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Carlo Azeglio Ciampi: "E' l'Italia che sognavo da ragazzo. Né fascista né
comunista, libera"
Chissà se ha in mente la volta in cui il Papa, in viaggio a Beirut nel
97, davanti a un gruppo di ragazzi entusiasti che gli avevano preparato una festa di
compleanno troppo anticipata, replicò stringendo con forza il pastorale e borbottando uno
scaramantico «not yet, pas encore, parliamone tra otto giorni». Forse se la rammenta,
Carlo Azeglio Ciampi, quella sortita, amplificata nella diretta tv. Pure lui ha quasi
voglia di scherzare, sulla pioggia di messaggi augurali che da ieri mattina vengono
recapitati sul Colle: manifestazioni di stima e simpatia, ma evidentemente gli fa un certo
effetto che precorrano di ventiquattr'ore lanagrafe. Ci sorride sopra, il
presidente, perché i suoi ottantanni cadono solo oggi, mentre il 19 dicembre
toccherà alla moglie Franca, coetanea, soffiare sulle candeline. Sono stati «anni densi
e fortunati», dice, con una riflessione retrospettiva nel suo studio. «Anni fortunati a
partire dalletà della formazione, in famiglia prima e poi al liceo, presso i
gesuiti di Livorno, e poi ancora alla Normale di Pisa». «Anni cruciali», aggiunge, e
pensa soprattutto «allinvernata» che lo aspettava dopo lotto settembre 1943,
trascorsa sulle montagne dellAbruzzo a fianco di un maestro, il filosofo Guido
Calogero, che lì stava confinato, mentre lui era un tenente di 23 anni che cercava di
varcare le linee per ricongiungersi allesercito regolare, al Sud. «Furono mesi
durissimi, eppure colloco proprio in quella stagione i miei ricordi più belli... Ero come
carta assorbente, come creta che a poco a poco si va plasmando, curioso di tutto e sempre
in cerca di risposte. LItalia che sognavo allora, libera, né fascista né
comunista, alla fine siamo riusciti a costruirla. E un grande Paese e, ciò che più
conta, comincia ad esserne sempre più consapevole».
Ciampi allude a tanti indizi che percepisce personalmente: il «noi» degli italiani, a
rischio per mancanza di autostima, sembra uscire dalla depressione grazie anche al
«lavoro sulla memoria» avviato dal Quirinale. Insomma: se unidentità di popolo
data per agonizzante ora si rianima e se può dunque rinascere un sobrio orgoglio
nazionale, lo si deve (come certificano, con trasversale unanimità, gli storici
contemporanei e i partiti) a quellazione di pedagogia civile che lui ha avviato,
sollecitando il recupero di riti repubblicani perduti, di spazi simbolici lasciati a lungo
deserti, di inni, bandiere, parate.
Eppure, il capo dello Stato spiega di non agire «secondo alcun progetto o disegno».
«Prendo queste iniziative in base a impulsi spontanei, non faccio retorica. Sento che,
anche così, si sta creando un più forte legame, una comunione tra me e gli italiani. Ho
pudore a parlarne, ma non me ne vergogno: se devo riandare a un momento in cui ho
avvertito la responsabilità e lorgoglio di rappresentare il nostro Paese, ripenso
al maggio del 1993, quando, da presidente del Consiglio, andai a fare una visita di Stato
in Germania. Da noi le cose non andavano bene, in ogni senso, credibilità e affidabilità
erano purtroppo questioni aperte. Ad un certo punto, stavo a fianco di Kohl su di un
palco, fu issato il tricolore mentre la banda suonava Mameli. Beh: un brivido mi corse
lungo la schiena e mi tremarono le gambe».
Pensò magari all«Italia nuova», che vagheggiava con Calogero e il nucleo di
antifascisti rifugiati sui monti di Scanno e coagulati nel Partito dazione?
«Sì, i discorsi che facevamo giorno e notte, gli interrogativi che insieme ci ponevamo,
echeggiano spesso dentro di me. Nessuno sapeva quel che ci avrebbe riservato il futuro.
Una cosa legava i giovani della mia generazione, quelli che avevano una forte impronta
nazionalistica e quelli che non avevano una maturità politica definita, ma si ritenevano
incompatibili con la retorica e lintolleranza della dittatura: non avevamo
"sentito" la guerra. Ci eravamo prima augurati che la conferenza di Monaco, nel
39, avesse salvato la pace, mentre era solo un rinvio, e comunque anche dopo i primi
bombardamenti coltivavamo lillusione che il conflitto si potesse risolvere in
fretta. Il sentimento generale era quello di un popolo che voleva esser fedele rispetto
allo Stato di allora, ma che di sicuro si metteva in armi senza passione. Lepilogo
dellotto settembre creò un enorme smarrimento: un esercito guarda ai propri
comandanti, e dato che questi erano in fuga, bisognava cercare nella propria coscienza la
strada giusta da imboccare».
Ciampi, che era cresciuto «con il lievito liberal-crociano della Normale, uno spazio di
libertà impensabile per lepoca», la strada la trova nei mesi di clandestinità
sullAppennino. «La gente aiutava noi quanto soccorreva inglesi e americani, e
davvero "dividemmo il pane che non cera", come hanno scritto in un libro i
ragazzi di una scuola di Sulmona. Non voglio fare polemiche, tantomeno con gli storici, ma
nella tragedia dellautunno del 1943 la Patria rinacque, altro che morire. Anzi, se
per Patria sintende lo spirito ditalianità, dovremmo forse andare molto più
indietro nel tempo, e potremmo rifarci addirittura a Dante e Petrarca e via via,
attraverso lesperienza delle libere repubbliche, collegarci con il Risorgimento e
arrivare alla Costituzione del 47, in cui la Patria ritrova la sua struttura».
Logico che cè più di una slogatura storica e parecchi rammendi strinati, nella
vicenda di quest«identità comune» che il presidente proietta in modo così
retroattivo. Tuttavia il filo della continuità lo distingue «con nettezza» e lo evoca
di continuo per sottolineare limportanza delle memorie, come ha fatto giorni fa
andando alla casa Nathan-Rosselli, dove Mazzini morì sotto falso nome, «da esule in
patria».
«La mia gioventù è stata bruciata dalla guerra», continua Ciampi nella sua
riflessione-bilancio. «Comunque, per chi ha avuto la sorte di scampare al conflitto, e
tanti sono morti combattendo, si può dire che quella gioventù sia stata particolarmente
fortunata. Certo, abbiamo avuto lacerazioni e difficoltà, passioni e inquietudini, ma
abbiamo saputo superarle, traducendo in realtà lideale di un Paese non totalitario
- ripeto: né fascista né comunista - sotto la spinta a unire forti istanze sociali con
il rispetto della libertà».
Ma quanto ha senso insistere nella riscoperta di una tradizione repubblicana, mentre il
Paese mostra dessere ancora lacerato proprio sulla storia più recente? E serve
davvero il recupero di una «religione civile», fatta di simboli e liturgie da riscoprire
dopo una fase di «secolarizzazione» coatta, visto che non è chiusa la grande crisi
politico-istituzionale degli anni Novanta?
«La fiducia nel futuro si nutre della memoria condivisa del proprio passato. E
loblio genera invece indifferenza. Io non sto inseguendo unastrazione, non
faccio nulla di premeditato. Interpreto il mio ruolo in modo assolutamente spontaneo,
faccio ciò che "sento", e credo che in questo mi sia stato utile laver
scelto di vivere al Quirinale: dal cambio della guardia allalzabandiera, tante cose
rituali solo in apparenza mi fanno percepire il pericolo di una certa amnesia e insieme
limportanza di ridare dignità alle istituzioni almeno in alcuni momenti di forte
valore simbolico per tutti».
E successo così, racconta, oltre che per il ripristino della parata del 2 giugno
(«mi pareva giusto che potessero sfilare i nostri militari impegnati in missioni di
pace»), per la riapertura del Vittoriano, il 4 novembre: «Quando a giugno ho saputo che
stavano per essere completati i restauri, ho chiesto di poterlo visitare e una volta lì
mi sono sbalordito. Ho scoperto un monumento straordinario, che la gente forse non ha mai
osservato veramente oltre il sacello del milite ignoto. Un monumento che, oltretutto,
riassume lunità dellItalia nelle sue tante diversità. Mi pareva assurdo che
restasse ancora chiuso».
Ed è successo così per la visita che ha voluto fare una settimana fa nel gelo di Tambov,
500 chilometri a Sud di Mosca, dove sono sepolti almeno 12 mila soldati italiani
dellArmir. Teneva in tasca la sua vecchia "bustina" da autiere, Ciampi,
mentre una banda suonava lInno del Piave. «Tra quei caduti cerano tanti miei
fratelli, miei commilitoni. E avrei potuto esserci anchio, se il destino non avesse
deciso diversamente. E fondamentale tenere viva e salda la memoria, perché certi
orrori del passato non possano più ripetersi. Lidea di Europa ha corso il rischio
di uscire annichilita, dallurto culturale e politico prodotto dalle due guerre
mondiali e dai due totalitarismi del Novecento. Se è sopravvissuta, e grazie al cielo è
sopravvissuta, lo deve alle sue radici storiche. Che alla fine del secolo sono riuscite ad
avere ragione di ogni barricata politica». Il pensiero, è chiaro, lo porta alle
difficoltà del vertice di Nizza, per il quale si è speso molto nei mesi scorsi. Non lo
dice, ma il regalo più grande che si augura è una chiusura che decreti un successo
dellItalia e dellEuropa.
(Corriere della Sera, 9 dicembre 2000)
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