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Biografia
Costantino
Lazzari
Vita di un socialista lombardo da Bertani a Lenin
(1857-1927)
di Gianni Artero
Laggettivo usato nel sottotitolo individua una caratteristica
fondamentale del personaggio, lombardo per la
matrice culturale che, se nei "momenti bassi" si esprime in un
"buonsenso" un po' gretto e
provinciale individuato con ironia da compagni e avversari[1],
si manifesta in positivo nell'agire concreto dell'organizzatore di circoli, dell'
amministratore di iniziative editoriali, del tessitore di reti di sezioni; il suo
antiriformismo non è retorico "atteggiamento"
frequente nel socialismo rivoluzionario, ma espressione di una diffidenza classista nei
confronti dei politici di professione e degli intellettuali, come si vedrà più avanti
nell'episodio del segretario napoletano del carcere di Finalborgo ...non saremo
noi Milanesi ignoranti che andremo a prendere lezione di socialismo dai Napoletani
sapienti, perché noi nella vita sociale facciamo già pratica militante della politica
socialista [2].
Abbiamo utilizzato l'autobiografia scritta nel 1926[3]
- ma che si arresta alla fine dell'Ottocento - riproducendone ampi stralci, per l'esposizione vivace, con qualche eccesso "cruento"
(probabile derivazione dalla "letteratura d'appendice") verificandola e integrandola con le altre fonti.
Questo scritto aveva anche una motivazione pratica perchè la "Fondazione Giacomo
Matteotti" (istituita nel 1925 allo scopo di raccogliere autobiografie di
organizzatori del movimento socialista), aveva offerto a Lazzari, che aveva perso
l'indennità parlamentare e si avviava ai 70 anni con a carico la moglie e una figlia
adottiva, una modesta retribuzione in cambio della sua collaborazione a questo progetto.
"Tra poco avrò raggiunto i settant'anni
della vita. Arrivato a quest'ultimo periodo della vita, povero e proletario come sono
nato, trovo di non possedere altra ricchezza che la coscienza tranquilla e la fede sicura
nell'avvenire del socialismo (...). Come si è formata in me questa fede e come ho
acquistata questa tranquillità di coscienza? Non è possibile rispondere a queste
domande senza avere la conoscenza dell'ambiente sociale in cui sono cresciuto e il cui
carattere ebbe certamente una influenza capitale nel determinare in me la comprensione
completa delle dottrine egualitarie moderne."
Da
Cremona a Milano
Così inizia le sue memorie, e prosegue "Sono figlio della gleba cremonese per parte della stirpe paterna (una
mia nonna contadina morì suicida in un accesso di pellagra)" ma la madre, Anna
Grandi "apparteneva ad una discendenza di privilegiati decaduti, imparentata con
una delle più illustri famiglie di Lombardia", mentre il padre era
insegnante di storia e letteratura nelle scuole secondarie. Pur enfatizzando l' ascendenza
contadina dal lato paterno, è comunque difficile definirla una famiglia proletaria.
Problemi dovettero sorgere presto in famiglia perchè (secondo la sua versione non molto
chiara) "l'ardente idealismo con cui mio padre diede
inizio alla vita della propria famiglia, fu causa di gravi e profondi turbamenti nei
nostri reciproci rapporti, per cui a otto anni
si trasferisce col fratello maggiore dai nonni materni impiegati
dell'Istituto tecnico Santa Marta di Milano.
Nel 1857 Cremona aveva circa 30.000 abitanti e, pur essendo solo il
capoluogo di una provincia lombarda, era però negli anni tra l'ultimo quarto
dell'Ottocento e il primo del '900 ricca di personalità di rilievo nazionale[4],
come Guido Miglioli, organizzatore delle "leghe bianche" (cattoliche) contadine,
il radicale Ettore Sacchi, il socialriformistia Leonida Bissolati, il repubblicano
Arcangelo Ghisleri, il cattolico Stefano Jacini, il vescovo Geremia Bonomelli; ma la
precoce partenza dalla città natale non gli consentì un radicamento nell'ambiente
locale, immergendolo nella realtà milanese
fin dalla prima adolescenza.
Dopo
le classi elementari, per le ristrettezze economiche
familiari, frequenta non il ginnasio, che preparava agli studi universitari, ma la scuola
tecnica, preferita dalla piccola borghesia perchè dava immediato accesso agli impieghi, e
quì inizia ad interessarsi di problemi sociali e politici
"Gli avvenimenti della vita italiana
esercitavano su di me una strana attrattiva ed io con avidità ed entusiasmo leggevo i
letterati che vi avevano dedicato le loro opere : Guerrazzi, Berchet, Massimo D'Azeglio,
Manzoni, Grossi, Niccolini, ecc." La scoperta della politica avviene anche
tramite un compagno di classe "Enrico
Dalbesio, un simpatico giovanotto proletario di vivace ingegno e di cuore ardentissimo. Da
certi parenti che aveva in Francia egli riceveva molte di quelle pubblicazioni che al
tempo della Comune di Parigi e dopo avevano circolato per l'Europa. Noi le leggevamo di
nascosto ed erano l'argomento favorito dei nostri discorsi: così si iniziò nel mio animo
il primo germe delle cognizioni sociali."
Il
lavoro e linchiesta sociale. Anna Maria Mozzoni
Finita la scuola
tecnica, è costretto a cercare un impiego a quindici anni - età non precoce in
quel tempo per l'ingresso nel mondo del lavoro, che anzi nei ceti proletari avveniva anche
molto prima - entrando "come garzone di magazzino presso
la ditta del sig. Luigi De Giorgi, una vecchia e riputata casa di rappresentanza e
deposito di filati. Dopo alcuni mesi di lavoro gratuito allora si usava così
il 15 agosto 1873 vi guadagnai le prime 50 lire come mancia di ferragosto : mi
parve di essere diventato ricco e mi comperai l'orologio! Passato il tempo del mio
tirocinio, nel 1875 cominciai a ricevere lo stipendio regolare di L. 30 mensili. In quelle
condizioni ritrovai il mio compagno di scuola e di banco Enrico Dalbesio (...). Dopo il
nostro orario di lavoro ci trovavamo sempre a passare qualche ora ragionando intorno ai
nostri preferiti argomenti sociali
. L'amico Dalbesio era poi un grande entusiasta
per le arti belle e ambedue, durante la scuola tecnica, ci eravamo tanto distinti nello
studio del disegno che io mi decisi a frequentare l'Accademia di Brera approfittando
dell'orario mattiniero (dalle 6 alle 9)
nella stagione estiva... Per tre anni mi dedicai con passione allo studio elementare della
figura: arrivato ai corsi di nudo, essendo cambiato l'orario scolastico, dovetti
abbandonare l'Accademia per non perdere quel piccolo guadagno che mi permetteva di aiutare
la vecchiaia dei nonni."
Quando il nonno
morì, la nonna si trasferì a Cremona. Rimase solo, abitando per sette anni "in un abbaino, sotto i tetti, dove d'estate si moriva di
caldo e d'inverno di gelo" perché il fratello
maggiore, maestro elementare, viveva da sé. In quel periodo, pure lavorando nel magazzino
dei filati, continuò lo studio della lingua francese e iniziò anche quello delle lingue
tedesca ed inglese frequentando una scuola serale "dove ero accolto gratuitamente
per simpatia del titolare alla memoria del povero nonno.
Sfuggito al servizio
militare avendo estratto un alto numero di leva, si dedicò alla conoscenza degli ambienti
e dei personaggi impegnati nelle questioni sociali e politiche, venendo a contatto anche
con la Lega Promotrice degli Interessi Femminili e con la sua
presidentessa, una nobile e gentile signora, Donna Anna Maria Mozzoni, che mi
impegnò in un grande lavoro di osservazione, di studio e di azione. Questa mia attività
(...) ebbe anche il prezioso risultato di svelarmi gli abissi di miseria del proletariato
di città e di campagna. Ricordo che per parecchi anni vissi come ossessionato dalle
scoperte che andavo facendo: tutte le domeniche invece di andare a spasso in cerca di
divertimento, approfittavo dell'orario di entrata libera nell'Ospedale Maggiore per girare
in quelle corsie dolenti, fra quei letti dove la poveraglia manda i suoi malati e i suoi
moribondi e poi scappavo nel mio abbaino a meditare, a imprecare, a piangere di rabbia e
di impotenza di fronte a tanti spettacoli di dolore e di miseria". Fu cooptato nel comitato esecutivo della Lega,
composto dalla Mozzoni, da Paolina Schiff e da due operaie, in cui ebbe lincarico
del coordinamento con le società operaie: di ciò non fa cenno nellautobiografia, e
sorprende la rimozione di questo aspetto della sua vita politica, così come il fatto che
non menzioni l'adesione della Lega al P.O.I nel 1888. [5]
Intanto
progrediva nella carriera commerciale. "Il mio
salario mensile da 30 lire era salito a 50, poi a 90, poi a 100, ciò che era allora una
ricchezza, tanto che mi decisi a far venire a Milano i miei tre piccoli fratelli, ai quali
mio padre non voleva più provvedere. Alloggiai i due maschi come novizi in botteghe di
salumieri, e la sorella in una buona famiglia di onesti proletari, pagando le relative
quote di pensione e di noviziato. Io vivevo spendendo meno di 60 lire al mese mangiando
nelle modeste trattorie dei sobborghi.
Dopo qualche anno
fece venire a Milano tutta la famiglia, padre, madre e nonna, che andarono ad abitare in
un piano terreno di via Lanzone. "Ricostituimmo
così alla meglio un po' di vita domestica : io rimasi sempre nell'abbaino di via Santa
Marta, dove coi libri che mi procurava l'amico Dalbesio andavo perfezionando le mie
cognizioni politiche".
In quel periodo di tempo il fratello gli propose di aiutarlo a
stampare manualetti razionali di istruzione infantile.
"Comperammo a credito un vecchio torchio, due o tre quintali di caratteri e nella
casa di via Lanzone ci mettemmo ad imparare l'arte tipografica."
Intanto era venuto a morire il signor De Giorgi, e il suo magazzino
passò in eredità a suo genero, che lo fece diventare il suo alter ego: "cassiere, procuratore, viaggiatore con uno
stipendio di 150 lire mensili. Ma anche il relativo benessere che così potevo procurarmi,
non valse a farmi cambiare il regime di vita, di studio e di pensiero (...) La grande energia muscolare, che nel passato mi aveva permesso di
andare a piedi, d'estate e d'inverno, da Milano a Cremona, per trovare i miei parenti, non
bastava più a soddisfare gli impegni che man mano si moltiplicavano nella mia vita e
perciò, allo scopo di accelerare i miei movimenti, pensai di adottare l'uso del
velocipede. Oltre a girare la Lombardia in lungo e in largo, percorsi così per la prima
volta l'Emilia, la Toscana, la Liguria, sempre infaticato e infaticabile."
Il
"Circolo operaio". Eliseo Reclus
Proseguendo
nellesplorazione degli ambienti politici, si iscrisse al Circolo Operaio che era
stato allora istituito nei locali del democratico Consolato Operaio, per avere occasione
di scambiare "parole ed idee cogli uomini e con le donne, vecchi e giovani,
specialmente repubblicani, anzi mazziniani, che allora popolavano quei locali. Quante
conoscenze vi feci allora di ardenti giovinetti che poi, dopo cinquant'anni, ritrovai in
parlamento deputati e anche ministri del re !"
Iniziò a concorrere all'opera di propaganda con un discorso intorno
alla Emancipazione della donna:
"ricordo che davanti a quel ristretto uditorio non ebbi il coraggio di alzare gli
occhi dai fogli sui quali leggevo il mio discorso. Quel primo saggio però valse a farmi
rompere la crosta dell'abitudine, e da allora in poi, in piccolo o in grande, mi abituai a
discutere pubblicamente e a sostenere le mie opinioni.
Frattanto,
con le elezioni del 1882, entrava in vigore la legge promulgata dal governo Depretis che
allargava il diritto di voto politico. Il
campo politico era conteso a Milano tra i costituzionali e i democratici, che col giornale
II Secolo esercitavano la loro influenza sul Consolato Operaio, una
federazione di società di mutuo soccorso patrocinate dai democratici.
I
democratici del Secolo lanciarono la candidatura operaia di Antonio Maffi,
un fonditore di caratteri, e lo fecero parlare in un grande comizio popolare tenuto nel
Teatro della Canobbiana per esporre il programma degli operai democratici. "Vi
accorremmo tutti: egli esordì con queste precise parole : « Guerra alla guerra fra il
capitale e il lavoro ! ». Fu per noi una grande delusione, perché noi credevamo nella
esistenza della questione sociale e nella necessità della sua soluzione. Il
giornale La Plebe, che Enrico Bignami pubblicava a Lodi, diventò allora il loro portavoce
permettendo di allargare la cerchia delle conoscenze e quindi la sfera d' influenza.
Nelle elezioni politiche di quell'anno 1882 era diventato primo
deputato socialista Andrea Costa: la sua nomina aveva destato infiniti commenti fra i
giovani del Circolo Operaio. Specialmente gli anarchici avevano criticato l'entrata di
Andrea Costa in parlamento e fra i giovani si era sollevata una accanita discussione, alla
quale "anche io presi parte senza avere però in proposito una opinione precisa e
sicura. Allo scopo di orientarmi definitivamente nell'indirizzo da seguire, decisi
di approfittare della buona stagione estiva, per andare ad informarmi personalmente presso
il grande geografo Eliseo Reclus che abitava
a Clarens sul lago di Ginevra e che in nome dell'anarchia conduceva una violentissima
campagna contro Andrea Costa deputato. A cavallo del mio velocipede, attraversai le Alpi,
passando per il San Gottardo, percorsi in tutta la sua lunghezza il cantone Vallese,
passai da Losanna ed arrivai a Clarens dove fui accolto ed ospitato con grande
cordialità. Per una giornata intera, restai nello studio di quel grande scienziato a
discutere con lui e con altri suoi amici intorno alla situazione politica italiana. Venuta
la sera, mi accomiatai dicendogli: «Se la vita del mondo fosse tutta racchiusa in questa
bella villetta sulle rive del lago, coperta di rose, ridente di luce di azzurro e di
verde, le vaste teorie politiche potrebbero avere ragioni ma essa si svolge nei grandi
centri di popolazione, dove si fatica e soffre nelle tribolazioni e nella miseria ed io
vado là per aiutare fraternamente il lavoro pratico, preparatore dell'ideale futuro.
Il primo arresto. Il Fascio operaio e la Lega Figli
del lavoro
Il
20 dicembre 1882 era stato impiccato a Trieste Gugliemo
Oberdan e i repubblicani avevano chiesto al Circolo Operaio di partecipare a una manifestazione di
protesta.nel giorno di Natale in piazza del Duomo. "Io vi avevo aderito più reagire
contro la barbarie della pena di morte, che per adesione al programma irredentista della
dimostrazione (...) fui caricato dai carabinieri, afferrato da cento mani, schiacciato
contro un muro (...) e finalmente arrestato, ammanettato e condotto nelle prigioni della
Questura. Mio fratello che aveva assistito alla scena ed era accorso per vedere cosa mi
facevano, venne pure arrestato e così ci trovammo in undici giovinetti chiusi in quelle
orribili e vergognose prigioni di S. Fedele, dove passammo una notte di insonnia e di
disgusto. Il giorno seguente fummo condotti nel Carcere Cellulare e dopo pochi giorni
giudicati per direttissima. Io venni assolto [ma]
messo di fronte al dilemma: o abbandonare la vita commerciale o abbandonare la vita
politica, ben inteso col diritto alla più ampia libertà del mio pensiero !"
Al
padrone della ditta era insopportabile l'idea di avere per procuratore uno che era stato
in prigione e poteva tornarvi: così nel 1883 fu licenziato pur avendo sulle spalle il
carico della famiglia paterna e la vita della vecchia nonna "allora, a venticinque
anni, mi sentivo una forza di salute e una tale baldanza di avvenire, che mi sentivo di
affrontare e di vincere qualsiasi difficoltà. Però in quel tempo io non avevo ancora una
precisa direttiva politica. Leggevo avidamente libri, opuscoli, specialmente di autori
francesi e russi che trattavano della questione sociale, Guesde, Malon, Lafargue, Deville,
Bakunin, Kropotkin, Herzen
Frattanto aveva abbandonato l'abbaino di via S. Marta per andare ad
abitare in un pianterreno, dove aveva
collocato una piccola macchina tipografica a pedale "Cogli amici del Circolo
Operaio ci accordammo per iniziare un lavoro di propaganda operaia indipendente, che
l'elemento democratico dominante cercava in ogni modo di ostacolare. A tal fine avevamo
trovato un vecchio magazzeno e vi tenemmo le prime riunioni, finché il 29 luglio 1883
iniziammo la pubblicazione del settimanale II Fascio operaio, voce dei Figli del Lavoro
che continuò la sua vita per tutto l'inverno del 1883
Il
gruppo del Fascio operaio lo incaricò di
presentare alle elezioni amministrative del novembre di quell'anno il punto di vista dal
quale la classe operaia doveva parteciparvi in un comizio che si tenne al Teatro Castelli. Fu il suo primo discorso davanti al grande
pubblico.
Nel
febbraio del 1884 fu costituita una prima Lega dei Figli del Lavoro, la quale aveva
un programma di propaganda per il miglioramento delle condizioni materiali e morali dei
lavoratori mediante la resistenza (come allora venivano chiamati gli scioperi) e la
solidarietà, e che divenne un centro per la formazione di una corrente operaia
indipendente ed autonoma dai partiti politici.
In
quel tempo il ministro Domenico Berti, di fronte allo sviluppo della propaganda operaia e
socialista, aveva tentato di portare all'approvazione del Parlamento un blocco di leggi
sociali destinate a demandare ad organi dello Stato la tutela delle condizioni di vita
più elementari dei lavoratori. Fu un'occasione per proclamare ed affermare il principio
dell'autonomia e indipendenza del movimento operaio, ed infatti, il 27 gennaio 1884, in
una giornata freddissima, nel teatro scoperto della Commenda si tenne un comizio su
quell'importante argomento. (
) e mentre cadeva un lento nevischio che faceva aprire
gli ombrelli a chi era in platea, la discussione si svolse intrepidamente per diverse ore,
concludendo con un ordine del giorno nel quale era detto che «non riconoscendo in
qualsiasi organizzazione politica né la capacità, né la competenza di dettar leggi
favorevoli ai lavoratori, si respingeva ogni ingerenza governativa nelle questioni operaie
e si reclamava la più assoluta libertà nei rapporti fra capitale e lavoro"
Era
una tendenza che non si rifaceva a opzioni teoriche , ma alla collocazione di classe degli
individui e dei gruppi sociali e che puntava non alla conquista di uno spazio politico in
senso tradizionale, ma allo spostamento sul terreno della lotta di classe di strati sempre
più consistenti di lavoratori organizzati. Le proposte operaiste erano infatti semplici
ed al tempo stesso di grande impatto: portare le Società Operaie ad adottare il principio
della resistenza (in alternativa od accanto al tradizionale mutualismo) ed agitare
il principio (rivolto contro ogni concezione elitaria, foss'anche di estrema sinistra,
della politica) che "l'emancipazione degli operai dev'essere opera degli operai
medesimi" .
Questi
propositi erano il frutto delle discussioni che si facevano quando ci riunivamo settimanalmente
intorno al Dr. Gnocchi-Viani per intenderci sulla formazione del numero del giornale che
si doveva pubblicare. Egli era la nostra guida e il nostro consigliere
La
Lega organizzava anche gite di propaganda nei centri vicini, a Monza, Busto, Gallarate,
Varese, Como, inizialmente ritrovi con amici, conoscenti o parenti in cui avvenivano
scambi di idee e si allacciavano rapporti. Il giornale serviva da mezzo di comunicazione e
da bandiera di raccolta, ma il ricavato dalle vendite non era sufficiente a coprire le
spese e nell'aprile del 1884 fu costretto a sospendere la pubblicazione.
Dopo
aver perso il posto nell'azienda commerciale si era sforzato di sviluppare il lavoro
indipendente della sua piccola tipografia: aveva iniziato diverse pubblicazioni di
carattere politico, anticlericale e sociale, opuscoli clandestini, stampati di notte, ma
tutto ciò non bastava per vivere. Occorreva darle unimpronta commerciale, ma
proprio in quel tempo vennero introdotte nuove macchine tipografiche che misero fuori mercato la sua piccola azienda.
Nell'impossibilità di lottare contro questa concorrenza, abbandonò il lavoro
indipendente ed entrò come compositore in diverse tipografie.
Lincontro
con Bertani e l'inchiesta agraria
Si
manifestarono i primi sintomi di intossicazione da antimonio per le emanazioni
tipografiche, tanto che Anna Maria Mozzoni che aveva per me una vera
sollecitudine materna, lo presentò al suo amico Agostino Bertani, deputato
radicale nonché medico, perché si facesse visitare Dopo avermi esaminato
attentamente, egli mi impose di abbandonare subito l'arte tipografica.«Come farò a
vivere, professore?» gli disse «Ho anche la famiglia da mantenere insieme a mio
fratello e non posso restare inoperoso».«Vieni con me» gli rispose Bertani.
«Sto appunto cercando un segretario per l'inchiesta dell'igiene rurale e tu puoi fare al
caso mio. Ti darò 3 lire al giorno e le spese quando saremo in viaggio».Accettai
e così diventai il suo segretario più fidato.
A
margine della grande Inchiesta agraria, Bertani aveva persuaso il suo vecchio amico
Depretis ad iniziare, coi fondi del Ministero dell'Interno, una rapida e pratica inchiesta
per l'igiene rurale. Andò con lui nella sua casa di Genova, poi a Roma,
poi nella sua casa di campagna a Miàsino sul Lago d'Orta, poi in viaggio per l'Umbria, le
Marche, in Lombardia, in Emilia e in Toscana, e fu così che io riuscii ad
acquistare una straordinaria quantità di cognizioni sociali e politiche per le quali
andai sempre più consolidando la formazione della mia coscienza e della mia volontà per
una azione positiva strettamente legata al grande ideale della emancipazione proletaria.
È interessante questa storia dell'inchiesta per l'igiene rurale, perché si può dire che
io vi feci la prima parte della mia educazione politica.
Bertani aveva organizzata in casa sua la distribuzione di un
questionario ai medici condotti dei comuni italiani, i quali avevano risposto quasi
unanimi alla richiesta del loro collega e la sua casa di Genova fu piena dei questionari
compilati che egli esaminava personalmente. Dove apparivano lacune o informazioni
irregolari egli mandava propri incaricati per esaminare e raccogliere notizie precise.
Così Lazzari ebbe allora occasione di compiere diverse gite in alcune provincie: partivo la mattina solo, con un modesto calessino, e percorrevo
villaggi, cascinali e casolari osservando, interrogando, notando e ritornavo la sera
stanco morto, ma colla testa e col cuore pieno di nuove cognizioni, di impressioni e
sensazioni.
in tal modo percorse e visitò alcune zone della provincia di
Milano, di Como, di Macerata e Perugia sempre in mezzo alla povera gente di campagna dovunque egualmente legata dalla schiavitù del lavoro agricolo
o da quella del lavoro industriale. Quanti quadri e quanti episodi ignorati di dolori, di
sacrifici e di stenti fra quelle povere popolazioni governate e dominate dai signori, dai
preti e dai carabinieri
Durante
questo periodo, che ebbe la durata di circa tre anni, per due volte si separarono a causa
di divergenze politiche Ricordo che egli mi accomiatò dicendomi queste precise
parole che non ho mai più dimenticato: «Quando
ti sento parlare mi pare che tu abbia ragione
e che ormai la questione sociale sia la sola e la vera grande questione interessante per
la vita e l'avvenire del popolo italiano; quando sento parlare gli altri temo che voi
abbiate a far rovinare l'edificio che noi abbiamo innalzato con tanti sacrifici. In ogni
modo non fidarti degli uomini della nostra generazione: noi siamo troppo compromessi col
lavoro patriottico che abbiamo fatto per poter essere difensori della nostra causa e non
essere nello stesso tempo sostenitori del regime di privilegio e di oppressione che voi
volete combattere
La
Federazione Regionale Alta Italia del Partito Operaio
Nel settembre del 1884 il Fascio operaio aveva potuto
riprendere le sue pubblicazioni, sorretto da 117 azionisti che versarono 5 lire l'uno;
animato dal proposito di gettare le basi di un lavoro metodico per il miglioramento e
l'emancipazione della classe, il gruppo del Fascio operaio, pur facendo tesoro
delle esperienze della propaganda anarchica e internazionalista, decise di iniziare
un'azione essenzialmente politica, ed applicando la massima fondamentale che l'emancipazione
dei lavoratori deve essere opera dei lavoratori stessi, stabilì di riservare liscrizione
ai soli uomini e donne che vivessero di lavoro e di salario.Su questa base il 1°
settembre 1884 cinque Società di Figli del Lavoro fondate a Milano, Gallarate, Busto,
Legnano, Sacconago, senza alcuna ingerenza di elementi estranei alla classe operaria,
dichiararono costituita la Federazione Regionale dell'Alta Italia del Partito Operaio
Italiano.
A
fianco di questa organizzazione era sorta la Lega Socialista Milanese, destinata a fornire
al movimento operaio il bagaglio teorico necessario al suo sviluppo, e a proporre alla
pubblica opinione il risultato dei suoi studi; facevano parte di questa una cinquantina di
pubblicisti, professionisti, commercianti, industriali, studenti.
Così attrezzato, il movimento continuò la sua azione: la più
grande affermazione ebbe luogo il 23 novembre 1884 durante un comizio contro le
convenzioni ferroviarie con cui il governo vendeva l'esercizio del trasporto ferroviario.
Tutta l'estrema sinistra parlamentare si era raccolta intorno all'ex ministro Alfredo
Baccarini, il quale sosteneva l'esercizio dello Stato; la Federazione Alta Italia fece
parlare Osvaldo Gnocchi-Viani, il quale con
veemente ed infiammato discorso dimostrò che la questione ferrovia non era che un aspetto
della questione sociale e che soltanto l'esercizio delle ferrovie affidato ai ferrovieri
organizzati poteva rispondere all interesse
della nazione. Da allora in poi cominciò a determinarsi nelle file della democrazia e
sulle colonne del Secolo una sorda ostilità contro la nostra organizzazione e
contro la nostra propaganda.
Dalla
costituzione del Partito Operaio Italiano ai
Congressi di Milano e Mantova (1885)
Il
1885 fu di ancor maggiore e più intenso impegno. Lazzari era ritornato a lavorare in
tipografia, per quanto sentisse che la salute non resisteva. Il Partito Operaio Italiano
si estendeva: i primi sequestri e i primi processi avevano colpito il Fascio operaio, ma
crescevano le file degli aderenti e il numero dei lettori.
Il
12 aprile e il 3 maggio di quell'anno si tenne a Milano il primo Congresso del POI che in tale occasione si diede
gli organi statutari. Del suo primo Comitato Centrale, che si radunava almeno una volta
alla settimana, Lazzari fungeva da segretario.
Quell'anno cominciarono i sequestri del Fascio operaio, il primo per un voto di solidarietà degli
operai metallurgici di Savona in favore dei contadini mantovani in sciopero. Ne seguì il
23 luglio 1885 un processo in Corte di Assise, che inflisse sette condanne.
I giorni 6-7-8 dicembre di quello stesso anno il 2. Congresso del
Partito Operaio Italiano si tenne a Mantova per solidarietà
coi contadini di quella provincia in sciopero generale agricolo. I capi di
quell'agitazione erano stati imprigionati, ma al congresso assistevano in gran numero
lavoratori agricoli venuti da ogni parte della regione, e fu questa la novità: le logge
del teatro stipate di contadini e una organizzaione operaia che per la prima volta
delineava un abbozzo di programma agrario.
Lo scopo di questo
congresso era, oltre quello già detto, di realizzare la fusione sotto la bandiera del
Partito Operaio Italiano delle organizzanioni, specie società di mutuo soccorso, che facevano parte della Confederazione operaia
lombarda, già diretta dai democratici ma al cui congresso di Brescia del 4-5
gennaio 1885 erano prevalse le tesi operaiste sulla resistenza, cioè sullo sciopero.
Il Partito Operaio vi
partecipava con 40 Sezioni e la Confederazione Lombarda vi
aveva portato 60 organizzazioni. La fusione venne sanzionata aggiungendo all'art. 1°
dello Statuto la seguente dichiarazione: «II Partito Operaio Italiano, estraneo ad
ogni partito politico o religioso, parteciperà alle lotte della vita pubblica come classe
distinta che tende alla sua emancipazione».
Il lavoro di organizzazione diventò febbrile: si può dire che il Comitato Centrale era costretto a
sedere in permanenza e i suoi membri si riunivano tutte le sere per parecchie ore, con
grande disperazione delle loro donne e delle loro famiglie ormai abbandonate. Non
passava domenica o festa di precetto, senza che noi ne approfittassimo per organizzare
qualche gita di propaganda in provincia o fuori secondo i pochi soldi che si trovavano in
cassa. Fra le altre, restò indimenticabile quella che, per iniziativa di Leonida
Bissolati, io feci a Cremona il 14 febbraio 1886
Turati scrive l
Inno dei lavoratori per il Partito Operaio
Mentre
si compiva questo lavoro organizzativo, la Lega Socialista Milanese aumentava di numero e
di influenza: fra i suoi membri più attivi e più volonterosi si contavano Filippo
Turati, Giuseppe De Franceschi, Osvaldo Gnocchi-Viani[6],
Paolo Valera[7],
Enrico Dalbesio, Enrico Bignami[8],
Enrico Besana, Enrico Viscardi. Fra tutti, costituivano una specie di riserva
intellettuale alla quale si poteva ricorrere nei bisogni materiali e morali del Partito.
Fu
in omaggio a questa funzione che nella primavera del 1886 il Partito Operaio ottenne da
Filippo Turati le parole per un inno che fosse la sintesi delle sue aspirazioni ed
esprimesse musicalmente la formazione civile della sua forza organizzativa[9].
Lo pubblicò il 20 marzo di quell'anno il Fascio operaio e riuscì a farlo musicare da un maestro addetto
allo stabilimento Sonzogno e ne facemmo la prima pubblica prova in una
allegra serata carnevalesca, che passammo nella modesta trattoria Tresoldi in Via
Bocchetto. Ne restammo tutti commossi ed entusiasti e da allora in poi diventò il nostro
ritornello di richiamo: io andai persino a zufolarlo lungo le muraglie del carcere di
Casale Monferrato dove era stato rinchiuso Alfredo Casati andato colà per una delle
nostre solite gite di propaganda, ed egli mi rispondeva... Questo inno doveva per la prima
volta essere cantato in coro durante la inaugurazione del caratteristico stendardo che la
Lega dei Figli del Lavoro di Milano aveva adottato come suo distintivo e rappresentava un
giovane fabbro che guardava il sole nascente. Il ricamo era un vero capolavoro uscito
dalle mani della compagna Norma De Grandi che era la moglie di Alfredo Casati.
Le
elezioni del 1886 e la polemica con Felice Cavallotti
Alle elezioni del 1886 il POI era deciso a presentarsi con una
propria lista che i radicali temevano, non tanto perché il Partito Operaio Italiano fosse
in grado di far eleggere alcuno dei suoi candidati, quanto per i molti voti che avrebbe
sottratto alle loro liste. Si comprende che in quella congiuntura il governo Depretis,
interessato a una sconfitta dei radicali specialmente in Lombardia, lasciasse, in quei
mesi di accesa vigilia elettorale, una certa libertà dazione al POI, che aveva
sottoposto sino a poco prima a persecuzioni poliziesche.
I radicali, irritati da questa tolleranza governativa, e dallaspra
campagna che il Partito Operaio conduceva contro di loro, cominciarono ad avanzare,
specialmente sul «Secolo», vaghe insinuazioni su
non precisati favori e appoggi da parte del governo. Gli operaisti reagirono, e il «Fascio
operaio: voce dei figli del Lavoro» giunse a parlare di «democrazia vile».
Frattanto le elezioni del 2 maggio 1886 dimostravano che, nonostante il buon successo dei
radicali a Milano, il Partito Operaio era riuscito a sottrarre non poche migliaia di voti
alla loro lista: Lazzari ebbe 3.359 voti a Cremona, 824 ad Alessandria e 1.425 a
Casale Monferrato; altre candidature furono presentate con successo a Busto Arsizio,
Monza, Como, Pavia, Intra, Vercelli, Torino, Sanremo, Arezzo, Napoli. Nessuno fu eletto, ma, col ristretto suffragio allora in vigore, fu un
successo. Il partito democratico che si vedeva minacciato nella sua tradizionale egemonia
ed influenza sulla classe operaia, accusò gli operaisti di aver fatto il gioco del
governo Depretis. Il giornale II Secolo, commentando il risultato delle
elezioni, li denunciava apertamente come dei venduti e il deputato Felice Cavallotti
lanciò l'infamante accusa al Partito Operaio di essere un prezzolato strumento del
governo.
II
Comitato Centrale del POI domandò al deputato
Cavallotti un colloquio personale, allo scopo di persuaderlo dell'errore in cui egli si
trovava sul suo conto. II colloquio ebbe luogo il 31 maggio 1886: nella sua abitazione si
recarono Lazzari, Croce e Casati e lo trovarono che li attendeva, secondo le sue abitudini
duellistiche, con due testimoni. Alla esibizione dei documenti
di prova della vitalità finanziaria mediante copialettere, registri e bollettari, dopo
tre ore di discussione pareva, secondo Lazzari, convinto
dellinfondatezza delle sue accuse e promise che per l'indomani sarebbe stata
pubblicata una dichiarazione in tal senso sul Secolo;
invece nel numero del 1° giugno pubblicò
una violenta e furibonda requisitoria colla quale, ricorrendo a reminiscenze
classiche, ribadiva le sue accuse.
Frattanto
Depretis, passato appena un mese dalle elezioni, faceva arrestare dal questore di Milano i
principali dirigenti del Partito Operaio, sequestrarne le carte, sopprimere il giornale «Fascio
operaio», con deferimento alla magistratura sotto l'accusa di «associazione di
malfattori». Depretis, con quei severi provvedimenti, da un lato assestava un duro colpo
al movimento operaio del Nord, e dall'altro, alla vigilia della sua interpellanza, metteva
in imbarazzo Cavallotti.
All'ultima
requisitoria del Secolo decise la pubblicazione di un numero del Fascio
operaio dedicato alla difesa delle proprie ragioni Per preparare questo
numero straordinario avevo vegliato tutta la notte e spuntava l'alba del 23 giugno. Avevo
spento la lucerna a petrolio allora non cera la luce elettrica e il gas era
un lusso quando irruppero nella mia povera abitazione un delegato di questura con
tanto di sciarpa a tracolla seguito da questurini e da carabinieri. Fui dichiarato in
arresto: si fece un gran fascio di tutte le mie carte e bene ammanettato fui condotto, in
mezzo alla squadra, nella questura centrale di S. Fedele.
Colà
trovai già in stato d'arresto gli altri membri del nostro Comitato Centrale: il questore
ci lesse con voce imperatoria un bel decreto del Prefetto col quale veniva dichiarato
sciolto e proibito il Partito Operaio Italiano. Col solito carrozzone fummo condotti e
rinchiusi nel carcere cellulare sotto la duplice accusa di cospirazione e di associazione
di malfattori.
L'istruttoria
durò tre mesi, ma finalmente una ordinanza della Sezione di accusa accordava la libertà
provvisoria e rinviava al giudizio della Corte d'Assise.
Lostilità
per Cavallotti ebbe strascichi che si manifestarono anche anni dopo questo episodio: il
deputato radicale, che si presentava come candidato nelle elezioni del 1888, aveva convocato un comizio il 23 maggio.
Gli operaisti vi andarono col proposito
di far conoscere le ragioni della astensione e siccome venne negato loro il diritto di
replica sollevammo un tal coro di proteste e di fischi che il comizio diventò
ben presto un campo di battaglia contro di noi. Noi fummo scacciati dal locale tutti pesti
e sanguinolenti, ma l'adunanza andò a monte e del grande comizio democratico non rimase
che un mucchio di vetri infranti, di sedie rotte e di tavoli capovolti . Quasi
quarantanni dopo così commentava il Lazzari Da allora in. poi Cavallotti,
che era stato l'esponente di tutte le calunnie e le diffamazioni che ci avevano colpito,
non riuscì più a diventare deputato di Milano!
Vi è in queste affermazioni una rimozione perchè numerose furono
in seguito i momenti di convergenza che lo
videro personalmente impegnato insieme ai radicali, come il
Comizio internazionale per
i diritti del lavoro dell'aprile 1991 e la Lega per la difesa della libertà
fondata nel 1995; da notare, a questo proposito, che i 3.359 voti di Cremona nel 1886, furono ottenuti grazie all'appoggio dei radicali
locali.
Ripresa dell'attività del Partito Operaio. Il congresso di
Pavia (1887)
La Lega socialista in questa polemica era scesa in campo in difesa
del POI con una «Dichiarazione d'onore» che li rendeva solidali con la loro lotta in
favore della classe operaia e avevano
manifestato il loro appoggio morale e materiale, per cui il 16 ottobre 1886 ricomparve
il Fascio operaio, privato del sottotitolo di organo del Partito Operaio Italiano
Le
organizzazioni erano state sciolte con decreto prefettizio, ma ben presto furono
riannodati i rapporti valendosi del giornale, il quale non era contemplato nel decreto di
soppressione del Partito.
Fu
fissato il recapito del giornale presso una Società Operaia che aveva la sede in corso
Ticinese, ma la sorveglianza della polizia obbligò a cercare un altro locale e
lo trovammo in una lurida cameraccia di una vecchia casa, nell'ora scomparso vicolo di S.
Marcellino, tetro ricovero di malviventi e di prostitute presso il Ponte Vetero. Là, nel
freddo e nell'umido, ci riunivamo su quattro sedie e su quattro panche per discutere le
nostre questioni e spedire il giornale.
L'atteso processo ebbe luogo nella Corte di Assise nei giorni dal 18
al 31 gennaio 1887. Erano sei imputati e le imputazioni che li avevano colpiti, di
eccitamento all'odio, al saccheggio, alla strage, vennero sostenute dal Procuratore
Generale. Però i giurati ridussero tutte quelle imputazioni al semplice reato di
istigazione allo sciopero e quindi furono
condannati: Alfredo Casati a 9 mesi, Giuseppe Croce e Costantino Lazzari a 3 mesi,
altri a 3 e 2 mesi, più alcune migliaia di lire e le solite spese processuali. La
sentenza venne letta in mezzo ad una folla enorme che aveva seguito con passione le varie
fasi del lungo dibattimento e venne da salutata col grido di : « Evviva il Partito
Operaio Italiano »
Però
il sistema di adesione collettiva mise ben presto di fronte a insuperabili difficoltà:
individualmente arrivavano consensi e simpatie (erano di quel tempo le manifestazioni
favorevoli di uomini delle alte classi come Simone Weill-Schott, Prospero Moisé Loria e
altri), ma nessuno si sentiva di mettere le sorti e gli interessi collettivi delle
organizzazioni operaie in. balia e sotto i colpi delle persecuzioni che il decreto
prefettizio di scioglimento poteva sempre autorizzare. Per queste considerazioni fu deciso
di trasportare il centro del movimento fuori della provincia di Milano e a tal scopo fu
indetto un Congresso generale a Pavia nei giorni 18-19 settembre 1887.
Ero
ritornato in prigione per scontare il resto della pena che mi era toccata e dopo una
quindicina di giorni avevo ripreso il mio tenore di vita ma, nemmeno ingegnandomi col mio
materiale tipografico, un lavoro stabile e serio non riuscii a trovarlo più. Ero
scoraggiato e preoccupato per i bisogni della famiglia e malandato di salute fisica e
morale; pensai di rivolgermi agli amici che mi volevano bene. Bissolati di Cremona mi
mandò 500 lire allora erano un capitale e De Franceschi mi offrì un posto
come contabile nel suo ufficio di ingegneria con uno stipendio di 90 lire al mese,
lasciandomi naturalmente piena libertà di dedicarmi alla propaganda militante dopo il
normale orario del suo ufficio. Quindi ripresi poco a poco la mia attività in compagnia
dei vecchi amici ed accettai di partecipare al nuovo congresso. In causa della grave
penuria di danaro che era generale fra di noi delegati di Milano, decidemmo di andare a
Pavia a piedi viaggiando per buona parte della notte".
Il
Congresso dopo due giorni di discussione si concluse con l'approvazione del programma. Le
disposizioni statutarie erano distribuite in 28 articoli e la sede del Comitato Centrale
venne fissata in Alessandria dove le organizzazioni avevano meglio resistito alla bufera
della repressione e dove vi era un saldo nucleo.
Il giornale continuò a pubblicarsi in Milano con
varia fortuna presso una Società Operaia Mutua ed Istruttiva alla quale si erano iscritti
i vecchi compagni della disciolta Lega dei Figli del Lavoro, ed era il centro da cui
irradiavano le agitazioni della classe operaia milanese.
La
vita privata
In quel frattempo, nelle
diverse riunioni di operai e di operaie che andavamo facendo, io avevo notato la presenza
di una giovane cucitrice in guanti, certa Giuseppina Manzoli la quale prendeva sovente la
parola per esporre in modo semplice e suggestivo le dure condizioni di vita e di lavoro
della sua categoria. Era una giovane pallida, di alta statura, di carattere serio, e ben
presto fra noi si stabilì una viva corrente di simpatia. Apparteneva ad una famiglia di
poveri proletari: il padre, venuto dalla campagna, era un abile e robusto fuochista presso
la Società del Gas (...) la Giuseppina aveva cominciato come pulitrice in una fonderia di
caratteri e poi era andata in una fabbrica di guanti come cucitrice: il suo lavoro era una
specialità ricercata per cui guadagnava bene (...).
In quel povero ambiente che io frequentavo, la nostra simpatia diventò ben presto una
relazione, ma la povera Giuseppina che da anni ed anni lavorava a macchina aveva contratto
una grave malattia negli organi interni per cui, da me consigliata, venne operata
all'Ospedale Maggiore dal Prof. Luigi Mangiagalli, al quale l'avevo raccomandata a mezzo
dell'amico De Franceschi.
Nella primavera del 1889 uscì guarita
dall'ospedale e decise di sposarla civilmente con la "fiducia che colla sua
compagnia la mia esistenza avrebbe avuto un ritmo più regolare e più razionale. È stato
questo uno dei miei più gravi errori; per quanto essa condividesse pienamente le mie idee
e il mio ardore politico, la sua femminilità era stata infranta e la nostra casa restò
una povera casa deserta e sterile senza il sorriso né la gioia dei bambini, mentre io
avevo così vivo e forte l'istinto paterno! Anche per questa ragione la passione
esuberante della mia vita si concentrò tutta nell'attività politica alla quale io
dedicavo tutti i ritagli di tempo, di giorno e di notte, che mi restavano disponibili.
Qualche
anno dopo l'amico dott. Viscardi andato in rotta
con sua moglie, mi propose, dal momento che io amavo tanto i bambini, di allevare i suoi
due figliuoli, Bruno di 6 e Mario di 3 anni. Accettai con entusiasmo e da allora in poi la
nostra casa con la presenza e colle cure per quei due cari ragazzini fu un vero teatro di
festa e di gioia! Tanto era forte il suo istinto paterno, che nel 1915 adottò
Caterina Devoti, una bambina rimasta orfana in occasione del terremoto della Marsica del
13 gennaio, che gli tenne compagnia negli ultimi anni e cui fece intraprendere gli studi
magistrali
I Congressi di Bologna (1889) e Milano (1890) del POI
Per sviluppare lorganizzazione del
Partito venne convocato il quarto Congresso a Bologna nei giorni 8, 9 e 10 settembre 1889;
in esso venne elaborato, discusso ed approvato, pur tra contrasti, il programma comunale
che il Partito avrebbe adottato per la sua partecipazione alle prossime elezioni generali
amministrative.
L'autorità ogni tanto, con qualche sequestro
del giornale o con qualche perquisizione domiciliare, veniva ad interrompere il lavoro
organizzativo. Nella notte del 22 maggio 1889, mentre era stata
appena trasportato la sede del giornale in Piazza Vetra e arrivavano dalla provincia
notizie che i contadini in sciopero si ribellavano ai carabinieri, venimmo tutti
arrestati nelle nostre case e rinchiusi nel carcere cellulare. Dopo un mese di prigione,
senza la notifica di alcuna accusa, fummo rimessi in libertà e riprendemmo il nostro
lavoro, ma eravamo tanto stremati di forze e tanto minacciati dalle continue persecuzioni
che, dopo alcuni mesi, fummo costretti ad abbandonare anche la pubblicazione del giornale
e infatti il 16 novembre 1889 uscì in Milano l'ultimo numero del Fascio operaio.
Ma i
compagni di Alessandria il 16 maggio 1890 intrapresero essi stessi la pubblicazione del Fascio operaio, specialmente allo scopo di organizzare il
quinto congresso del Partito che ebbe luogo a Milano nei giorni 1 e 2 novembre
1890.
In
questo Congresso si fece una revisione della situazione, la quale aveva assunto una
speciale importanza dopo la celebrazione del 1° maggio, che si era fatta in Italia per la
prima volta quell'anno e che era stata accolta dalla classe lavoratrice col più grande
favore. Nel Congresso di Milano Lazzari è relatore del quinto punto allOdG, quello
sulle coooperative.
Né si trascurava la
partecipazione alla vita internazionale della classe lavoratrice: nel novembre 1888 io ero andato come rappresentante italiano al
Congresso Mondiale delle Trade Unions tenutosi a St. Andrew Hall di Londra (il Comitato
Centrale di Alessandria non aveva potuto raccogliere a questo scopo più di L. 278, ma io
in nove giorni di viaggio e permanenza che passai dormendo su una poltrona in casa di
Paolo Valera, risparmiai ancora 50 lire) e nel luglio 1889 Giuseppe Croce era
andato a Parigi per rappresentare il POI al Congresso di fondazione dellInternazionale
Socialista.
II 12 aprile 1891 a
Milano si tenne un "Comizio internazionale per i
diritti del lavoro". Di fronte a una platea di oltre mille persone presero la
parola i più noti esponenti dei gruppi di estrema sinistra (dai radicali agli anarchici)
e portarono il loro saluto alcuni rappresentanti di movimenti socialisti europei, mentre
Filippo Turati lesse un messaggio inviato da Wilhelm Liebknecht.
L'iniziativa era stata promossa nel mese di marzo da un gruppo di
cinquantasette associazioni popolari milanesi, tutte di area radical-democratica, e da un
comitato nazionale del quale facevano parte i maggiori esponenti dell'Estrema Sinistra:
Rosa, Bovio, Cavallotti, Maffi, Colajanni, ma anche Andrea Costa, Gregorio Agnini e
Antonio Labriola.
Segno
questo che si andava ricomponendo il conflitto tra operaisti
e radicali divampato cinque anni prima in
occasione della denuncia di Cavallotti, che abbiamo visto Lazzari enfatizzare e presentare
come definitivo
Per il comizio fu anche preparato un "numero unico che si
intitolava / diritti del lavoro e
conteneva alcuni messaggi augurali (di Engels e altri) e brevi scritti di agitazione, tra
i quali quelli di Antonio Labriola, di Costantino Lazzari (Gli scioperi), di
Filippo Turati e di Anna Maria Mozzoni
. Ma persistevano
divisioni culturali e ideologiche, che emergevano con particolare evidenza ogni qual
volta si discutesse di legislazione sociale, di leggi di protezione del lavoro, di
rapporto tra movimento operaio e Stato, poiché su questo terreno i diversi gruppi
continuavano a mantenere le proprie posizioni, e ciononostante a lavorare fianco a
fianco, a comparire nelle stesse manifestazioni, a disputarsi lo stesso spazio politico.
Infine nel giugno del
1891, in occasione delle elezioni amministrative milanesi, si arrivò a un accordo
politico e alla formazione di un blocco tra radicali, operaisti, Lega socialista e
mazziniani
La fondazione del Partito socialista a
Genova (1892)
Profittando
delle agevolazioni ferroviarie previste in occasione del centenario di Colombo, venne
convocato a Genova nei giorni 14 e 15 agosto 1892 un congresso al quale parteciparono
tutti gli elementi che si interessavano delle questioni operaie. Il POI, entrato in una
fase di crisi, vi prese parte insieme alla Lega socialista
milanese che era rappresentata da Filippo Turati e Anna Kuliscioff, e la caotica
discussione cominciata nella Sala Sivori si concluse con una netta separazione fra i
militanti anarchici che rimasero legati alle loro teorie, e gli altri che volevano
mettersi sul terreno della lotta di classe. Per poter fare liberamente ciò, dopo una
intera giornata di furibonde discussioni procedurali, prima per la nomina della Presidenza
e poi per l'ordine dei lavori, si radunarono separatamente i rappresentanti di 150
associazioni, i quali dopo aver votato la seguente mozione: «I sottoscritti
rappresentanti di associazioni intervenute al Congresso del Partito dei Lavoratori
Italiani invitano tutti gli altri congressisti che accettano la lotta elettorale come uno
dei mezzi per la conquista dei pubblici poteri, alla riunione che si terrà oggi lunedì
nella sala della Società Carabinieri Genovesi, iniziarono la discussione ed
approvazione dello Statuto, che si componeva di soli 5 articoli; venne deliberato che
l'organo del Partito sarebbe stato il giornale Lotta di classe che i socialisti
milanesi avevano cominciato a pubblicare ogni settimana. Il Comitato centrale venne
nominato nelle persone di Antonio Maffi, Costantino Lazzari, Angela Feria, Giuseppe Croce,
Enrico Bertini, Carlo Dell'Avalle, Luigi Fossati e Camillo Prampolini venne designato a
dirigere il giornale.
Oltre agli
impegni politici, che assorbivano le ore serali e le giornate domenicali, Lazzari
continuava la sua funzione contabile presso l'ingegner De Franceschi, che aveva sviluppato
la sua azienda: il suo studio si era trasformato in una officina meccanica e anche il suo
stipendio era salito a 150 lire mensili. "Ciò mi aveva permesso di passare da
quell'umile stanzetta che occupavo con mia moglie nella casa di corso Genova 17, in un
appartamentino di due camere, per ammobiliare le quali l'amico Della Torre Luigi, che
avevo allora conosciuto, mi aveva prestato 300 lire. (...) Ma un bel giorno l'ing. De
Franceschi credette di dover procedere a certi cambiamenti nell'andamento
dell'amministrazione che io non credevo fossero, dopo cinque anni di fiducia, conciliabili
colla mia dignità: di più, per aver prestato in suo nome 10 lire all'amico Majocchi che
era appena uscito di prigione, e per aver lasciato rompere in officina una macchina di cui
mi aveva affidato il carico, mi aveva imposto il rimborso di quelle ed una multa di 20
lire per questa"
Trasferimento
a Busto Arsizio
Licenziatosi, andò a Busto Arsizio
come impiegato amministrativo presso la ditta di Enrico Castiglioni, anche per fare
compagnia alla sorella Bice che là era diventata maestra comunale. Anche la nomina della
sorella a quel posto di Busto ebbe le sue contrarietà politiche. Essa aveva cominciato la
sua carriera a Musocco nella scuola femminile "con 102 bambine e con 42 lire
mensili di stipendio" poi, caduta ammalata di petto, aveva dovuto sospendere le
fatiche dell'insegnamento. Si era iscritta presso il Provveditorato di Milano, ma i mesi
passavano inutilmente perche il Provveditore era fratello del deputato radicale Scipione
Ronchetti, che credeva di dare così prova di amicizia
al suo collega Cavallotti.
Avvisata
dagli amici che a Busto Arsizio vi era vacante un posto, essa si affrettò a concorrere,
ma non l'avrebbe ottenuto se non era per l'appoggio del Soprintendente scolastico, perchè
in Consiglio comunale era sorto il radicale Travelli ad opporsi alla sua nomina.A Busto
Arsizio rimase un paio di anni sempre impiegato presso la ditta Castiglioni con uno
stipendio mensile di 120 lire. Furono forse gli anni più belli della mia vita
coniugale, passati in compagnia dei figliuoli Viscardi e di mia sorella, circondati
dall'amore degli amici e dalla simpatia di tutta la popolazione
In
mezzo a quella folta massa di operai e di operaie, andò sviluppando l'organizzazione del
Circolo Operaio di M. S. e quella di una Cooperativa di Consumo. L'esempio di quanto si
faceva a Busto Arsizio destava una gara in tutti i paesi del circondario e dappertutto
sorgevano iniziative di organizzazione e di propaganda sia fra i lavoratori dell'industria
che fra i contadini. Nondimeno coi compagni di Milano aveva
mantenuto le più amichevoli relazioni: sovente, nelle lunghe serate invernali,
ci trovavamo a passeggiare in Galleria
Nascita
della Camera del Lavoro e della Società Umanitaria
Nelle elezioni generali amministrative
del 1889 i pochi socialisti ed operai che avevano potuto entrare nelle Amministrazioni
comunali e provinciali vi avevano portato l'eco dei bisogni specifici delle classi
lavoratrici che per il passato non erano mai stati considerati e fu cosi che il Comune di
Milano nel 1891, dietro proposta di Gnocchi-Viani, deliberò di concorrere per
l'organizzazione del mercato del lavoro cittadino, concedendo alcuni locali disponibili
nel Castello che era stato abbandonato dall'autorità militare e diecimila lire di
sussidio annuo. Si formò cosi il primo nucleo di quella forma di Camere del Lavoro che
dovevano poi diffondersi in tutta Italia e rappresentare le forze locali della classe
lavoratrice, sia industriale che agricola. Noi, vecchi
avanzi del Partito Operaio, ci radunavamo si può dire ogni sera colle nostre famiglie in
quei locali del Castello, per discutere intorno al miglior modo di dare fondamento stabile
e sicuro alla nuova istituzione",
che ebbe ufficialmente inizio nell'ottobre del 1891 con
una memorabile riunione a cui presero parte i rappresentanti e i membri delle varie arti e
mestieri
A queste
iniziative venne presto ad aggiungersi una nuova istituzione dovuta alla genialità
utopistica di un singolare personaggio: Prospero Moisé Loria, israelita ed ex-banchiere,
il quale viveva sdegnoso e solitario in una bellissima casa di via Alessandro Manzoni.
"Una volta sola ebbi occasione di parlargli per
domandargli aiuto in un frangente di sciopero disperato e ricordo che, timoroso e
sospettoso, mi ricevette in cortile e mi diede un biglietto da 250 lire scongiurandomi di
non farlo sapere a nessuno. Poi, passeggiando nell'atrio della sua casa, mi confidava che
la sua idea era quella di intervenire a favore
degli operai milanesi mediante la fondazione di una grossa istituzione cooperativa
agricola, che valesse a frenare l'esodo urbano dei contadini il cui affollamento nella
città per trovare qualche lavoro industriale faceva ribassare i salari e produceva la
crisi della disoccupazione. «Vedi - mi diceva- io ci metto 5 milioni, Weill-Schott
ce ne mette 1, De Asarta 1 e cosi facciamo una grande azienda di campagna per trattenere i
contadini nel lavoro agricolo... Questa sarebbe l'impresa alla quale dovreste dedicarvi
anche voi e non la lotta che sostenete! .«Sta bene - rispondevo io -
voi altri che avete i mezzi finanziari fate pure i vostri tentativi. Noi che siamo spinti
dal bisogno, abbiamo un obbiettivo di miglioramento immediato; lavorare di meno (la
giornata di otto ore rimedia alla disoccupazione) e guadagnare di più e questo rimedia
alla miseria. Aiutateci a sostenere questa lotta, noi ci mettiamo il fastidio e il
pericolo...».«Ma se si sapesse, se si sapesse! Cosa si direbbe contro di noi?». «Non
si saprà nulla»; ma più di quel biglietto da 250 lire non riuscii a strappargli.
Nel novembre 1892 Prospero Moisé Loria morì e
lasciò per testamento tutto il suo patrimonio liquido, circa 13 milioni, per fondare la
Società Umanitaria collo scopo di «fornire ai diseredati i mezzi per elevarsi da
sé». L'esempio della Camera del Lavoro di Milano venne ben presto seguito ed imitato
a Firenze, a Genova, a Torino, a Venezia, a Parma, a Bologna, ecc. e una nuova rete di
interessi e di rapporti collettivi della classe lavoratrice veniva a stendersi da un capo
all'altro della nazione.
Amministratore della Lotta
di classe
Col concorso di cosi favorevoli circostanze i
socialisti di Milano, allo scopo di orientare lo sviluppo del movimento proletario,
avevano iniziato nel luglio 1892 la pubblicazione di un settimanale col titolo Lotta di
classe, mediante la formazione di una società di azionisti, i quali si impegnavano al
pagamento di almeno un'azione di L. 250. A dirigere il giornale era stato chiamato da
Torino il giovane avvocato Claudio Treves, abile e coraggioso polemista, al quale era
affidato l'incarico anche della compilazione e redazione.Si trattava dunque di un organo
squisitamente politico destinato a dare e mantenere alla organizzazione una rigorosa
unità di indirizzo, consolidandovi le aspirazioni socialiste Il successo fu rapidissimo, tanto che si rese
presto necessario il lavoro continuo e quotidiano di un impiegato amministrativo e
contabile per secondare lo sviluppo dell'azienda. "Si misero gli occhi sopra di me
e l'ing. De Franceschi cominciò a farmene la proposta mostrandomi i diversi aspetti
convenienti materialmente o moralmente per me. Mi schermii per qualche tempo (...) ma la
sua insistenza fu tanta, l'impegno scritto che egli si prese di farmi assegnare uno
stipendio di almeno 200 lire al mese era cosi serio, che io finii per arrendermi ed in
principio del 1893 ritornai a Milano, andando ad abitare colla moglie e coi figli di
Viscardi"
Col
suo lavoro regolare e continuo l'azienda giornalistica acquistò subito un carattere di
serietà e di solidità fino allora sconosciuto. Però il Consiglio d'Amministrazione,
viste le forti passività del primo bilancio, trovò opportuno ridurre il suo stipendio a
sole 150 lire mensili e "questa fu una mia prima delusione. Protestai tanto che in
seguito il mio povero stipendio venne portato a 175 lire mensili".
L'adesione
di De Amicis al Partito socialista
Fu in
questo frattempo che ebbe occasione di entrare in rapporti personali con Edmondo De
Amicis, "le cui simpatie per le idealità
socialiste io riuscii a convertire in una vera e propria adesione politica." Già
attratto e sedotto dallo stile e dallo spirito degli articoli di Filippo Turati che
comparivano sulla Critica sociale, De Amicis aveva domandato di sottoscrivere una
azione della Cooperativa Lotta di classe. Come amministratore Lazzari gli mandò il
titolo da firmare e cominciò così un'amichevole corrispondenza in seguito alla
quale, avendo avuto occasione di andare a Torino lo andò a trovare a casa.
"Egli mi raccontava come le sue
prime impressioni di carattere sociale si fossero formate assistendo dalle finestre della
sua abitazione alla brutale repressione poliziesca di uno dei primi cortei del 1° Maggio.(...)
ammirava lo spettacolo grandioso di quella folta schiera ordinata e pacifica di uomini
e di donne del ceto operaio che sfilava lenta e solenne cantando non più gli inni dei
vecchi ideali, ma le aspirazioni nuove. Ad
un tratto un gruppo di poliziotti, di questurini e di delegati colle insegne della patria
si gettava contro quel corteo e lo scompigliava atterrando uomini e donne, mentre
compariva sulla piazza uno squadrone di cavalleria colle sciabole sguainate.."
Questo attacco al pacifico diritto di
riunione, che era stata la gloriosa rivendicazione statutaria della vecchia generazione,
lo aveva colpito e da allora si era messo a riflettere profondamente, a osservare e
studiare il mondo dei proletari e quella questione sociale che sollevava i furori della
legge e dell'ordine. "Egli mi diceva che pensava di scrivere un libro per
glorificare gli stenti e i diritti della folla povera ed innumerevole, io gli mostravo che
c'era qualcosa di più direttamente utile da fare, dal momento che la lotta era
dichiarata: mettersi di qua o di là. E questo era il mio ritornello favorito sul quale io
picchiavo sempre, fin quando egli mi annunciò di essersi deciso per la vita e per la
morte, iscrivendosi nella Sezione di Torino. E mantenne la parola fino alla fine"
Le sue opere letterarie dopo d'allora hanno tutte la sua nuova ispirazione; il suo
discorso del 1895 alla Associazione Universitaria di Torino è un invito alla gioventù a
partecipare alla lotta socialista e dietro insistenza di Lazzari scrisse due articoli
pubblicati poi sulla Lotta di classe
Il Congresso di Reggio Emilia e quello clandestino
di Parma
Nel settembre 1893 ebbe luogo a Reggio Emilia
il secondo Congresso Nazionale, alla presenza di 300 delegati:
qui prese il nome di Partito Socialista dei Lavoratori Italiani, il programma fu
completato e confermato, il Gruppo parlamentare vi ebbe il suo primo riconoscimento e la
sua disciplina (fu questa un'innovazione, imitata poi dagli altri partiti quandi si
formarono), il giornale Lotta di classe diventò l'organo centrale della
organizzazione, la quale raggiungeva così la sua unificazione. Lazzari prese parte
attivissima alla discussione ed ai lavori del Congresso.
Però, mentre
nell'Italia centro-settentrionale gli effetti di questa rinnovata vitalità del Partito si
traducevano in un intenso ed ordinato lavoro di educazione e di organizzazione proletaria
con lo sviluppo delle Camere del Lavoro, la formazione di leghe e di federazioni operaie e
contadine, la partecipazione a tutte le manifestazioni
di attività legislativa e sociale (Lazzari rappresentò la Camera del Lavoro al Congresso
Internazionale sugli Infortuni e Assicurazioni Sociali che ebbe luogo a Milano dal 1° al
6 ottobre 1894), in Sicilia a migliaia accorrevano ad iscriversi nei Fasci dei Lavoratori
che sorgevano in ogni paese, manifestando il malessere generale e il malcontento del
popolo con dimostrazioni che il governo
fronteggiava schierando poliziotti, soldati e carabinieri.
Ne nacquero conflitti cruenti; le
notizie di queste sanguinose repressioni provocarono
altre dimostrazioni ugualmente represse colle
violenze militari. Come epilogo il governo di Francesco Crispi decretò lo stato d'assedio
in Sicilia e in Lunigiana; gli arresti avvennero a centinaia e i tribunali militari
condannarono ad enormi pene i capi e i gregari del movimento proletario di quelle
provincie. Per meglio fronteggiare la
situazione, fu convocato il terzo Congresso Nazionale ad Imola per i giorni 7, 8 e 9
settembre 1894, ma il governo lo proibì, finché il 22 ottobre emanò un decreto di
scioglimento di qualsiasi organizzazione del Partito Socialista dei Lavoratori Italiani.
Il giornale, che aveva pubblicato un suo articolo col titolo La commedia è finita, venne
sequestrato e in seguito ritornò alla luce intestandosi soltanto come organo dei
socialisti italiani.
Nonostante queste difficoltà, continuò il
lavoro di propaganda e di proselitismo, approfittando di tutte le occasioni che si
presentavano: Lazzari ebbe un contradditorio col neo-repubblicano Dario Papa; andò
candidato nel collegio di Porto Maurizio; in un comizio elettorale tenuto nel ridotto del
Teatro alla Scala presentò la candidatura del socialista siciliano Nicola Barbato; fu
candidato provinciale a Busto Arsizio, tenendo varie e contrastate conferenze nei paesi
del mandamento
Un intenso e continuo lavoro per il quale fu
processato una volta insieme a tutti gli altri membri del Comitato Centrale, perché
colpevoli di solidarietà col movimento dei lavoratori siciliani e poi, isolatamente,
perché colpevole di aver fatto «l'apologià del delitto nel delinquente»,
presentando e sostenendo la candidatura di Nicola Barbato. Nel primo grande processo
furono tutti condannati alla pena del confino, scontata durante l'anno seguente; nel
secondo fu condannato lui solo a tre mesi di reclusione. In mezzo a questa febbrile
attività persuase i compagni del Comitato Centrale a rifare le basi della organizzazione
del Partito, prima di andare dispersi nei vari paesi dove erano stati confinati e infatti,
a questo scopo, fu convocato il terzo Congresso Nazionale (quello che non si era potuto
svolgere a Imola) a Bologna per il 13 gennaio 1895.
La polizia bolognese si mobilitò per
impedire l'annunciata riunione, ma i rappresentanti, debitamente
avvisati, si riunirono segretamente a Parma in una saletta privata. Erano in 64 delegati
provenienti da ogni parte d'Italia: restammo chiusi tutto il giorno, in piedi, al
freddo, intorno ad un modesto tavolo dove avevano potuto sedere soltanto i dirigenti della
discussione, mentre di fuori nevicava disperatamente". Lazzari fece una sommaria
relazione della situazione in cui si trovava l'organizzazione del Partito in seguito al
suo scioglimento, espose i risultati che l'esperienza aveva forniti e a nome del Comitato
Centrale presentò la proposta di confermare l'antico programma, scegliendo per titolo il
nome semplice e comprensivo di Partito Socialista Italiano e sostituendo al sistema delle
adesioni collettive quello delle singole adesioni personali raccolte in sezioni di almeno
10 iscritti. "La discussione avvenne rapida e cordiale: ci trovammo presto tutti
d'accordo e alla sera ci separammo coi migliori propositi di portare ognuno nella sua
regione la buona novella dell'avvenuta nostra ricostituzione".
In effetti il criterio delladesione
individuale, sul modello della socialdemocrazia tedesca (mentre il sistema delle adesioni
collettive era caratteristico del laburismo britannico), fu motivata come prova dellavvenuta
maturazione nei singoli militanti di una consapevole coscienza di classe ma nacque da
considerazioni di opportunità, come espediente per
sottrarsi alla repressione crispina: separare dalle sezioni di partito le organizzazioni
di classe significava consentire a queste un almeno formale agnosticismo politico che le
collocava nelle retrovie della battaglia preservandone lesistenza per tempi
migliori. Turati, tra gli altri, era
riluttante ad accogliere la formula per timore dellirruzione
nel partito di piccoli borghesi famelici e demagoghi, specialmente nelle sezioni dellItalia
meridionale
Polemiche sulla
tattica
La repressione del governo Crispi provocò
per contraccolpo la convergenza di tutta l'estrema. La Lega per la difesa della
libertà sorta a Milano nel novembre 1894 , di cui fu tra i promotori, fu il prodotto
della rinnovata alleanza dei tre gruppi: radicali, repubblicani e socialisti. Durante il 1895 furono celebrati i processi contro
le sezioni del Partito dei Lavoratori Italiani, e ad alcuni di questi fu chiamato come
testimone: "ricordo quello che si svolse nella Pretura di Revere mantovano. I
poveri nostri compagni si difendevano come potevano dalla minaccia di essere mandati a
domicilio coatto: non facevano certo gli eroi, ma non sconfessavano le loro idee." Fu
in una di quelle circostanze che la Crìtica sociale pubblicò un articolo di aspro
commento "Io mi credetti in dovere di
scrivere una risposta nella quale facevo anche una pungente polemica contro le teorie
dell'opportunismo politico e parlamentare che cominciavano a far capolino fra gli
scrittori della suddetta rivista e lo portai a Filippo Turati" che si rifiutò di
pubblicare il suo articolo. In effetti nel PSI iniziarono a delinearsi le
"tendenze" come allora venivano chiamate le correnti, con il prevalere di quella
riformista che varò in un consiglio nazionale del marzo 1895 il "programma
minimo" e iniziò un lungo periodo di egemonia, che vide Lazzari in minoranza e
all'opposizione fino al 1912.
Fu in quel tempo che la Lotta di classe ebbe
bisogno di qualche aiuto finanziario straordinario e Lazzari, che altre volte ero ricorso
per prestiti a Turati e Treves ma non voleva più
farlo a causa dei dissensi, si fece prestare da Bertini, cassiere del disciolto Partito,
una somma di 500 lire la quale, dato il
decreto di soppressione, non doveva figurare nei registri che annualmente si dovevano
presentare al Tribunale per la vidimazione. Dovendo presentare in Tribunale il bilancio
annuale della Cooperativa editrice e volendo nascondere quell'operazione finanziaria
compiuta colla non più esistente cassa del Partito, utilizzò un espediente contabile
"mai più pensando che col progredire del tempo si sarebbe fatta di quell'innocuo
incidente una spregevole accusa contro la mia reputazione."
Il
domicilio coatto a Borgataro
Venuta la
fine del 1895 ricevette intimazione di partire per scontare a Borgotaro la pena dei cinque
mesi di confino a cui era stato condannato un anno prima. Doveva partire il 24 dicembre e
domandò invano una proroga. "Alla mattina del 24 un questurino mi condusse in
stazione, mi diede un biglietto di terza classe e partii con un freddo cane mentre la neve
cadeva a larghe falde". Borgotaro era un antico grosso borgo dell'Alto Appennino
parmense sede di Sottoprefettura. La popolazione del centro urbano si componeva, oltre che
dei funzionari governativi e comunali, di pochi artigiani e commercianti, di alcuni
professionisti, medici, avvocati, ingegneri e di molti contadini piccoli proprietari dei
terreni e dei boschi circostanti, nonché di braccianti di campagna. La vita del borgo si
svolgeva calma ed inerte senza preoccupazioni né passioni politiche o sociali: soltanto
nei periodi elettorali saltavano fuori due partiti, uno monarchico-conservatore e l'altro repubblicaneggiante. " A mezzo di
un simpatico e sgangherato faccendone del paese che era chiamato col soprannome di
Bombarda, trovai da affittare a 25 lire mensili una modesta cameretta e cominciai la mia
vita di confinato.(...) i ferrovieri che avevano saputo del mio arrivo mi accoglievano
fraternamente nella stazione. L'amico Bombarda mi aveva fatto conoscere, fra altri, un
giovane curato di una lontana parrocchia di montanari e con lui, che era intelligente,
istruito, spregiudicato e generoso, entrammo subito in grande amicizia.
Nella tipografia del paese stampò
l'inaugurazione dell'anno giudiziario del Procuratore del Re guadagnando 25 lire; trovò
da insegnare a tre o quattro giovinetti un po' di lingua francese dietro compenso di 10
lire mensili e in questo modo fu in grado di lasciare alla moglie rimasta a Milano almeno
la metà dello stipendio che l'amministrazione della Lotta di classe continuava a
mandargli, considerandolo trasformato da amministratore in collaboratore e corrispondente. Cominciò un po' di propaganda: affittata per poche
lire una cameraccia abbastanza centrale nel paese, vi fece portare un tavolino e mezza
dozzina di panche noleggiate e mandò ad una cinquantina di capi famiglia un invito per
una conferenza privata sul tema: La questione sociale e i lavoratori.
Vennero una ventina di persone che
entravano ravvolte nei tabarri, silenziosi e diffidenti come congiurati. A metà del mio
discorso cinque o sei se ne andarono annoiati e sonnolenti, ma vidi che i rimasti erano
favorevolmente impressionati. Dopo alcuni giorni mandai un secondo invito col tema: I
partiti politici e la rivoluzione sociale, la sala si riempi di un uditorio vivace ed
animato che mi ascoltò con grande simpatia ed interesse e gli intervenuti se ne andarono
commentando il mio discorso con quelle significanti invettive del dialetto parmigiano che
significavano approvazione e consenso. Questo mi incoraggiò a mandare un terzo invito
annunciando per tema: La classe operaia e il socialismo. La saletta, la scala e la
strada si riempirono di gente impaziente ed eccitata che mi accolse plaudendo e mi
salutò alla fine con grandi acclamazioni e colla promessa che si sarebbe iniziato subito
il lavoro di organizzazione"
All'indomani, mentre ingenuamente pensava di
gettare le basi di una sezione del Partito, venne il maresciallo dei carabinieri per
notificargli un decreto della Procura che, vista la propaganda con cui continuava i reati
per cui era stato condannato, convertiva la
pena del confino in cinque mesi di carcere, comprendendovi anche la condanna per apologia
compiuta durante le elezioni di Nicola Barbato a Milano, essendo quella sentenza diventata
esecutiva. Al termine della condanna, scontata nel carcere locale, in una riunione di
dieci amici fu costituita la sezione socialista e da allora in poi anche Borgotaro ebbe il
suo piccolo nucleo di militanti
Il
giurì per la gestione della Lotta di classe
Nel marzo 1896,
quando era ancora detenuto, ricevette dal Consiglio d'Amministrazione della Lotta di classe una comunicazione che gli notificava il
licenziamento dal posto che occupava come amministratore. "Fu per me un fulmine a
ciel sereno: conoscevo le obbiezioni e le osservazioni a cui aveva dato luogo
l'artificiosa scritturazione delle 500 lire prestate dalla cassa del Partito per chiudere
alla meglio il bilancio da presentare al Tribunale, ma non avrei mai pensato che a quella
questione si sarebbe data una simile soluzione, tanto più mentre stavo carcerato per un
interesse di partito. Fu tanta l'amarezza di vedermi cosi bistrattato che per qualche
giorno credetti di impazzirne: ne perdetti il sonno e l'appetito (...) Ritornai a Milano
stanco ed avvilito senza risorse e senza occupazione. Mia sorella, a cui all'ospedale
avevano mutilato una gamba, era venuta a morire in casa mia; mia moglie stentava a far
fronte ai bisogni quotidiani; io mi trovavo mezzo ammalato per una sinovite che mi aveva
fatto gonfiare le gambe e scoppiare un tumore in un piede e camminavo appoggiato ad un
bastone" ma gli amici del V Collegio, dove era candidato per la prima
volta Filippo Turati, in sostituzione di Nicola Barbato la cui elezione era stata
annullata, lo trascinarono nella lotta elettorale e gli fecero tenere parecchi discorsi di
propaganda.
Per
guadagnare da vivere accettò di andare come segretario alla Camera del Lavoro di Monza
che si stava allora costituendo e cosi abbandonò ancora Milano. A
Monza guadagnava tre lire al giorno che divideva con la moglie rimasta a Milano per
compiere gli studi da levatrice al fine di cercare un'altra occupazione visto che per
rappresaglia politica gli industriali non le davano più lavoro.
In
quelle condizioni, un giorno che era venuto a Milano per incarico degli operai monzesi,
trovò in strada l'amico avvocato Luigi Majno il quale si mostrò indignato per il modo
con cui era stato trattato da Lotta di classe e
propose, per esaminare e risolvere la
questione in modo onorevole, di nominare un
giurì composto da lui, da Gnocchi-Viani per Lazzari e dal ragionier Castiglioni per il
Consiglio della Cooperativa Lotta di classe.
Commesso
viaggiatore del socialismo
Intanto era andato come rappresentante
al Congresso Nazionale, che si teneva a Firenze nei giorni 11-12-13 luglio 1896. Era
quello il primo congresso del ricostituito Partito Socialista Italiano (quarto nell'ordine
dei congressi socialisti italiani) nel quale l'organizzazione del Partito aveva già
potuto presentarsi con 442 sezioni, 19.000 iscritti e 27
settimanali. L'incoraggiante risultato del Congresso di Firenze aveva
impegnato la Direzione del Partito ad affrettare i preparativi per la fondazione di un
giornale quotidiano e Lazzari fu chiamato a far parte di una commissione composta dai
compagni Cabianca, Della Torre, Ferri, Lollini, Morgari, Soldi.
"Incaricato di indicare chi poteva essere
designato come direttore, dopo aver accennato alle ragioni che sconsigliavano la scelta di
Turati e di Ferri, tanto favorevolmente noti nel giornalismo socialista ma già impegnati
personalmente colla pubblicazione di proprie riviste, consigliai di scegliere Leonida
Bissolati il quale, colla prefazione ad una edizione italiana del Capitale di Marx, aveva
dimostrato quanto amore e quanto attaccamento egli avesse per la precisa interpretazione
della dottrina rivoluzionaria e della politica antiborghese".
Abbiamo qui una
manifestazione dei limiti ideologici e dell'ingenuità politica che portarono Lazzari, avversario del riformismo,
a proporre per la direzione dell'organo di indirizzo politico e di formazione
dell'opinione del Partito il più conseguente e limpido dei riformisti, così come nel
1912 a indicare, sempre per la direzione dell'Avanti!, prima Salvemini che era
uscito dal Partito a destra e poi Mussolini che aveva già allora una collocazione
autonoma più vicina ai sindacalisti rivoluzionari che agli intransigenti.
Bissolati
accettò e si trasferi a Roma dove unitamente a Morgari si gettarono le basi del giornale Avanti! che vide la luce il 25 dicembre 1896 appoggiato da
3.000 abbonati e con una prima tiratura di 50.000 copie.
"In quanto al giurì, ogni tanto
Gnocchi-Viani mi avvisava che c'erano in aria delle grandi ostilità contro dì me contro
le quali egli lottava sempre, ma che si stavano esaminando i libri commerciali della
Cooperativa ed a suo tempo si sarebbe pubblicato il lodo definitivo."
Besana gli propose di entrare nella sua azienda come viaggiatore per
il suo commercio di tessuti, con una provvigione del 3% e il rimborso delle spese.
Accettò e così sul finire dell'estate 1896 partì col suo campionario, cominciando il
giro del Bolognese, del Ferrarese, della Romagna, ecc. Combinavo dei piccoli affari coi vecchi clienti della ditta, ma
intanto facevo delle preziose conoscenze e alla sera ero pienamente libero coi pochi
socialisti residenti nelle città e nei villaggi coi quali passavo cosi alcune ore felici
di propaganda e di fraternità.(...) vita nomade, così contraria alle mie
abitudini casalinghe ho sempre odiato l'ambiente venale e trascurato degli alberghi
e delle osterie aveva pure le sue soddisfazioni. I viaggi duravano perfino quattro
o cinque mesi perché io li avevo estesi fino alla Toscana, al Lazio e nell'Umbria e si
ripetevano per ogni stagione estiva ed invernale: essi mi permettevano di percorrere tante
zone e tante provincie che altrimenti non avrei mai veduto e di conoscere tanti preziosi
elementi della vita politica italiana."
Certo anche questa attività non era senza
inconvenienti a causa della ostilità delle autorità: nel Mantovano e nel Polesine i
contadini quando lo vedevano arrivare combinavano delle piccole riunioni di propaganda che
avvenivano fuori dai centri, in località lontane e disperse, lungo gli argini; a
Sassuolo, per essere riuscito a tenere una riunione privata, fummo assaliti dai
carabinieri; a Lugo fui processato e condannato per una conferenza tenuta in pubblico
senza permesso, ma ciò non toglieva nulla alle attrattive di quella vita perché dovunque passava sorgevano nuclei di
aderenti o simpatizzanti e si formavano sezioni del Partito.
In generale ciò non era di ostacolo al lavoro
commerciale che doveva fare, anzi in molti luoghi lo favoriva per l'interesse e la
simpatia che la sua presenza destava nelle popolazioni, come avvenne a Comacchio, dove fu
il primo a portare sulla pubblica piazza la parola e l'azione della propaganda socialista.
Agli affari commerciali dell'amico Besana riuscì ad aggiungere
quelli dell'amico Castiglioni di Busto Arsizio mediante un'amichevole combinazione che gli
assicurava la possibilità di un guadagno maggiore. Ero così riuscito ad
assicurare un po' di benessere alla mia vita domestica della quale però godevo così poco.
Ricevette
finalmente il testo del lodo emesso dal giurì sulla questione del licenziamento
dall'amministrazione della Lotta di classe. Erano
diverse pagine scritte da Filippo Turati e concludeva con l'approvazione e la ratifica
dell'avvenuto licenziamento mi colse un tale turbamento che credetti di morire e,
col senso di essere costretto a sopportare una crudele ingiustizia, rifiutai di
partecipare in qual siasi modo al Congresso annuale del Partito, che si teneva in Bologna
dal 18 al 20 settembre 1897.
In quel Congresso il Partito si presentava con 623
Sezioni e 27.381 iscritti: era un bel progresso che faceva giustamente inorgoglire i
dirigenti. Nel 1897 era morto suo padre, colpito nel sonno da un violento colpo apoplettico,
e prima che l'anno finisse era morta anche la madre.
Dimostrazioni
per il pane
Era cominciato in quel tempo un periodo
critico per la vita economica: l'annata
agricola era stata scarsa, i grani e le farine mancavano sui mercati od erano
monopolizzati dagli speculatori, il pane rincarava ogni giorno. Una sorda agitazione
fermentava nelle città e nelle campagne e scoppiava in dimostrazioni.
Mentre la vita pubblica era cosi eccitata
arrivai a Camerino nelle Marche alla fine d'aprile 1898, e vi ero aspettato da
diversi buoni clienti del commercio locale. Stavo appunto in una di quelle botteghe
mostrando i miei campionari per la stagione estiva, quando
vennero a chiamarmi per correre a vedere una dimostrazione per la farina.
Per uno stradale saliva lentamente una strana processione che mi fece una impressione
indimenticabile. Quattro grandi carri di farina, trascinati da quei magnifici grossi buoi
bianchi infiocchettati di rosso che sono una mirabile specialità della agricoltura
marchigiana, erano circondati da una immensa turba di uomini, di donne, di ragazzi armati
di grandi bastoni e scortati da carabinieri a piedi e a cavallo: salvo i costumi pareva di
assistere ad una scena dei vecchi tempi biblici. La
popolazione cittadina guardava dall'alto quella scena grandiosa e all'arrivo del corteo
prorompeva in grandi applausi e in rumorose acclamazioni.
Col
fermo di quel grosso carico di farina si era provveduto momentaneamente al bisogno del
pane quotidiano e tutti erano esultanti. Si
era saputo che uno dei grossi speculatori del luogo aveva venduto una importante partita
di farina e la faceva condurre alla stazione ferroviaria. La povera gente era corsa in
massa a fermare i carri per ricondurli in città: il sindaco aveva aderito a fare
l'acquisto della farina per distribuirla poi ai cittadini bisognosi e tutti ritornavano
gloriosi e trionfanti come se avessero vinto una grande battaglia: "Fui pregato dagli amici di dire due parole per
l'occasione: tentai invano di schermirmi per non pregiudicare gli affari della ditta che
rappresentavo, Delegato e questurini mi circondavano, mi si portò un tavolino sul quale
venni fatto salire (...) feci una suggestiva e sommaria dimostrazione delle cause sociali
e politiche per le quali si rende tanto tribolata la vita per la maggioranza dei
cittadini, e conclusi affermando la necessità
di dedicarsi a realizzare le conquiste e gli ideali del socialismo. Compiuta la mia
giornata, mi recai a dormire nel solito
albergo. Dormivo profondamente il sonno del giusto quando dei replicati colpi picchiati
all'uscio della camera mi risvegliarono di soprassalto. Entrarono due Delegati di P.S. che
mi invitarono ad alzarmi perché dovevo subito partire da Camerino. (...) Dall'uscio
aperto entrarono quattro carabinieri col fucile in mano e circondarono il mio letto.
Dovetti dunque alzarmi e vestirmi rapidamente." Condotto ammnettato a Fabriano,
venne accompagnato nelle carceri mandamentali. Si trattava di un arresto vero e proprio
fatto senza regolare mandato dell'autorità giudiziaria.
II
Novantotto
Dopo essere trasitato per il carcere di Ancona, fu condotto a Bologna
e rinchiuso nel carcere di S. Giovanni in
Monte "nessuno sapeva darmi qualche notizia dall'esterno. Soltanto una volta
capitò di passaggio un giovinetto socialista di Bertinoro: da lui ebbi confuse notizie di
ciò che succedeva per l'Italia, gli stati di assedio, i tribunali di guerra, e allora
cominciai a capire che una qualche grossa burrasca si andava preparando anche contro di
me."
Una mattina venne condotto in stazione con la solita catena di
prigionieri e arrivato a Milano portato al carcere di S. Vittore osservato
l'ambiente del raggio dove io ero rinchiuso vidi che dirimpetto a me vi era in una cella
Filippo Turati, in un'altra Morgari, in un'altra ancora Bissolati, tutti tre deputati e
allora cominciai a temere di essere coinvolto in un processo di natura essenzialmente
politica"
Per effetto dello stato d'assedio si trovava in
balia del Tribunale di guerra. Venne il giorno del dibattimento: in una grande sala del
Castello era stata impiantata l'aula delle udienze e c'erano una ventina di imputati fra
cui l'ex-deputato facchino Pietro Zavattari, il prete giornalista don Davide Albertario,
la Kuliscioff, alcuni anarchici, alcuni
democratici e repubblicani e parecchi socialisti
Le
udienze furono parecchie e piene di incidenti e di sorprese: in generale gli accusati
confermavano le proprie opinioni e i propri propositi con naturalezza e fermezza
Lazzari
cominciò a contestare la validità dell' interrogatorio facendo appello alle condizioni
di fatto e di diritto in cui si trovava perché per la sua età, avendo raggiunto i 40
anni, e per la sua professione civile, non
essendo mai stato soldato, non credeva di dover essere sottoposto alla giurisdizione
militare ed invocava, come prescrive la legge, l'esame dei suoi giudici naturali. Allora
il Presidente lesse i decreti dell'8 maggio che istituivano i tribunali di guerra. Prima della sentenza fu
invitato a parlare se aveva qualcosa da dire in sua difesa mi alzai facendo
questa dichiarazione: «ho da dire che visto il mio alibi materiale perchè da cinque mesi
assente da Milano, e visto il mio alibi morale perché per raggiungere l'emancipazione dei
lavoratori io non ho mai detto di far le barricate, io mi considero estraneo ai recenti
fatti avvenuti a Milano e siccome nemmeno i decreti dello stato d'assedio possono aver
soppresso lo Statuto, io continuerò sempre a sostenere anche per i lavoratori il pieno
esercizio del loro diritto di riunione, di associazione e di voto».
Il 23 giugno 1898 venne condannato a un anno
di detenzione per aver istigato a delinquere i milanesi, mentre Zavattari e alcuni
anarchici venivano assolti e su don Davide Albertario si scaricarono i furori
dell'avvocato fiscale che aveva domandato per lui il massimo della pena, cioè tre anni di
reclusione.
A
Finalborgo
Vennero
autorizzate le famiglie a venirli a salutare prima di partire, perché erano destinati al
penitenziario di Finalborgo. "Mi ricorderò sempre la scena che avvenne quando fui
condotto in presenza di mia moglie: cogli occhi pieni di lacrime ed ardenti per la febbre
essa venne a baciarmi ed abbracciarmi, raccontandomi brevemente le gravi peripezie che
aveva dovuto attraversare in quel burrascoso periodo di tempo."
Alla sera vennero a prenderli, lo incatenarono con don Davide, e
furono condotti alla stazione e immagazzinati nel vagone cellulare ogni
tanto si sentiva la voce di Valera che diceva: Ciao
Romussi, o ciao Chiesi, o ciao Federici, o come state don Davide? "
Il
penitenziario di Finalborgo era l'antico convento dei domenicani i quali, avendo in quel
territorio una specie di giurisdizione, ne avevano fatto
una sede feudale con spesse muraglie di pietra, grandi scaloni, una grossa
torre quadrata.
Dopo
tre giorni di detenzione cubicolare furono condotti nella quinta camerata: Chiesi, Romussi, Federici, don Albertario, Valera, Lazzari, Ghiglionca
Ben presto Romussi venne trasferito al penitenziario di Alessandria
e a sostituirlo venne Giovanni Suzzani, un giovane di Lodi che curava l'edizione del
giornale Sorgete questo Suzzani era un mio
grande amico ed ammiratore, tanto che ci chiamavamo zio e nipote ed ottenni di metterlo
vicino a me.
La Cassazione rigettò il ricorso e quindi dovettero subire le
disposizioni del regolamento: furono rasati completamente, vestiti colla casacca dei
reclusi, individuati non più col nome ma col numero di matricola. Lazzari incominciò
allora a soffrire quegli strazianti mali di stomaco che dovevano poi sviluppare l'ulcera
gastrica e portarlo all'operazione della gastroctomia, prima all'Ospedale Maggiore di
Milano nel 1911, poi al Policlinico di Roma nel 1913.
La
quinta camerata era chiamata la camerata dei giornalisti "e un giorno il direttore
venne a dirci che, non sapendo a quale occupazione adibirci, come prescrive il
regolamento, aveva chiesto ed ottenuto dal Ministero la facoltà di darci carta, penna e
calamaio, onde occupare le nostre inerti ed oziose giornate. Fu una vera festa per tutti.
Chiesi cominciò il suo interminabile lavoro dei romanzi d'appendice, don Davide scriveva
i suoi quaresimali, Federici riprendeva i suoi studi della lingua inglese, Valera
impiantava i suoi indiavolati romanzi popolari ed io, avendo ottenuto il materiale
di disegno, passavo il mio tempo a utilizzare gli studi fatti all'Accademia di Belle Arti
a Milano e ritraendo a colori e in bianco e nero l'ambiente, le persone, le cose da cui
eravamo circondati
Vennero le feste di Natale, e per la fine dell'anno
comparve il primo indulto per coloro che avevano una condanna non superiore ai due anni.
Cinque uscirono, ma rimasero in tre, cioè, Chiesi, don Davide e Lazzari, perché
recidivo.
In seguito ai rapporti del direttore il Ministero decise di
migliorare la condizione dei detenuti che
potevano provvedere al vitto all'esterno: cosi cominciò un nuovo tenore di vita Alla mattina Chiesi faceva la nota del pranzo e della cena consultando
don Davide che, come prete, doveva essere il più competente e la consegnava al sottocapo:
a mezzogiorno veniva dal ristorante un gran cesto (...) in quanto a me il male di stomaco
che faceva continui progressi mi impediva di godere la fraterna liberalità degli altri
due.
La voce della sua abilità nel ritrarre e disegnare
le persone e le cose pare che fosse arrivata
come un scandalo all'orecchio del direttore, perché un giorno venne un sottocapo,
raccolse le carte, le matite, i colori e se li portò via. Dopo tre
giorni gli vennero restituite ma non i lavori, i ritratti, le prospettive.
In febbraio venne citato davanti al Tribunale di
Ancona, per render conto di quanto aveva fatto a Camerino un anno prima e fu condotto in
vagone cellulare prima a Genova, poi a Voghera, Piacenza, Bologna sempre ammanettato e
incatenato in compagnia dei reclusi e dei forzati che viaggiavano da un penitenziario
all'altro.
Arrivato ad
Ancona reclamò anche là le concessioni di passeggio, di vitto, di lavoro di cui godeva a
Finalborgo. "Mi misero in una bellissima cella
posta nella parte più alta di quell'enorme edificio carcerario: vi erano due finestre,
una sul mare venne lasciata aperta e potevo ammirare cinquanta chilometri di spiaggia fino
a Sinigaglia, fino a Pesaro. Fra i socialisti del luogo si era sparsa la voce del mio
processo e perciò mi arrivavano cibi, libri e lettere in abbondanza."
In prima
istanza fu condannato a tre mesi di detenzione, ricorse in appello e, mentre era in attesa
della udienza, venne accompagnato nella sua cella perché condannato a 75 giorni per
offese al re il giornalista repubblicano Domenico Barillari. "Era un brav'uomo, all'antica, che seguiva la sua politica in modo un
po' superficiale e si copriva sempre il capo con un imponente cappello a cilindro, come se
ciò lo dovesse rendere più rispettabile e più venerabile.
Per le feste di Pasqua, fu una gara fra socialisti e repubblicani per
mandarmi in dono quelle famose pizze marchigiane per le quali bisogna avere uno stomaco di
ferro".
Venne il giorno
dell'appello e il deputato Berenini[10]
venne da Parma a difenderlo; però lui fece un discorso per dimostrare che nell'azione
svolta a Camerino non vi era alcun reato. "Ricordo che parlai con tanta eloquenza
e passione che i giudici, i carabinieri, il pubblico mi guardavano con ammirazione e
infatti faceva un grande effetto la vista di un recluso che perorava in tal modo la
propria causa. Venni assolto e quando mi ricondussero in carcere, ammanettato e
incatenato, i carabinieri che stavano cenando si alzarono in piedi e mi obbligarono a bere
con loro. facendo un brindisi al mio discorso che dicevano migliore di quello
dell'avvocato"
Per scontare la restante pena nel carcere di
Finalborgo ottenne di viaggiare in traduzione ordinaria
e passando per le stazioni di Romagna, potè salutare degli amici che
salirono sul treno per tenergli compagnia.
Rivide con piacere i due compagni di pena Gustavo
Chiesi e don Davide Albertario coi quali aveva trascorso un anno e da cui a malincuore si
separò arrivato alla fine della condanna.
Prima
di essere rilasciato venne chiamato nell'ufficio del segretario Era costui un
napoletano
il quale mi disse che aveva studiato all'Università
e sapeva cosa è la balorda dottrina del socialismo, per cui mi consigliava di abbandonare
simili malsane teorie (...) io gli risposi seccamente che non saremo noi Milanesi
ignoranti che andremo a prendere lezione di socialismo dai Napoletani sapienti, perché
noi nella vita sociale facciamo già la pratica militante della politica socialista
Erano le 11 del 29 aprile
1899, il portone si apri completamente ed io uscii finalmente all'aria libera. Davanti al
portone si stendeva un piazzaletto da villaggio: in fondo, lungo una fila di alberi, vi
erano delle donne e dei bambini che stendevano e raccoglievano della biancheria e ridevano
e cantavano... Io rimasi a bocca aperta e alla vista di quelle voci e di quello spettacolo
di dolcezza e di innocenza, dopo tanto tempo (...) «Andate via, non si può fermarsi
qui», mi gridò la sentinella, picchiando sui sassi il calcio del fucile. Mi allontanai sbalordito.
Propagandista
e candidato
Uscito di prigione, fu eletto membro
della commissione centrale del PSI e si pronunciò «per necessità» a favore
dell'alleanza con democratici, radicali e repubblicani nelle elezioni amministrative di
Milano, che si tennero sul finire del 1899. L'appoggio e l'attivissima opera di propaganda
da lui svolta a favore dei candidati «popolari» contribuirono alla loro vittoria
Dopo che non si era presentato al congresso di Bologna del settembre
1897 per i motivi che abbiamo visto (il lodo
sul licenziamento da La lotta di classe) non fu eletto nella Direzione
neppure ai successivi congressi di Roma e di Imola (rispettivamente settembre 1900 e 1902)
che videro la prevalenza dei riformisti, e non rientrò in gioco a livello nazionale che
al Congresso di Bologna dell'aprile 1904, quando prevalse la corrente integralista
di Enrico Ferri e Oddino Morgari.
Nel gennaio 1900 costituì il circolo elettorale
socialista per il sesto collegio di Milano, considerato "sicuro", con l'evidente
intenzione di presentarsi come candidato per le imminenti elezioni politiche, ma fu invece
presentato - pare su pressioni di Turati e di Anna Kuliscioff - lo storico dell'antichità
Ettore Ciccotti, che infatti venne eletto. Fu candidato invece a Voghera e a Varallo
Sesia, collegi "difficili", e non risultò eletto.
Enrico Ferri, già in polemica con
Treves e Turati sui metodi di lotta e di propaganda, colse l'occasione per prendere le
difese di Lazzari sulle colonne dell''Avanti!. Turati rispose con una lettera,
pubblicata sull'Avanti! del 13 novembre 1900 in cui riesumava le accuse per gli
ammanchi nell'amministrazione della Lotta di classe.
In seguito a ciò Lazzari presentò le sue
dimissioni, accettate dopo lunghe discussioni dalla commissione esecutiva della
federazione socialista milanese. Nonostante ciò, tenne numerose conferenze di propaganda
in diverse città italiane, fra cui Grosseto, Massa Marittima, Città di Castello,
Macerata e Cesena, conferenze di cui venne data notizia con un certo rilievo anche dai
giornali socialisti. Né certamente Lazzari perse in credibilità nei confronti della base
operaia del partito: ne è conferma il fatto che pochi mesi dopo, il 2 giugno 1901, venne
eletto presidente del comizio promosso dalla CdL di Milano a favore dei muratori in
sciopero. E il 7 luglio, a Milano, in un comizio di protesta contro l'eccidio di Berra .
manifestò pubblicamente e con linguaggio violento il suo dissenso dalla linea turatiana,
denunciando i pericoli dell'«affinismo», del parlamentarismo e del «ministerialismo».
Enunciazione
della linea politica
Nell'imminenza del congresso di Imola, nel
1902, pubblicò un opuscolo, La necessità della politica socialista in Italia, in
cui chiariva la propria linea politica all'interno del partito e criticava più o meno
duramente le posizioni di Turati, Arturo Labriola, Francesco Saverio Merlino e Ferri.
Quest'opuscolo rimase la base, per tutti gli anni successivi, della politica del vecchio
operaista e la giustificazione teorica della sua "intransigenza" .
Per Lazzari infatti si poteva giungere al socialismo
solo attraverso una «rivoluzione meditata e cosciente, da non confondersi con i colpi
di mano o i colpi di testa del rivoluzionarismo empirico convenzionale», che
implicava necessariamente una «battaglia profonda e continua sorretta da una
inflessibile politica di guerra» nei confronti della borghesia. Da ciò derivava la
necessità della lotta di classe ad oltranza e il rifiuto della «lentezza e
gradualità» del metodo riformista; il non coinvolgimento programmatico nel processo
di formazione di una legislazione favorevole al proletariato, poiché essa allontanerebbe
la politica dei socialisti dalla sua vera e
specifica azione di guerra antiborghese; l'intransigenza assoluta nei confronti delle
alleanze con i partiti borghesi, ad eccezione di quelle sul piano parlamentare occasionalmente utili; l'esclusione della
possibilità di votare bilanci o mozioni di fiducia a ministeri della borghesia. In
conclusione la politica socialista non doveva essere «una specie di olio dato alla
macchina governativa dello Stato borghese per il suo migliore funzionamento, ma una specie
di sasso introdotto nei suoi congegni per rendere evidente e necessario l'intervento del
fabbro che la può spezzare e ricostruire». L'opuscolo, dopo queste critiche,
terminava con un appello, profondamente sincero, all'unità del partito.
Intransigentismo
e sindacalismo rivoluzionario
Dopo il congresso di Imola, conclusosi con la vittoria dei
riformisti, a Milano si ebbe un avvicinamento tra Lazzari e Arturo Labriola, che vi si era
trasferito da Napoli per dar battaglia per la conquista della segreteria del partito e a
tal fine aveva fondato il periodico Avanguardia socialista, cui Lazzari collaborava e di cui
divenne amministratore nel 1903.
Frutto di questo avvicinamento fu anche la
costituzione, nel settembre 1903, del Comitato d'azione socialista economica,
fondato dal gruppo «operaista» milanese (Lazzari, Suzzani, ecc.); ne erano esclusi i
sindacalisti rivoluzionari di Avanguardia socialista, che pure ne erano in parte
gli ispiratori. Essenzialmente lo scopo del comitato era di stimolare una maggior fusione
tra movimento rivendicativo e istanza politica e promuovere una maggiore compenetrazione
tra l'azione del sindacato e l'azione del partito.
Nel 1903 entrò a far parte, come delegato
dell'Unione impiegati, del consiglio generale della Camera del Lavoro, a maggioranza
riformista. Sempre nel 1903, in seguito al fallimento dello sciopero dei ferrovieri delle
linee Nord di Milano, biasimò a nome del Comitato d'azione socialista economica,
l'operato della Camera del Lavoro ribadendo che era necessario «ritornare ai princìpi
della lotta di classe e non dei vieti opportunismi e dei piccoli miglioramenti immediati»
e trascinando con sé gran parte della base operaia milanese.
Nel febbraio 1904 al congresso
regionale lombardo di Brescia diede il suo appoggio alle posizioni sindacaliste
rivoluzionarie di Walter Mocchi che prevalsero, e al congresso nazionale di Bologna
dell'aprile dello stesso anno, criticò l'operato dei riformisti, si pronunciò contro
ogni tipo di collaborazione governativa e diede il suo appoggio alla mozione Ferri.
Nel discorso tenuto all'Arena durante lo sciopero
generale del settembre 1904 lanciò la parola d'ordine della continuazione dello sciopero
generale sino alla caduta del ministero. Sempre nel 1904 si presentò candidato alle
elezioni politiche nel 1. collegio di Milano, ad Affori, a Crema e a Novara senza riuscire
eletto, essendo sempre presentato in collegi non "sicuri".
Negli anni successivi continuò nell'opera
d'organizzazione della base ed a tener conferenze in varie località d'Italia. In questi
anni venne sempre rieletto mebro della commissione esecutiva della federazione socialista
milanese.
Si possono citare alcuni avvenimenti quali la
nomina a membro del Segretariato nazionale della resistenza nel marzo 1906 (che fu
l'embrione della CGdL); l'ennesima sconfitta subita nelle elezioni politiche suppletive
del 1906, quando si presentò come candidato di parte sindacalista, insieme a Labriola,
contro le candidature Treves e Turati; la nuova sconfitta alle elezioni politiche del 1909
come candidato nel collegio di Novara; la fondazione a Milano nel giugno 1907 insieme a
Filippo Corridoni del circolo anticlericale Giordano Bruno; il breve
periodo di corrispondente da Milano dell'Avanti! (novembre 1906-agosto 1907).
Nel congresso nazionale del 1906 a Roma fece
confluire tatticamente il proprio voto sulle mozioni dei sindacalisti rivoluzionari, senza
condividerne la linea politica
Formazione
della frazione rivoluzionaria intransigente
Usciti i sindacalisti rivoluzionari dal
Partito, al congresso di Firenze del 1908 fu relatore con Oddino Morgari e Giuseppe
Emanuele Modigliani sul tema Tattica e programma per le prossime elezioni politiche; a
quello di Milano del 1910 fu relatore con Pompeo Ciotti
sul tema dei rapporti fra gruppo parlamentare e partito. Ribadì
costantemente la condanna del ministerialismo e della politica delle alleanze con i
partiti democratici; ritornò ripetutamente sul concetto che la politica del partito, pur
esplicando un'azione generale di difesa degli interessi immediati dei lavoratori, doveva
essere volta a «combattere il funzionamento e l'incremento delle istituzioni politiche
ed economiche ».
Il primo nucleo "intransigente" si
formò al congresso di Roma del 1906, dove la mozione presentata da Giovanni Lerda, che si
proponeva un rilancio dell'antiministerialismo e la riconferma del principio della lotta
di classe, ottenne solo 1.161 voti su 34.000; al congresso di Firenze del 1908 la corrente
si consolidò ottenendone 5.387, pari 19% Al congresso di Milano del 1910 migliorò le
posizioni col 24% dei voti; nel 1911 a Modena conseguì 8.600 voti su 21.000 e infine nel
1912 a Reggio Emilia con 12.550 voti superò le due mozioni riformiste che ottennero
complessivamente meno di 8.000 voti (senza contare i riformisti di destra già usciti); da notare che
fu essenziale per la vittoria il contributo della federazione forlivese guidata da
Mussolini il cui ruolo, marginale fino ad allora, con la nomina alla direzione dell'Avanti!
assunse rilievo nazionale.
Tra il 1906 e il 1912 la corrente conobbe diverse
fasi di aggregazione e sviluppo coagulando componenti e personalità radicate nella
tradizione socialista come quella di derivazione "ferriana" e integralista
orientata all' "educazione delle masse" rappresentata da Giovanni Lerda, insieme
con gli esponenti provenienti dal Partito Operaio Italiano; a loro si venne aggiungendo la
Federazione giovanile ricostituita dopo la scissione sindacalista-rivoluzionaria del 1907
sotto la guida di Arturo Vella, al cui interno iniziava a svilupparsi la generazione più
giovane dei Bordiga e dei Tasca che faceva il suo ingresso nelle fila del socialismo tra
il 1911 e il 1914 in pieno clima
antiriformista e antipositista, influenzata da Salvemini e anche da Mussolini.
In vista del congresso di Milano fu promosso
un coordinamento, ma la costituzione in frazione avviene con la pubblicazione, dal 1.
maggio 1911, dell'organo ufficiale "La Soffitta" (che riprende
polemicamente nel titolo la nota affermazione di Giolitti sul preteso accantonamento del
marxismo da parte del socialismo italiano) di cui Lazzari era condirettore con Giovanni
Lerda. Il giornale, che cessò la
pubblicazione all'indomani del congresso di Reggio Emilia del luglio 1912, rappresentò politicamente il punto di riferimento
e di raccolta delle forze della corrente che,
dopo il congresso di Milano, aveva proceduto alla nomina dei responsabili regionali (15
agosto 1911) e del Comitato Centrale (19 novembre) con funzioni di coordinamento, composto
da Lazzari, Francesco Ciccotti, Giovanni Lerda, Arturo Vella, Paolo Mantica, Elia Musatti,
Adolfo Zerbini.
Nonostante i propositi di rivalutazione del
marxismo e il tentativo di ricerca sul piano ideologico di una piattaforma programmatica,
mancò alla Soffitta un dibattito di idee vero e proprio. Si invocò il ritorno al
programma di Genova, si insistè sulla politica di chiusura nei confronti del governo
borghese, si richiamò il proletariato al «lavoro per la propria elevazione ed
educazione».
"I
princìpi e i metodi del Partito socialista italiano" (1911)
Nell'opuscolo illustrò e rivendicò le tesi del programma costitutivo del partito al Congresso
di Genova del 1892, il cui cardine era la visione della società in classi: "Da un lato la borghesia dominante per mezzo
delle sue istituzioni, in nome del suo diritto privato di proprietà, e dall'altro i lavoratori
sfruttati e sacrificati a beneficio della
formazione e dell'accumulazione capitalistica"[11]
Proprio l'enunciazione chiara e decisa di quella
tesi aveva permesso al Partito
fino al 1900 di rafforzarsi e di svolgere una funzione egemonica nei confronti delle altre
tendenze presenti nel movimento
operaio, dagli anarchici ai repubblicani e perfino ai democratici, impegnati sia pure confusamente a
contrastare il rafforzamento del
blocco monarchico-cattolico.
Dopo il Congresso di Roma del 1900 la politica
delle alleanze varata dai
riformisti e l'appoggio fornito a
indirizzi di governo avevano portato alla ripresa d'iniziativa delle altre formazioni di sinistra e alla
nascita del sindacalismo
rivoluzionario con la scissione del 1907.
Contro la tendenza ad attribuire allo Stato il
carattere di rappresentante degli
interessi della collettività e della nazione ricordava la definizione classista delle istituzioni
basate sul regime della proprietà privata e quindi dello Stato, che sanciva il
riconoscimento giuridico del predominio di
classe, lo conservava e garantiva con la forza.
Il programma del 1892, propugnando una lotta
contro gli interessi e le
istituzioni della classe dominante, aveva escluso ogni concezione educativa, filantropica e umanitaria del
socialismo. L'azione socialista non poteva limitarsi a migliorare le condizioni di vita
dei lavoratori - obiettivo comune
anche ad altre forze politiche -, ma doveva mirare ad abbattere tutti gli ostacoli che si
frapponevano all'emancipazione
del proletariato:
I lavoratori non potranno conseguire la loro
emancipazione, se non mercé la socializzazione
dei mezzi di lavoro (terre, miniere, fabbriche, mezzi di trasporto, ecc.) e la gestione sociale della produzione.
Il riformismo parla soltanto di elevamento del proletariato, sostituendo così un
concetto empirico ed occasionale al principio
ideale e continuo della nostra storia7.
L'opuscolo consente di individuare le idee fondamentali della frazione intransigente, che,
al di là della loro capacità
di aggregazione in senso antiriformista, non giunsero mai a uno sviluppo teorico completo. Almeno una parte di essa abbandonò la rivendicazione del ritorno al
programma del 1892, fino a chiederne il definitivo
abbandono al Congresso di Bologna del 1919.
Se l'interpretazione lazzariana del programma
originario del partito come di un «piano
completo ed organico di azione saldamente ancorato alla dottrina socialista» era destinata a non reggere a lungo, ebbe tuttavia influenza oltre quella fase l'idea di
impostare la critica del
riformismo tornando alle basi del socialismo, intendendo la fedeltà ai postulati programmatici
generali come condizione
irrinunciabile di omogeneità e forza politica, in quanto da essi discendevano chiare indicazioni di metodo,
distintive dell'azione socialista
rispetto a quella di ogni altra forza politica, e l'intransigente applicazione di tali indicazioni avrebbe permesso
al partito di riscoprire la
propria ragion d'essere.
Un postulato essenziale era l'organizzazione del proletariato in partito di classe,
indipendente da tutti gli altri partiti. Nel momento stesso in cui sacrificava questa
prerogativa il Partito socialista «cessa[va] di rappresentare la classe proletaria e
di-venta[va] un qualunque partito di borghesia per il quale non valefva] la pena di sacrificarsi o appassionarsi».
Di qui la critica ai blocchi elettorali coi
partiti "popolari" e, soprattutto, alla condotta del gruppo parlamentare, che sistematicamente aveva confuso la propria azione con quella dell'estrema
sinistra della Camera e non si era reso conto che gli uomini di questa - Lazzari citava Crispi, Cairoli, Nicotera, Fortis, Zanardelli, Sacchi
e Marcora -una volta saliti al potere,
diventavano i più accaniti difensori dell'ordine
costituito:
In questo modo il gruppo parlamentare socialista
ha talmente perduto ogni suo carattere
ed ogni sua funzione distinta, da non avere più nemmeno la forza di reggersi come
organismo speciale in mezzo al parlamento della borghesia. I singoli deputati votano discordi fra di loro e la loro
azione in Parlamento è senza alcun effetto di propaganda per l'orientamento e la
formazione di una buona opinione socialista8.
Il programma del partito, compendiato nella
formula della «conquista dei
poteri pubblici», non doveva far perdere di vista il fine dell'azione socialista chiaramente indicato dal compito di
espropriazione economica e politica che noi dobbiamo esercitare per mezzo di essa contro la
classe dominante, mediante un'opera
di trasformazione dei poteri pubblici per togliere ad essi il carattere che hanno di mezzi di oppressione e di
sfruttamento.
Venendo poi alla distinzione del potere statale in due grandi categorie,
quelle del governo centrale e dell'amministrazione locale (Province, Comuni ed enti pubblici), secondo Lazzari il
partito doveva conservare intatta (senza
subire l'influenza dell'ambiente parlamentare)
la funzione di rappresentante dei diritti sociali dei lavoratori, non potendosi permettere nessuna rilassatezza nei
confronti dei poteri esecutivi del regime
borghese e meno che mai partecipando all'esercizio
di quei poteri, fatto che lo avrebbe reso corresponsabile di misure inevitabilmente volte alla conservazione dello stato
di cose esistente. La conclusione di Lazzari
tuttavia non era così chiara come potrebbe
sembrare: "Non vuol dire con ciò che la quistione della partecipazione al
potere non rimanga una pura e semplice questione di metodo, perché verificandosi il
processo storico della dissoluzione politica, possono determinarsi anche nella vita della
borghesia dei momenti rivoluzionari, nei quali potrà interessare al partito socialista
di aiutare i vari strati borghesi più avanzati nei loro sforzi diretti a demolire gli avanzi del passato dominio10.
Egli ammetteva l'assunzione di responsabilità
da parte dei socialisti nelle
amministrazioni locali: "È questa la sola
concessione che noi possiamo fare verso le istituzioni del potere borghese, perché la
trasformazione dei poteri amministrativi dipende più dallo spirito che li può animare,
che non dal modo del suo funzionamento come è invece
proprio del potere governativo".
Quanto all'azione economica, Lazzari, una volta prese le distanze dal
sindacalismo rivoluzionario, richiamava il dovere del partito di appoggiare tutte le lotte
dei lavoratori, sconfessando l'atteggiamento della dirczione riformista, che aveva
contrastato vari scioperi e varie proteste, privilegiando essenzialmente il movimento
cooperativo e le riforme dell'assistenza e della previdenza sociale.
Le cooperative di consumo, di lavoro, di credito, non rappresentavano
una forma specifica di lotta proletaria e potevano svilupparsi anche al di fuori della
lotta di classe anzi partecipavano per lo più a quello spirito di conciliazione e
pacificazione che distingueva la politica dei moderni
partiti borghesi: Più noi ci terremo
lontani da queste insidiose forme di azione, più saremo fedeli ai principii ed ai metodi del nostro programma, e più avremo
aperte le vie dell'avvenire socialista12.
Urgeva quindi ritornare alla lotta per il miglioramento delle
condizioni di vita e di lavoro, campo specifico di azione e aggregazione dei proletari,
in quanto solo nel vivo dello scontro tra le componenti economiche della società la
classe sfruttata avrebbe potuto prendere coscienza dell'abisso che la divideva dalle
altre, della natura del regime borghese e delle sue istituzioni e della necessità di
trasformarlo. A fianco dei risultati che la lotta sul terreno economico portava
inevitabilmente con sé, si producevano «incalcolabili effetti morali favorevoli a
diffondere nel mondo quei principii di fratellanza e di solidarietà» che il regime
della proprietà privata contrastava «nel fatto, pure
in mezzo alle teoriche ed astratte proclamazioni della filosofia borghese». La causa ultima della crisi socialista doveva essere individuata nell'involuzione delle teste pensanti del
partito. Si trattava di uomini giunti al socialismo più per l'impotenza degli altri
partiti che per la formazione di una
convinzione indipendente e spregiudicata:"lentamente essi ritornavano nella
prima illusione, nella speranza di affrettare un successo che solo le forze nuove ed i
nuovi metodi avevano la capacità e la volontà di realizzare cominciarono a inventare
la mancanza nel nostro paese di quegli elementi di materialismo economico che sono la base
e la forza di un vero movimento socialista e scesi di gradino in gradino per la via delle
transazioni politiche, vennero fino al punto di dichiarare sfatate, morte e sepolte le
formule dottrinarie che Carlo Marx aveva con tanta sapienza elaborate come la base
incrollabile dell'azione socialista. Questi uomini, approfittando della loro posizione
eccezionale e valendosi di ogni mezzo, hanno continuato per la loro via, senza curarsi
dello stato di disgregazione, di malcontento e di decadenza che lasciavano dietro di sé:
trionfavano le loro persone ma svaniva lo spirito collettivo che aveva destato tanta
ammirazione e tante speranze. Le azioni del partito non sono più determinate dalla
interpretazione del nostro programma e delle regolari discussioni delle assemblee,
bensì della imposizione delle persone e dei gruppi per via di sorprese, di violenze e sopraffazioni".
Segretario tra settimana rossa e intervento. Né sabotare né aderire
Dopo
il congresso di Reggio Emilia del 1912 vinto dalla corrente intransigente rivoluzionaria,
fu nominato segretario del partito (carica che terrà per sette anni, fino 1919). A quel
punto sciolse gli impegni professionali in
qualità di commesso viaggiatore con la ditta Enrico Besana e si stabì definitivamente a
Roma.
Si
fecero evidenti, con l'assunzione della più importante carica del partito - tra l'alto in
un periodo storico critico come quello tra l'impresa libica e l'intervento nella Grande
guerra - i suoi limiti personali, culturali, politici
Uno dei suoi primi atti fu quello di offrire la direzione dell'Avanti!, che era lo strumento di indirizzo politico e di formazione dell'opinione
del partito, a un uomo ormai fuori dalle sue fila e che si autodefiniva «più riformista
dei riformisti», Gaetano Salvemini, con una ingenuità evidente. Nella ricerca dell'uomo
nuovo, che avrebbe dovuto dare maggiore slancio alla corrente, da insediare alla direzione
del giornale la scelta cadde, dopo un breve periodo di direzione di Giovanni Bacci, su
Benito Mussolini.
Di
fronte alla guerra libica l'opposizione fu netta; egli svolse, unitamente al suo gruppo,
un'azione di stimolo e di coordinamento delle manifestazioni di protesta antimilitarista
espresse dalla base. Ma dell'opposizione alla guerra libica più che uno strumento di
lotta contro il capitalismo borghese e il nazionalismo imperialista, farà un'arma contro
i riformisti coinvolgendo nella responsabilità per la guerra «quella politica
socialista che da dieci anni, invece di compiere la sua funzione di corrosione e di lotta
contro tutto il meccanismo delle istituzioni borghesi, aveva favorito e secondato tutte le
combinazioni e le trasformazioni ministeriali».
Lazzari
affrontò il pesante compito della direzione del partito basandosi pressoché
esclusivamente sul dogma dell'intransigenza e sull'appoggio alle lotte economiche della
base. Vi fu in lui un'attesa quasi fatalistica dell'inevitabile disgregazione del regime
politico della borghesia e una fede messianica nell'altrettanto inevitabile avvento del
socialismo. Gli fu dunque sostanzialmente estraneo il problema di come influire sugli
avvenimenti, di come agire nel momento della dissoluzione dello Stato borghese.
Allo
scoppio della guerra mondiale il Partito, che sotto la sua direzione, nonostante
l'immobilismo, aveva avuto un grosso incremento numerico, si trovò isolato,
impossibilitato a manovrare con le altre due
forze nautraliste, i giolittiani e i cattolici, mentre le
tradizlonali alleanze con le altre forze di sinistra, repubblicani e
radicali, venivano meno e la borghesia intellettuale si orientava verso la guerra.
Il
governo agiva pesatemente per impedire le manifestazioni pacifiste e per scioglierne i
cortei, lasciando agli interventisti le piazze: un trauma per chi era abituato ad averne
il controllo, tanto più per un Partito che restava vincolato a metodi legalitari di
lotta, ad una concezione pacifista e non rivoluzionaria dell'antimilitarismo, incontrando
perciò sempre maggiori difficoltà nell'arginare l'offensiva degli interventisti
Il suo atteggiamento fu di netta opposizione a ogni partecipazione
alla guerra e quindi di durissima condanna di ogni interventismo. Nell'ottobre 1914
sostituì, insieme a Bacci e Serrati, Mussolini alla direzione dell'Avanti!. Nel novembre
pronunciò l'atto di accusa contro Mussolini, espulso per indegnità
politica e morale.
Sull'Avanti! delineò
l'atteggiamento in caso di mobilitazione militare: neutralità e tranquillità del partito
per una guerra difensiva; opposizione e resistenza per una guerra offensiva. Nel corso di
una conferenza a Osimo, a chi gli chiedeva cosa avrebbero fatto i socialisti in caso di
intervento, rispose che avrebbero dovuto "assoggettarsi agli eventi , sicuri che a
suo tempo si verificherà quello che avvenne tra i pagani e i cristiani, e cioè che dopo
tante lotte cruente seguì la pacificazione degli animi" . La
rassegnazione assume quì dimensioni cosmiche, sul
terreno politico è la passività eretta a comandamento supremo.
Nel maggio 1915 a Bologna, nella riunione congiunta della direzione
del partito, del gruppo parlamentare e dei responsabili della CGdL, Lazzari coniò la
formula del «né aderire, né sabotare», in
polemica con Serrati propenso ad un atteggiamento più deciso e combattivo, che aveva
lanciato l'appello per contrapporre "dimostrazione a dimostrazione, comizio a
comizio...non attendere il corso degli eventi in musulmana remissività". Il
29 agosto diramò un comunicato invitando le organizzazioni a "fare argine e
impedire che le esaltazioni sentimentali degli altri partiti potessero traviare e
travolgere la chiara coscienza internazionalista del proletariato italiano". Nel corso della guerra si adoperò per l'unità del
partito e per l'equilibrio delle tendenze, pronunciandosi contro l' «insurrezionalismo»
e condannando i cedimenti patriottici dei riformisti, da Turati a Rigola.
In
campo internazionale partecipò ai convegni di Zimmerwald
e di Kienthal. Il 21 settembre in un comunicato invitò le federazoni e le
sezioni a fare oggetto di approfondito dibattito le decisioni del convegno di Zimmerwald.
Un anno dopo, il 12 settembre 1917, inviò una
circolare riservata e personale ai sindaci socialisti perchè contribuissero "con
concorde atto di protesta " ad imporre al governo il punto di vista del gruppo
parlamentare socialista contro "un terzo inverno di guerra". Due le
ipotesi avanzate: "rassegnare le dimissioni ad un ordine della Direzione" oppure
"provocare le dimissioni in massa" con una dichiarazione comune.
Il
18-19 novembre 1917 partecipò alla riunione della frazione intransigente a Firenze,
presenti Serrati, Bordiga, Gramsci, Terracini.
Nuova
carcerazione
La
circolare "riservata e personale" venne naturalmente conosciuta dalle
autorità e, in base al decreto Sacchi, fu arrestato e condannato per propaganda
disfattista. Rimase nel carcere prima di
Regina Coeli e poi di Velletri dal febbraio al novembre 1918; durante la detenzione
scrisse alcuni appunti di cui riportiamo due brevi brani: (...)
ho meditato lungamente sulla dura sentenza
che mi ha colpito e mi sono convinto che essa non è un giudizio, ma una rappresaglia
politica contro il partito. Infatti il P.M. si è espresso così: «Erano mezzi di
pressione che i dirigenti del partito volevano esercitare su coloro che dopo Caporetto
erano rimasti turbati se continuare o no nel contegno di rigida intransigenza in rapporto
alla guerra. E questo completa la figura del reato che si è convenuto chiamare
disfattismo. Come se la disfatta fosse nelle intenzioni e nei propositi
del partito! Noi sappiamo che la disfatta vorrebbe dire un aggravamento dei mali del
popolo italiano, e nemmeno ci potrebbe illudere come un mezzo adatto allo scoppiare di una
rivoluzione perché noi vogliamo veramente la morte del dominio borghese, ma deve essere
una morte naturale e non una morte violenta, per assicurare il successo e la introduzione
del regime socialista. Forse in ciò sta il danno e l'errore, non volontario del resto, di
Lenin"[12]
II
governo socialista di Pietrogrado ha firmato la pace colla Germania. Io non l'avrei
firmata, ma fin dal primo momento delle trattative avrei decretato lo scioglimento
dell'esercito. Dichiarando la cessazione dello stato di guerra avrei lasciato avanzare
l'esercito tedesco e l'avrei aspettato di piede fermo a Pietrogrado protestando contro la
violenza dell'occupazione che nessun motivo poteva giustificare.[13]
Queste
note evidenziano l'incomprensione della realtà profondamente
mutata dalla guerra e dalla rivoluzione russa, l'incapacità di dare alla
formula «né aderire, né sabotare la guerra» un contenuto concreto che orientasse il
movimento operaio italiano nella sua condotta di fronte alla guerra. Tra la posizione più
duttile di Turati e quella insurrezionale di Bordiga,
Lazzari ha l'unico merito di coagulare le masse socialiste in una fedeltà morale ai
principi dell'internazionalismo proletario ma non riesce a prospettare uno sbocco politico.
I giudizi che formula sugli avvenimenti russi denunciano i limiti di
una solidarietà puramente morale che non si
prospetta il ruolo concreto che il proletariato italiano potrebbe assumere in difesa della
rivoluzione russa. Né la rivoluzione bolscevica suscita in lui alcuno stimolo all'analisi
delle possibilità nuove che essa offre alla lotta rivoluzionaria del proletariato
italiano ed alle quali commisurare la validità della propria linea politica tradizionale.
Nel
dopoguerra; la Terza Internazionale
Nelle
elezioni del 1919 fu eletto deputato nei collegi di Milano e Cremona; nel 1921 fu rieletto
a Milano, Pavia e Cremona e mantenne tale carica sino al 1926; nel 1920 nelle elezioni
amministrative di Roma fu eletto consigliere comunale.
Al
congresso di Bologna dell'ottobre 1919 si espresse a favore della rivoluzione, ma da
realizzare colla sola arma dell'intransigenza con l'esclusione della violenza
pregiudizialmente premeditata e programmata; sulla mozione di Lazzari confluirono i voti
dei riformisti. L'esperienza della rivoluzione bolscevica non modificò le sue precedenti
convinzioni e non lo indusse ad una revisione
critica della validità della sua precedente linea politica. Al congresso di Livorno del
gennaio 1021 confluì nella mozione massimalista e rimproverò gli oratori dell'Ordine
nuovo di intellettualismo e di aridità del sentimento.
Dopo
il viaggio a Mosca del giugno 1921 per perorare l'accettazione dell'adesione del PSI alla
III Internazionale e i colloqui avuti con Lenin[14],
Lazzari si convinse della necessità dell'espulsione dei riformisti dal partito, ma non
dell'avvicinamento alla linea dei comunisti e tanto meno della fusione col PCI. Nel
congresso di Milano dell'ottobre 1921 la mozione di Lazzari per l'accettazione delle
condizioni di adesione alla III Internazionale rimane in schiacciante minoranza.
Avvenuta
infine l'espulsione dei riformisti nel congresso di Roma dell'ottobre 1922, al congresso
di Milano delll'aprile del 1923 si dimostrò incerto e tentennante sulla questione della
fusione col PCI, per non abbandonare il vecchio e glorioso nome di socialista. Nel 1924,
in occasione della fusione dei "terzinternazionalisti" di Serrati e Maffi col
PCI, rimase definitivamente nel campo massimalista, pur non cessando di perorare
l'adesione del PSI all'Internazionale comunista.
Gli
ultimi anni
Era
stato estromesso nel 1926 dalla carica come tutti i deputati aventiniani e quindi privato, alle soglie dei settan'anni,
dell'indennità che gli permetteva di mantenere[15]
la sua piccola famiglia composta dalla moglie Eleonora Vitali e da Caterina, l'orfana
adottata nel 1915.
II padrone di casa - scriveva
il 10 giugno 1926 ad Alessandro Schiavi, che gli forniva per conto della
"Fondazione Matteotti" un compenso per scrivere le memorie di cui siamo valsi
per questa biografia - mi ha aumentato di altre 100
lire mensili l'affitto del modesto appartamento che occupo qui (a Roma) e così per il
solo alloggio devo spendere 15 lire al giorno: capisci dunque come succede che alla metà
del mese, io mi trovo assolutamente senza soldi e quindi costretto a ricorrere a ripieghi
umilianti e scoraggianti - il Monte di Pietà si è già ingoiato le mie medaglie
parlamentari - che io ho bisogno di evitare anche per conservare la volontà e la energia
del lavoro"
Il
9 novembre subiva un'ennesima aggressione negli stessi locali di Montecitorio, e così racconta la vicenda in un'altra lettera a Schiavi del gennaio
1927 «recatomi a Roma e presentato alla presidenza della Camera un ordine del
giorno contro la pena di morte, venni un'ora prima della seduta assalito sullo scalone
interno di Montecitorio da tre deputati fascisti. Mentre due mi tenevano per le braccia,
il deputato Starace, atterrandomi e massacrandomi a furia di pugni e calci, mi fece
trascinare sanguinolento e tramortito fino sulla soglia del palazzo, dove venni preso
dagli agenti e trasportato in vettura al Commissariato dove venni trattenuto fino alle 10
di notte.(...) quando ci penso mi sento tuttora mortificato ed avvilito per la defezione
di tutti gli altri fra i quali vi erano uomini validi e giovani ben altrimenti adatti a
sostenere la nostra bandiera. Eppure nemmeno uno si era presentato: non dico dei vari e
molti aventiniani democratici, popolari, repubblicani, riformisti, ma i massimalisti? Io
ne sono e ne rimango vergognato e disgustato... Ora sto facendo le pratiche per vedere di
trovare posto in qualche ricovero dei vecchi tale è la sorte di noi proletari
per non lasciarmi vincere dalla disperazione, ma vi riuscirò? A Milano Veratti mi ha
scritto che ho perduti i diritti di cittadinanza; qui a Roma non li ho tutti e la fine è
vicina».
Il 23 settembre 1927 «Carissimo Alessandro, da appena un mese sono uscito da una violenta
burrasca che si è scatenata contro di me, perché, andato a Milano per raccogliere i dati
e i documenti necessari a continuare la storia che sto scrivendo, anche per quell'editore
straniero che mi ha già pagato qualche anticipo fui dopo un ritrovo coi miei due fratelli
a Brusinpiano, arrestato brutalmente a Luino e carcerato per un mese colà, a Busto
Arsizio, a Varese imputato davanti al famoso Tribunale speciale. Ora mi trovo in libertà
provvisoria, deferito al tribunale ordinario di Busto Arsizio per un preteso tentato
espatrio (che non mi sono mai sognato di fare) e per resistenza ai carabinieri perché
essendomi rifiutato di entrare pacificamente in carcere vi fui trascinato a forza e con
violenza. Ne sono ancora tutto sbalordito, perché non ti so dire tutti i brutali
incidenti che ho dovuto subire in questo periodo in cui ho dovuto attraversare la
Lombardia in mezzo ai carabinieri, coperto di ferri e di catene come un malfattore!
«Oggi il ministero detta P.I. a cui ho fatto conoscere le
disgraziate condizioni in cui mi trovo, mi ha annunciato che pagherà esso la tassa
annuale per la inscrizione al 3° corso magistrale della mia povera e cara bambina, la
quale avrebbe dovuto altrimenti abbandonare la scuola... Quindi un raggio di gioia
illumina la mia vita
Il 20 dicembre 1927, la moglie Eleonora Vitali,
annunciava che Costantino era a letto con una polmonite e pleurite. Poco di poi si spegneva
Conclusione
Questo profilo
biografico intende colmare una lacuna, tanto più che a Giacinto Menotti Serrati o Nicola
Bombacci, per citare qualche esempio di personaggi a lui contemporanei e della stessa area
politica, sono state dedicate recenti (e meno recenti) monografie [16].
L'influenza che
Lazzari esercitò nel movimento operaio e socialista nel ventennio dal 1880 al 1990, che
coincide forse non casualmente con il periodo trattato nellautobiografia, è stata
decisiva. Quando rientò in gioco ai massimi livelli dopo la lunga egemonia riformista,
con la vittoria del massimalismo al congresso di Reggio Emilia del 1912, si fecero
evidenti i suoi limiti personali, culturali, politici,
tra l'alto dovendo esercitare la sua segreteria in un periodo storico decisamente critico
come quello tra l'impresa libica, l'intervento nella Grande guerra e il dopoguerra.
Riportiamo a questo proposito un vecchio
giudizio che riteniamo sostanzialmente giusto: ...Malgrado
le apparenze si deve concludere che non è mai stato un capo, che gliene sono mancate le
qualità più indispensabili. Un capo esprime da un lato i bisogni, le tendenze del
movimento a cui è legato, e dall'altro li precorre, segnando la strada. La prima di
queste cose si è realizzata in Lazzari compiutamente, ed è appunto perciò che egli è
così rappresentativo: il movimento operaio si rispecchia in lui coi
suoi lati positivi e negativi, con grande fedeltà. Diciamo: con eccessiva fedeltà.
Perché in Lazzari è mancato appunto il secondo elemento, quello pel quale il partito
politico adempie, conservando i suoi legami con le masse, alla sua funzione di
avanguardia»[17] giudizio sostanzialmente ribadito dall'Arfè
nella sua "Storia del socialismo italiano[18]
di cui riproduciamo alcuni brani: Il
dogma dell'intransigenza è quello alla cui luce affronta i pesanti compiti nel momento in cui viene a trovarsi a capo
della nuova maggioranza.(
) Intransigenza per lui significa rifiuto di ogni
compromesso e di ogni patteggiamento, addirittura di ogni contatto con gli istituti della borghesia, con le
forze politiche e con le
organizzazioni che non abbiano la duplice qualifica di proletarie e di socialiste nell'attesa che i «diversi avvenimenti portino, alla disgregazione del «regime politico della
borghesia». Il problema di come
influire sugli avvenimenti, di come agire
nel momento in cui tale disgregazione si verifichi, gli è pressoché estraneo.Il nesso tra il corso delle cose e l'opera degli
uomini, che nei riformisti era apparso viziato da determinismo, viene concepito da Lazzari in forme di puro
fatalismo. È Lazzari che di fronte
alla guerra lancerà la formula del
«né aderire né sabotare», la quale può anche esser considerata come un felice compromesso tra le esigenze dell'ideale e le necessità
delle circostanze, ma che
cristallizza l'atteggiamento del partito, bloccandolo su una posizione entro la quale non
troveranno postò nei momenti
decisivi né il discorso del Grappa di Turati - il tentativo cioè di gettare un ponte tra il proletariato e la coscienza patriottica del paese -, né la
parola d'ordine della trasformazione
della guerra imperialista in
guerra rivoluzionaria. Sarà anche
Lazzari che nell'immediato dopoguerra accetterà la
rivoluzione ma si opporrà all'abbandono del programma
di Genova e avverserà il pregiudiziale richiamo
alla violenza, accettando su tale piattaforma la scomoda confluenza dei voti riformisti(
) Ed è lui che nel congresso di Livorno, ai giovani oratori dell'« Ordine Nuovo », a Gramsci e a
Terracini, rimprovera l'intellettualismo e l'aridità di sentimento che li fanno estranei alla tradizione socialista del buon ceppo antico (
) Gli
anni del primo fascismo lo vedranno impavido e immobile in atteggiamento da profeta
Nota sull'autobiografia
Lutilizzo in ambito storico di una
narrazione autobiografica pone il problema che l'autore è insieme anche la propria fonte:
ciò che ne scaturisce non è quindi «la»
verità; è «una» verità, condizionata per di più da una serie di fattori [19].
In primo
luogo il «tipo storiografico»: la biografia è
il punto d'incrocio tra il tempo «medio-lungo» dell' «ambiente» storico
(il contesto economico, le mentalità, i sistemi istituzionali che vivono in forma
relativamente indipendente dal singolo individuo che ne è parte e che gli sopravvivono)
e le scansioni rapide del breve lasso di tempo che all'individuo è dato vivere: la
biografia esprime quindi la cadenza degli avvenimenti individuali, «fissandoli»
su quella fascia di confine con la «grande storia», su quel contesto che
viene a fungere così da scenario, per «ambientarlo».
La biografia è uno dei punti più alti dell' «arte»
storiografica e insieme, proprio per il suo intrecciare «corso della vita» e «ambiente»
intorno alla centralità del soggetto protagonista, uno
dei generi storiografici più vicini alle radici stesse della storia: «La più
originaria di queste connessioni (costituenti la struttura del mondo storico) è formata
dal corso della vita di un individuo in un certo ambiente, da cui esso riceve influenze
e su cui reagisce»[20].
Dunque, la biografia come genere storiografico per eccellenza e l'identità come
oggetto privilegiato della storia. E tuttavia l'ambiente finisce per essere
inevitabilmente sacrificato, «ritagliato sul soggetto» e ridotto a «scorcio».
Il secondo
fattore è relativo al tipo di narrazione. La storia è comunque «racconto di avvenimenti».
«Il vissuto così come esce dalle mani dello storico
non è quello degli attori. È una narrazione. Come il romanzo, la storia
trasceglie, semplifica, organizza, racchiude un secolo in una pagina. E questa sintesi
propria del racconto non è meno spontanea di quella prodotta dalla nostra memoria quando
rievochiamo gli ultimi dieci anni della nostra vita»[21].
La struttura del racconto si sovrappone alla struttura della realtà e la
riplasma. Nella autobiografia il protagonista narra addirittura se stesso. Si
misura, cioè, con la propria identità e autocoscienza, e sceglie una forma narrativa.
In genere, essa è strutturata sul primato della
cronologia. La successione temporale non sembra solo costituire lo strumento più
adeguato a imporre un ordine logico al racconto, ma anche la formula più efficace a
strutturare la rappresentazione della propria identità, vissuta qui come linearità
della memoria. Ci sono nella narrazione tempi «pieni», affollati, tratti in
cui il discorso si fa serrato, incalza quasi giorno per giorno. La memoria, qui,
aderisce al tempo in forma quasi perfetta. Sono i momenti alti della biografia, quelli in
cui l'identità si è espressa nella storia nella forma più piena e consapevole. E vi
sono tempi «vuoti», deserti d'immagini e di ricordi, dove il racconto procede stentato,
non ritrova la materia di cui nutrirsi, lascia ampie pause. Sono i momenti "bassi" della biografia, quelli
in cui l'identità matura le proprie svolte,
elabora lentamente e silenziosamente il proprio sviluppo, senza trovare riscontri
esterni di tipo «événementiel». Il tempo qui sembra aver perduto di slancio e
pulsare quindi col mero ritmo della natura.
Tutto ciò che implica un maturazione fatta di
piccole modificazioni nell'atteggiamento e nel modo
di pensare e che, a processo terminato, si presenta come la formazione di una «posizione» politica, di una concezione del mondo,
di una scelta, deve trovare, per essere comunicato, una struttura narrativa
aneddotica, deve sintetizzarsi in un episodio il cui messaggio
ha delle analogie con la mitologia. Ciò appare particolarmente evidente per
l'elaborazione delle strutture morali, dei sistemi di valori, che hanno un ruolo
decisivo nella definizione dei meccanismi e delle motivazioni dell'adesione al socialismo:
vi è quasi sempre, a sanzionare la maturazione di un valore, o l'adesione ad un ideale,
un episodio da «via di Damasco».
[1] Ved. un ritratto corrosivo anonimo in Rivoluzione
Liberale 1922, n.30. Ezio Riboldi in Vicende socialiste. Trent'anni di
vita italiana nei ricordi di un deputao massimalista, Milano, 1964, riferisce una conversazione avvenuta tra Lenin e
Lazzari che, alla sollecitazione del capo dei bolscevichi per l'occupazione delle
fabbriche rispose: «Sì, l'idea è giusta, ma poi... che ne facciamo degli
industriali?». E Lenin, ammiccando: « Liquidateli! »... « Ma scior Lenin
esclamò in dialetto milanese il buon Costantino nun milanes semm brava
gent».
[2] Ma c'e qui anche un pregiudizio
antimerdionale che si ripresenta nel tempo, come si desume da un ricordo del comunista
siciliano Gerolamo Li Causi in "Il lungo cammino. Autobiografia 1906-1944",
Roma, 1974: "...Ricordo una frase di Lazzari a proposito di Bordiga: "L'è un napoletano", come per dire, in senso spegiativo, che era uno le cui opinioni non
contavano perchè non aveva niente a che vedere con la classe operaia del Nord"
[3] In Movimento
operaio e socialista nei numeri 4 e 5 del 1952. Su caratteri e problemi delle
autobiografie vedere la nota in appendice
[4]
"Una città nella
storia dell'Italia unita: classa politica e ideologie in Cremona nel cinquantennio 1875-1925" a c. di F.Invernici, Cremona,
1986. Dal filone laico e positivista con influenze
massoniche gemmò anche il socialismo che dal 1893 trovò una sua visibilità organizzativa con l'apertura
della Camera del Lavoro fondata da Garibotti,
Quaini e Bissolati, che fu alla base di un mix
costituito da un tranquillo riformismo municipalista
e dall'estremismo presente nello scontro sul
terreno sindacale spesso in concorrenza con
le Leghe bianche. Ved. CGIL Cremona, Ottantanni
di lotte del movimento operaio cremonese, Cremona, 1974
[6](1837-1917)
Giovanna Angelini, Il socialismo del lavoro :
Osvaldo Gnocchi-Viani tra mazzinianesimo e istanze libertarie, Milano, 1987; Franco
Della Peruta, Osvaldo Gnocchi Viani nella storia del
movimento operaio e del socialismo, Milano, 1997
[15]"Trovandosi
in serie difficoltà economiche, artatamente aggravate dalla stessa POLPOL,
il vecchio capo socialista, al quale in un primo momento era stata promessa la nomina a
Commissario della liquidata «Casa del Popolo», e che, come scrisse Bocchini, appariva
dominato dal «terrore del domani senza pane», agli inizi del luglio 1927, in un incontro
con Bocchini, dopo aver supplicato per lennesima volta la nomina, accettò di
collaborare con la polizia fascista. [
] Ma il cedimento del vecchio socialista fu di
breve durata, poiché già a metà luglio scriveva una lettera a Pallottino con la quale
in definitiva si sottraeva allincarico fiduciario. Questa volta la POLPOL passava
alloffensiva, dando indicazioni ai suoi fiduciari allestero, infiltrati nelle
organizzazioni antifasciste, di «diffondere abilmente negli ambienti dei fuorusciti la
notizia che Costantino Lazzari il vecchio leader del socialismo italiano ha fatto il
confidente alla Polizia Italiana mediante compensi in denaro». [
] La manovra venne
avviata e, crediamo, non fu del tutto estranea alla morte, sopravvenuta di lì a poco, nel
dicembre 1927, di Costantino Lazzari."
[19]
F. Giagnotti (a cura di) Storie individuali e movimenti collettivi: i dizionari
biografici del movimento operaio, Milano, 1988; M.Revelli "Maurizio
Garino: storia di un anarchico", in "Mezzosecolo", n.4 (1984)
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