema
informativo, la eco assicurata dal riflesso globale dei media".
Ecco le ragioni per cui tutte le agenzie d'investigazione e
d'intelligence (Fbi, Cia, Secret Service, Nsa) hanno
scompaginato metodi abituali e procedure consolidate. Via la
simmetria tradizionale delle indagini. Il fatto. Indizi e tracce.
Responsabilità e nomi. Quel che importa non è più accertare
quanto è accaduto, ma comprendere quel che può ancora
accadere, quale sarà la prossima mossa dei terroristi. In
questo gioco, la pedina più importante diventa non il kamikaze
morto dell'American Airlines 77 e 11 e dell'United Airlines
175 e 93, ma chi può raccogliere il testimone del suo
"martirio". * * * * Più che la vita di Mohamed Atta, oggi è
dunque il tempo dei "material witness". I testimoni materiali.
Qualcosa di più di un testimone del fatto su cui indaghi.
Qualcosa di meno di un imputato. Abbastanza per essere
sbattuti dentro e "lavorati" dai federali. Per poi finire magari
davanti al gran giurì di White Planes (New York), che
dell'inchiesta - oggi - è il formale, primo collo di bottiglia
istruttorio. Se canti, puoi cavartela e uscirne con il minimo
danno. Se taci, meglio che ti prepari al peggio. Ayub Ali
Khan e Mohamed Jaweed Azmath sono i primi due nomi di
questa lista. Che - c'è da scommetterci - non finirà di
allungarsi. L'Fbi li agguanta dopo neanche ventiquattro ore
dal martedì di sangue. Il 12 settembre, su un un vagone
dell'"Amtrak" proveniente da Saint Louis e diretto a Boston.
Addosso gli trovano rotoli di contanti per migliaia di dollari e,
quel che è peggio, apriscatole. Apriscatole identici a quelli
utilizzati per tagliare le gole di passeggeri e hostess a bordo
dei quattro aerei bomba. Forse, anche Ali Khan e Azmath
dovevano morire quel martedì. Imbarcati sul volo
Newark-San Antonio atterrano a Saint Louis quando il
traffico aereo chiude i cieli dell'America. Provano a rientrare
nell'anonimato da cui sono usciti. Vengono fermati prima che
ci riescano. Soprattutto, accendono il faro su un altro angolo
degli Stati Uniti: San Antonio, Texas, loro ultima destinazione
del volo del "sospetto". Qui, in un dignitoso condominio, vive
Al-Badr Mohammed H. Al-Hazmi. Trentaquattro anni,
medico radiologo specializzando alla University of Texas
Health Science Center con borsa di studio pagata dalla Saudi
Arabian Oil co., la barba curata ad incorniciare una faccia
per bene da studioso, Al-Hazmi finisce nei pasticci per una
prenotazione sul volo del 22 settembre San Antonio-San
Diego via Denver. Con i due dell'Amtrak non ha nulla a che
fare (è la stessa Fbi a confermarlo). Ma San Diego - lo
abbiamo capito - è luogo che eccita il sospetto dei federali.
Perché lì un filo almeno della trama del martedì di sangue è
stato tessuto. Perché lì, in California una parte almeno dei 19
kamikaze "ombra" ha trovato riparo. Soprattutto, il 22
settembre è data ricorrente nel mare magnum degli indizi
raccolti dai federali. Quasi ad autorizzare il sospetto che
fosse il "giorno di riserva" se il martedì di sangue non avesse
compiuto il suo corso. Cosa i federali abbiano trovato negli
armadietti di Al-Hazmi, nella sua camera da letto, negli hard
disk dei suoi due computer, non si sa. Forse si sono convinti
che fosse uno dei cassieri della rete. Forse - e più
probabilmente - a lui porta una delle tracce elettroniche -
e-mail - che i diciannove kamikaze hanno seminato dai
computer di una biblioteca comunale di Delray beach
(Florida) nei 30 giorni precedenti l'11 settembre. "Material
witness" diventa anche un omaccione che l'11 settembre è
già in galera da tempo. Habib Zacarias Moussaoui,
marocchino di 33 anni di saint Jean de Luz. Una vecchia
conoscenza dei servizi segreti francesi, che cominciano a
stargli dietro dalla metà degli anni '90, quando lo fotografano
in un eccitato appello "ai fratelli musulmani francesi ad unirsi
alla Jihad", guardano con sospetto ai suoi viaggi in Pakistan e
Afghanistan, ai falsi indirizzi londinesi forniti al momento di
rinnovare il passaporto. Quando i federali bussano alla sua
cella nel Minnesota correctional center, Moussaoui è in
attesa di sapere cosa ne è stato dell'accusa per cui, il 17
agosto, lo hanno ammanettato: immigrazione clandestina. Ma
i federali gli consegnano il mandato di arresto che vale un
viaggio a New York davanti al gran giurì di White Planes.
Qualcuno, dal carcere, ha soffiato che Moussaoui ha salutato
il martedì di sangue con scomposta felicità. Ma, soprattutto,
l'Fbi ha ritirato fuori il suo fascicolo, lo ha incrociato con le
informazioni di Parigi e ha scoperto che una delle scuole di
volo messe sotto osservazione - la Oklahoma aviation school
- è proprio il luogo dove Moussaoui, a metà agosto, ha chiuso
la sua avventura americana, pretendendo, senza averne i titoli
(neppure un visto valido sul passaporto), di frequentare un
corso di addestramento al volo. La stessa scuola visitata da
Mohamed Atta. A White Planes finiscono anche Omar
Bakarbashat, studente di 26 anni di San Diego, accusato di
immigrazione clandestina e di contatti con almeno due dei
kamikaze del martedì di sangue e un ex tassista di Boston. Si
chiama Nabil Almarabh, kuwaitiano, 34 anni. I federali lo
inseguono per giorni. Prima a Detroit, dove risulta
ufficialmente residente, quindi nella periferia di Chicago, a
Burbank, dove lo ammanettano mercoledì sera dietro il
bancone di una botteguccia di liquori. Almarabh - ne sono
convinti - è stato, è, uno dei nodi della Hawala, la rete
finanziaria clandestina cui le cellule di Bin Laden si
appoggiano. Dal suo retrobottega sarebbero usciti i dollari
necessari alle spese americane dei "martiri di Allah". E la sua
patente di guida per camion destinati al trasporto di materiale
pericoloso è considerato un motivo in più per toglierlo dalla
circolazione. * * * * "Material witness" e "Watch list". Sei
nomi nella prima, 250 nella seconda, quella che toglie il sonno
alla nostra fonte del Fbi. Due nomi su tutti. Imad Mughniyeh.
Ayman al Zawahiri. L'intelligence militare israeliana li
insegue da sempre. E da sempre tormenta la Cia perché non
ne dimentichi le facce, la ferocia, l'odio. Imad Mughniyeh è
uno sciita libanese e Ayman Al Zawahiri è (forse) un
egiziano. Lo "psicopatico" di Hezbollah e il "dottore" della
Jhiad. Lo sciita libanese pazzo e il luogotenente di Osama Bin
Laden. Gli israeliani ne sono convinti: se Osama non ha
concepito da solo lo scempio del martedì di sangue, se a lui si
sono associate o sostituite altre possibili menti malate, allora
queste non possono che essere Mughniyeh e Al Zawahiri.
Nessuno sa oggi dove si nascondano, ma molto si sa di quel
che nell'ultimo anno sono andati progettando. Grazie a un
arresto "fortunato" dell'ottobre scorso, quando al confine tra
Afghanistan e Pakistan, i servizi segreti di Islamabad mettono
le mani su Salah Suleiman, ufficiale dei servizi segreti
iracheni. Nel paese in cui i diritti umani sono un'opinione, ai
prigionieri come Salah si sa come far vuotare il sacco. E a
Islamabad Salah non resiste, cede, parla. Racconta che Al
Zawahiri è il contatto di Bagdad con Osama. Che l'ordine di
Saddam è mettere a disposizione di Al Zawahiri, l'uomo della
Jihad pronto a succedere ad Osama, ogni supporto logistico
necessario a fare il lavoro sporco contro il Satana americano.
E a farlo come si deve. Bagdad ne godrà senza dividerne le
responsabilità. Soprattutto se - come pensano gli israeliani -
dire Jhiad e Al Zawahiri, significa dire anche Mughniyeh ed
Hezbollah, la seconda delle leve del terrore che Osama può
impugnare. Di Mughniyeh, 48 anni, si sa solo che ha
conservato il nome. La sua faccia è stata rifatta da un
chirurgo plastico di Beirut, dopo che sulla sua testa la Cia ha
appeso una taglia di 2 milioni di dollari, quattro miliardi di lire.
"Uccidere americani - spiega una fonte dell'intelligence
israeliana - è ciò che nutre la sua psicopatia, la sua sete di
vendetta per la morte dei suoi due fratelli. Di fronte a lui,
Osama Bin Laden è un bambino dell'asilo". Uccidere
americani nel più brutale e spettacolare dei modi è del resto
quel che Mughniyeh sa fare meglio, da sempre. Dal 1983,
quando uno dei suoi kamikaze spedisce all'altro mondo 200
marines a Beirut. Da quando, nel 1984, sequestra e massacra
con le sue mani l'allora capostazione della Cia a Beirut,
William Buckley, senza prima aver trascinato gli Stati Uniti
nel pericoloso gorgo di una fornitura di armi all'Iran in cambio
della liberazione dell'ostaggio ("Irangate"). Nel 1992 fa
saltare l'ambasciata israeliana a Buenos Aires, in Argentina.
Novantadue morti. La vendetta lo raggiunge l'anno dopo.
Un'autobomba del Mossad gli uccide il secondo fratello e lo
getta nell'ossessione paranoica. Nella mente di Mughniyeh si
fa strada l'idea di portare il terrore nei cieli. Mentre lui è a
Cipro a prendere lezioni di volo, i suoi uomini dirottano jet
della Kuwait airlines e della Twa e per sole due ore, nel 1997,
falliscono nel progetto di far saltare un Boeing della El Al sui
cieli di Tel Aviv. L'ordigno si innesca accidentalmente nelle
mani del kamikaze che avrebbe dovuto portarlo a bordo. Un
uomo con passaporto inglese. Un'ombra capace di passare
inosservata e scivolare tra le maglie del meticoloso controllo
israeliano, proprio come i 19 del martedì di sangue. E' Imad
Mughniyeh che oggi l'Fbi cerca come ognuno di noi cerca
l'aria per respirare. Potrebbe essere Imad "l'uomo dai capelli
sale e pepe, di mezz'età - spesso si presentava come pilota
comandante - che più testimoni raccontano di aver visto a
colloquio con i diciannove del martedì di sangue". Osama bin
Laden. Ayman Al Zawahiri. Imad Mughniyeh. Tre nomi. Tre
Paesi. Afghanistan. Iraq. Iran. Alla fine anche la "guerra
asimmetrica" ritrova la sua simmetria nella guerra che
George W. Bush ha scelto di combattere. Il presidente degli
Stati Uniti sa che non può essere soltanto "un terrorista", "un
mafioso" il nemico che terrorizza il suo popolo. (ha
collaborato Riccardo Staglianò)

(la Repubblica, 22 settembre 2001)

 


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