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Biografia
Francesco Fausto
Nitti
a cura di Pietro Ramella
Francesco Fausto Nitti nacque il 2 settembre 1899 a Pisa.
Il padre Vincenzo (1871-1957) era un pastore evangelico della Chiesa metodista episcopale
italiana: "[...] mio padre portò e porta nella vita di ogni giorno la luce della sua
fede; egli vive nella realtà che è in se stesso: per lui amore del prossimo, protezione
dei deboli, bontà e spirito di sacrificio per tutti, non furono mai parole vane, da
proferirsi dal pergamo, durante i culti domenicali. Furono veri atti di fede realizzati
quotidianamente. Gliene proviene una tale serenità d'animo e una tale forza anche nei
periodi più densi di preoccupazioni e più turbinosi della sua vita, che chi lo osserva
resta ammirato e commosso".
La madre, Paola Ciari (1870-1932): "È sempre stata l'angelo della nostra casa,
compagna diletta di mio padre, madre amorosissima e tenera, ha dedicato tutta la sua vita
al lavoro: collaboratrice preziosa di mio padre, educatrice di noi figli, ha sacrificato
sempre se stessa durante tutti gli anni della sua gioventù e della sua maturità"1.
Dal matrimonio nacquero cinque figli: Paolo Raffaele (1896-1965), Francesco Fausto,
Raffaele Giuseppe (1903-1951), Anna Garibaldina (1904-2002) e Lelio Aonio (1911-1958). Il
rapporto con i genitori fu coinvolgente; dalla loro fede religiosa (anche la madre
proveniva da una delle prime famiglie protestanti della Toscana) egli riconoscerà
derivargli quel rigore morale che lo caratterizzerà per tutta la vita. Dal
protestantesimo imparò soprattutto il rispetto e l'amore per la libertà dell'individuo,
come primo fondamento di progresso umano e di civiltà e l'avversione per ogni forma di
violenza. La diffidenza dell'ambiente esterno venne sempre sapientemente filtrata dai
genitori che impartirono ai figli un'educazione forse rigida, ma sempre permeata da
autentico spirito evangelico. Francesco Fausto ricorderà "che se per caso qualcuno
di noi figli proferiva parola che suonasse più aspra contro qualcuno sentiva subito su di
sé lo sguardo dolcemente severo della mamma o quello pieno di rimprovero e dolore del
padre".
La famiglia seguì il padre nei trasferimenti nelle varie città dove era chiamato a
svolgere la sua missione pastorale, prima a Torino, quindi a Livorno ed infine a Roma,
dove Francesco Fausto frequentò il Liceo classico. L'adolescenza e la gioventù
trascorsero in quest'ambiente severo e sereno allo stesso tempo, ma l'Europa viveva
momenti tumultuosi: quando compì quindici anni, scoppiò la prima guerra mondiale.
Da sempre la sua famiglia era stata legata ai destini dell'Italia, intesa come nazione
unita, libera ed indipendente. Un suo bisavolo, di cui portava il nome, insigne medico e
chirurgo di Melfi, era stato perseguitato dai Borboni per le sue idee. Tutti e quattro i
suoi figli avevano partecipato alle guerre d'indipendenza italiane e due di loro erano
stati condannati a morte. Nel 1861, durante la rivolta contadina nel Meridione, il
cosiddetto "brigantaggio", sostenuto dal legittimismo borbonico e dal clero, il
bisavolo fu trucidato, il corpo fatto a pezzi e la sua casa bruciata.
Fedele alla memoria dei suoi avi e certo che l'Italia combattesse per gli ideali in cui
credeva, il 12 marzo 1917, a diciassette anni, si arruolò come volontario ordinario senza
visita per la durata della ferma nel 13o reggimento artiglieria da campagna. Il
18 agosto, nominato caporale, raggiunse il reparto, schierato a difesa delle valli del
Cadore. Partecipò dapprima ad azioni volte a contenere l'avanzata austro-tedesca dopo la
rotta di Caporetto, ed infine alla vittoriosa controffensiva del novembre 1918. Per il suo
esemplare comportamento fu promosso al grado di sergente ed insignito della Croce al
merito di guerra. Ritornato civile, conseguì il diploma di maturità classica e, dopo
essersi iscritto alla Facoltà di Giurisprudenza all'Università di Roma, s'impiegò
presso la Banca commerciale triestina nella filiale di via del Corso.
Il periodo burrascoso del dopoguerra lo vide semplice testimone, finché l'irruzione di
una squadraccia fascista nell'abitazione del prozio Francesco Saverio Nitti, ex primo
ministro, lo indusse a prendere posizione. Costituì con altri antifascisti una società
segreta, la Giovane Italia, che stampava e distribuiva documenti di propaganda contraria
al nuovo governo presieduto da Mussolini. L'uccisione di Giacomo Matteotti lo indusse ad
uscire dalla clandestinità e ad esporsi in prima persona. Rese visita alla vedova del
deputato socialista e si recò, nell'anniversario della sua morte, a portare un mazzo di
fiori alla Garbatella, la località fuori Roma dove era stato ritrovato il cadavere,
suscitando l'interesse della polizia politica.
Il 1 dicembre 1926 fu tratto in arresto e condannato - senza processo - a cinque anni di
confino, dapprima all'isola di Lampedusa ed in seguito a quella di Lipari. Visse la
difficile vita dei confinati, sempre sottoposti alle angherie dei guardiani, in un
contesto che non offriva molte alternative. La sua situazione migliorò quando arrivarono
nell'isola, alla fine del 1927, Carlo Rosselli ed Emilio Lussu, con i quali strinse una
profonda amicizia. Insofferenti della carcerazione i tre, grazie ad importanti contatti in
Italia ed all'estero, progettarono l'evasione dal confino. Dopo un primo tentativo
fallito, l'impresa riuscì il 27 luglio 1929. Un motoscafo proveniente dalla Tunisia,
guidato da Nino Oxilia, che aveva già partecipato al riuscito espatrio di Filippo Turati,
s'avvicinò nottetempo a Lipari e, presi a bordo i tre fuggiaschi, volò verso l'Africa.
Di qui i tre raggiunsero Parigi, dove furono al centro dell'attenzione dell'opinione
pubblica mondiale, per essere riusciti a farsi beffe di Mussolini e del suo apparato
poliziesco. Ognuno di loro scrisse un racconto dell'avventurosa fuga: Nitti pubblicò
un'autobiografia che, stampata in inglese, francese, tedesco e svedese, ottenne un buon
successo di vendite.
Grazie anche alla sua adesione alla massoneria fu accolto nell'ambiente dei liberomuratori
e tenne numerose conferenze in logge d'oltralpe. Fu tra i fondatori del movimento
Giustizia e Libertà, divenendone anche uno dei responsabili. Nel frattempo aveva sposato
Ameriga D'Angelo, una maestra elementare che aveva conosciuto in Italia e che, dopo la sua
evasione, era riuscita ad espatriare clandestinamente.
Ebbe inizio la dura esistenza dell'esiliato, in cui coniugò l'impegno politico con le
diuturne difficoltà della vita quotidiana - nacquero nel frattempo due figli - cambiando
diversi lavori e lasciando infine Parigi per un impiego a Périgueux.
Nel marzo 1937 raggiunse la Spagna repubblicana, che da sei mesi era in lotta contro i
generali ribelli, e qui gli venne assegnato il comando di un battaglione di anarchici che
nelle precedenti azioni aveva subito pesanti rovesci. Riorganizzata l'unità con molta
difficoltà, partecipò al fallito tentativo della conquista di Huesca nel giugno 1937,
nel settore di Alerre e Chimillas, a fianco alla XII brigata internazionale
"Garibaldi". Il suo battaglione costituiva la punta centrale dell'attacco
repubblicano, mentre ai lati operavano due battaglioni garibaldini comandati da Italo
Battistelli e Marvin. Tutti e tre i comandanti furono colpiti (a morte Battistelli, alla
gamba Nitti ed alla testa Marvin) ed anche per questo l'attacco fallì con gravi perdite.
Quando la ferita fu guarita, dopo circa tre mesi, ritornò al suo reparto.
Prese parte alla nuova offensiva in Aragona nell'agosto 1937, partecipando prima alla
conquista della città di Codo e poi a quella di Belchite, una delle più dure e
sanguinose battaglie della guerra di Spagna. Trasferito alla 140a brigata
mista, fu coinvolto nella Grande ritirata (marzo-giugno 1938), che portò alla divisione
tra le province centrali e la Catalogna. Combattè dapprima nel settore di Caspe, poi
protesse il ritiro delle truppe repubblicane attraverso il ponte di Fraga. Trasferito ad
un'unità di artiglieria, prese parte, nel luglio, alla battaglia dell'Ebro, comandando
una batteria di cannoni dislocata di fronte a Gandesa. Nel settembre 1938, per effetto del
ritiro dei volontari dalle unità repubblicane, fu trasferito al campo di raccolta di Car
de Deu2.
Coinvolto nella Retirada3, entrò in Francia,
ma non potè riunirsi alla sua famiglia, poiché fu internato al campo di
Argelés-sur-Mer, dove ebbe il comando del settore dei reduci delle brigate
internazionali. Per aver protestato con le autorità francesi per l'inumano trattamento
riservato ai combattenti di Spagna, fu classificato homme extrémiste et dangereux
ed incarcerato per punizione nel castello di Collioure. In prigione fu promotore di uno
sciopero della fame dei detenuti, ma per la pressione della pubblica opinione fu liberato
e poté riunirsi alla famiglia.
Nel 1941, mentre stava progettando di andare in Messico, aderì ad un movimento di
dissidenza al governo filonazista di Pétain. Costituitasi a Tolosa, città in cui si era
da ultimo trasferito, una rete d'informazione clandestina legata al Bureau Central de
Renseignements et d'Action della Francia libera, prese parte, quale responsabile del
servizio Materiali e distruzioni, alle operazioni di ricevimento dei lanci con paracadute.
L'arresto nel dicembre 1941 di uno dei componenti del reseau Bertaux portò al
fermo dell'intero gruppo. Processato con gli altri nel luglio 1942 venne condannato ad un
anno di carcere, che scontò nelle prigioni di Lodéve, Mauzac e Saint-Suplice-la-Pointe.
Alla fine della pena non fu liberato ma, quale étranger dangereux, fu
inviato al campo d'internamento di Vernet d'Ariège. Rimase nel campo fino al 30 giugno
1944 quando i tedeschi prelevarono tutti gli internati rimasti, in gran parte inabili ad
ogni lavoro, per deportarli in Germania su quello che passerà alla storia come le
train fantôme. Il treno, partito da Tolosa il 2 luglio, impiegò cinquantotto giorni
per raggiungere il campo di sterminio di Dachau. Nel corso del viaggio perse però un
centinaio dei circa settecento deportati; una decina morì a seguito di mitragliamenti da
parte d'aerei alleati; il resto riuscì in modi diversi a fuggire. Nitti scappò con altri
compagni di viaggio, dopo aver tolto alcune tavole dal pavimento del vagone, calandosi
sulle rotaie mentre il convoglio viaggiava nell'Haute Marne4. Raggiunta la
Resistenza, si arruolò nel maquis di Varenne-sur-Amance fino a quando fu
smobilitato il 29 agosto. Per il suo contributo alla causa della Liberazione della Francia
fu insignito della Médaille de la Résistance.
Raggiunta la famiglia a Tolosa, nel 1946 rientrò in Italia.
Ricoprì diverse cariche in associazioni antifasciste, fu direttore della rivista
dell'Anpi "Patria Indipendente" e consigliere comunale di Roma.
Morì il 28 maggio 1974, giorno della strage fascista di Brescia.
La biografia su Triangolo Rosso
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