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Biografia
Silvio Trentin
Silvio Trentin nacque l'11 novembre 1885 a S. Donà di Piave, da una agiata
famiglia borghese di proprietari terrieri. Entrambi i genitori, Giorgio Trentin e Italia
Cian, erano figure di spicco nel gruppo dirigente cittadino, eredi di una tradizione che
univa l'impegno per la vita pubblica a un moderato riformismo sociale. Sembra che spetti
proprio ai Trentin il primato di aver istituito la prima cantina sociale d'Italia. Il
padre di Silvio, benchè socialdemocratico e ammiratore di garibaldi, era un leale
servitore della monarchia e aveva caro quanto ogni suo altro concittadino borghese il
titolo di cavaliere, conferitogli nel febbraio 1893 per i suoi pubblici servigi. Era
sindaco di S. Donà per la prima volta quando morì di polmonite il 27 aprile 1893,
all'età di 41 anni.
Fino agli 11 anni, quando entrò in collegio a Treviso, Silvio visse nella residenza di
famiglia, al numero 76 di piazza Indipendenza, al centro del paese. Ogni tanto
accompagnava la madre a Mussetta, allora lontana 3 Km. da S. Donà, dove i Trentin
possedevano in via Centenario la loro più bella tenuta agricola. Qui egli si
familiarizzò con i ritmi della campagna e i suoi problemi, avendo per compagni di giochi
i figli dei mezzadri. Nonostante la perdita del padre, a soli 7 anni, Silvio trovò
rifugio e sicurezza nella forte solidarietà del nucleo familiare. Lo zio paterno,
Antonio, ricco possidente e filantropo, si assunse la tutela della famiglia del fratello.
La madre si prodigò amorevolmente verso i tre figli: Giorgio, il maggiore, nato nel 1881;
Silvio per l'appunto; e Bruno, il minore, nato nel 1892. Aiuti e consigli vennero quindi
dagli altri parenti, tra cui gli zii materni Alberto e Vittorio Cian. Su quest'ultimo è
meglio aprire una breve parentesi: Vittorio Cian fu prestigioso docente di letteratura
italiana prima all'università di Pisa e poi a quella di Torino. Il suo destino politico
fu però opposto e ostile a quello del nipote. «Noto per la sua faziosità persecutoria»
- sono parole di Luigi Salvatorelli - Vittorio Cian , già membro fondatore nel 1910 del
partito nazionalista, seguì con entusiasmo l'avventura fascista, ricevendo in premio la
candidatura nel cosiddetto listone del 1924 e la nomina a senatore nel 1929.
Ma torniamo ora a Trentin. I cinque anni delle elementari Silvio li compì alla scuola
pubblica di S. Donà, dove guida indiscussa era il maestro Ciceri. Da lui Trentin mutuò
una visione patriottica ma liberale della storia d'Italia, in cui il risorgimento era
visto come conseguenza e adempimento della rivoluzione francese. E sempre grazie a Ciceri
egli avvertì, per la prima volta, quell'etica del dovere di stampo mazziniano che doveva
poi permeare la sua concezione della vita.
Dal 1896 al 1903 Trentin frequentò il liceo-ginnasio Canova di Treviso, ospite al
collegio Nardari. Lo dirigeva Francesco Nardari, suo futuro suocero e uomo di grande
vivacità intellettuale. Silvio in quegli anni era un ragazzo fin troppo esuberante e la
cosa mal si conciliava con il severo senso del dovere e il rigido impegno nello studio
richiesto da Nardari. Una notte del 1903 ne combinò una delle sue. Legò dei barattoli
alla coda di un gatto che, fuggendo per i corridoi, svegliò l'intero collegio. Silvio fu
così pregato di cercarsi una nuova sede per l'anno dopo.
Nell'autunno 1903, Trentin cominciò l'ultimo anno di liceo al «Marco Foscarini» di
Venezia, situato alle Fondamenta S. Caterina, a circa dieci minuti di strada dal ponte di
Rialto. La scuola godeva di ottima reputazione ed era frequentata esclusivamente dall'alta
borghesia e dalle famiglie aristocratiche. Il rendimento scolastico di Trentin non fu
così straordinario come ci si sarebbe dovuto aspettare da un giovane che a soli 21 anni
cominciò a scrivere sulle riviste di legge più prestigiose. I suoi voti finali furono
tutti 7 e 8, sufficienti però ad esentarlo dagli esami. I voti in condotta erano
esemplari. Ma Silvio non aveva perso la propria innata esuberanza e il gusto per lo
scherzo. Era di temperamento sensibile, sveglio, caldo e appassionato. Aveva il dono della
caricatura che esercitò anche per il resto della sua vita in modo arguto e spietato. Di
quel periodo la sua più grande passione fu il volo. Prima dei 25 anni aveva già
all'attivo parecchie ore trascorse sui primi fragili biplani apparsi sui cieli italiani.
Arrivò quindi il tempo degli studi di legge. La sua iscrizione all'università di Pisa
data al 9 dicembre 1904.
La fotografia, scattata ai fini dell'iscrizione, ci mostra un giovane dall'espressione
estremamente seria che pare più vicino ai trenta che ai vent'anni. Ha fronte alta e folti
capelli a spazzola, occhi profondi e sguardo fermo, mentre nell'espressione della bocca
risalta la caratteristica combinazione di risolutezza e affabilità. A prima occhiata
l'aspetto fisico del giovane Trentin non colpiva però particolarmente. Era piuttosto
piccolo di statura, ma era tarchiato, con spalle larghe e un portamento diritto. Queste
caratteristiche, unite alla voce risonante, alla sicurezza di sè e alla straordinaria
vitalità che mai gli difettarono, lo rendevano una persona affascinante.
A Pisa, tra le diverse discipline di studio impartite dalla prestigiosa facoltà di
giurisprudenza, fu il diritto amministrativo ad attrarre maggiormente Trentin. Il diritto
amministrativo infatti, come più giovane branca legale in Italia, gli offriva maggiori
opportunità di innovazione e di contributo creativo personale. Silvio aveva sempre
desiderato di appartenere all'avanguardia in tutti i campi in cui si cimentava. E così
spesso avvenne, come quando Trentin, tra primi in Italia, si interessò di legislazione
sulle comunicazioni aeree, o come quando propose una teoria della bonifica integrale che
coinvolgesse non solo la terra, ma tutto quanto l'ambiente umano e naturale in cui la
bonifica era compiuta.
Gli studi legali Trentin li portò brillantemente a termine nell'autunno 1908. La sua tesi
fu giudicata meritevole di stampa. Ma Trentin aveva già esordito come scrittore di
diritto, pubblicando il suo primo lavoro, un anno prima, ad appena 21 anni. E, una volta
deciso di intrarprendere la carriera accademica, Silvio ottenne la libera docenza in
diritto amministrativo e scienza dell'amministrazione a Pisa il 10 giugno 1910, a 24 anni.
Era allora il più giovane insegnante di diritto in Italia. Un rapido quanto suggestivo
ritratto del giovane libero docente ci viene dal grande giurista fiorentino Piero
Calamandrei. Calamandrei, di quattro anni più giovane, stava iniziando i suoi studi di
legge a Pisa quando Trentin aveva già ottenuto la libera docenza. Egli ricorda
l'espressione di Trentin, sono sue parole, come «pensosa e risoluta». Ma ciò che
maggiormente ricorda è il senso di soggezione, di rispetto venato di paura, provato da
lui e da altri giovani studenti in presenza di Trentin. Poteva persino risentire tale
soggezione semplicemente guardando una foto di Trentin del 1940, tanto intensa e vivida
era l'impressione ricevuta quando lo vide la prima volta nel 1910, nel cortile
dell'università.
Dall'autunno del 1911 Trentin insegnò all'università di Camerino, dove gli furono
affidati due corsi ordinari della facoltà di legge. Alla fine del primo anno di
insegnamento, nell'estate del 1912, fu promosso da professore straordinario al grado di
professore ordinario, il che implicava l'assegnazione permanente della cattedra.
L'anno successivo, dal settembre 1913 al luglio 1914, Trentin potè partecipare a un
seminario di specializzazione presso l'università tedesca di Heidelberg.
Questa felice esperienza di studio e di vita fu bruscamente interrotta dallo scoppio del
primo conflitto mondiale. L'Italia, come si sa, entrò in guerra il 24 maggio dell'anno
successivo.
Prima di cominciare il servizio militare come sottotenente addetto alla Croce Rossa,
Trentin trascorse l'estate del 1915 a S. Donà, trattenutovi da gravi questioni personali.
In febbraio, dopo una lunga malattia, gli era morto a soli 34 anni il fratello maggiore
Giorgio. I due erano uniti da vivo affetto e anche da molti interessi comuni. Giorgio si
era laureato in legge a Padova e come Silvio nutriva grande attenzione per i problemi
dell'agricoltura. Silvio restava ora il capofamiglia e come tale doveva occuparsi della
sistemazione dei beni tanto del padre che del fratello.
In questo periodo inoltre Trentin si fidanzò con Giuseppina Nardari, per tutti Beppa, una
donna il cui temperamento e i cui interessi completavano perfettamente i suoi. Era figlia
di Francesco Nardari, proprietario e direttore del collegio di Treviso, da cui Silvio era
stato espulso per le sue memorabili burle. Evidentemente Giuseppina aveva ereditato alcuni
caratteri paterni, perchè tutti quelli che la conobbero asseriscono che era donna di
forte volontà, ottima organizzatrice e insolitamente ricca di risorse in tempi di
avversità. Era insieme vivace e piena di spirito e possedeva quell'indefinibile qualità
che va sotto il nome di gentilezza. Come la maggior parte di quelli che la conoscevano,
anche Silvio si sentì attratto dalle sue maniere cordiali e comunicative.
Silvio e Beppa si sposarono a Treviso il 1 aprile 1916: lei aveva 24 anni, lui 30. La loro
prima residenza fu una casa recentemente acquistata da Silvio in viale dei Tigli (ora via
Cesare Battisti) qui a S. Donà.
In questa casa il 23 luglio 1917 nacque il loro primo figlio a cui, come era tradizione
familiare, fu dato il nome di Giorgio. Quattro mesi dopo, occupata S. Donà, le truppe
austriache avrebbero requisito la casa per installarvi il loro Quartier Generale.
Trentin, dalla fine del 1915 agli ultimi mesi del 1917, fu occupato con funzioni
amministrative presso la Croce Rossa. Si era offerto volontario appena iniziate le
ostilità, benchè i suoi trent'anni gli consentissero al momento di restare al suo comodo
posto di docente universitario a Camerino. Anzi, di più: Trentin avrebbe potuto essere
esonerato dal servizio militare giacchè un incidente di volo, avvenuto nel 1909 o nel
1910, lo aveva reso parzialmente sordo a un orecchio. E invece Trentin partì volontario
per quell'etica del dovere che dettò tutte le scelte cruciali della sua vita.
Tutt'altro che nazionalista, Trentin era interventista come lo erano i gruppi radicali,
democratici e socialisti riformisti con cui da tempo si identificava. La guerra, per
Trentin, doveva essere compimento del Risorgimento, con la restituzione di Trento e
Trieste all'Italia, ma anche doveva provocare la distruzione dell'autocrazia
austro-tedesca e riaffermare il diritto all'autodeterminazione dei popoli.
Nell'ultimo anno di guerra Trentin fu trasferito dalla Croce Rossa al I° Gruppo Speciale
Informazioni della III Armata. Si trattava di un reparto aereo adibito alla ricognizione
fotografica e al collegamento con gli informatori che agivano in territorio nemico.
Raffaello Levi, amico del tempo, rivela che Trentin fu assai riluttante, nel novembre del
1919, a presentarsi come candidato dell'Associazione nazionale combattenti perchè,
secondo lui, troppo poco era il tempo in cui aveva prestato servizio attivo al fronte. E
in effetti Trentin entrò in azione per la prima volta, probabilmente, solo nella tarda
primavera del '18. Ma quei pochi mesi furono contrassegnati da imprese memorabili.
Durante la terribile battaglia del Solstizio, nel giugno 1918, che costò all'Italia
90.000 tra morti e feriti e in cui la stessa S. Donà fu completamente rasa al suolo,
Trentin fu costretto a sganciare bombe sulla propria casa, ancora sede del comando
austriaco. Già da qualche mese però egli poteva vantarsi di aver partecipato alla più
lunga ricognizione aerea della guerra. Da bordo di un dirigibile fu infatti fotografata
l'intera linea del fronte dal Trentino all'Adriatico. Questa missione gli procurò il
primo di una serie di encomi e medaglie. Una di queste medaglie gli fu assegnata per il
coraggio che lui e i compagni di equipaggio dimostrarono nella notte tra il 21 e il 22
agosto 1918. Nel rifornire i nostri informatori nel Friuli, il loro Caproni fu colpito
ripetutamente dalla contraerea nemica, ma ciò nonostante l'aereo riuscì a rientrare alla
base di Marcon. A quel tempo si parlò molto anche di una spericolata manovra di Trentin
che in volo si arrampicò sull'ala del suo biplano per spegnere un incendio.
Una settimana prima della fine della guerra Trentin compì la sua missione forse più
pericolosa. Come esperto di ricognizione e perfetto conoscitore della topografia della
zona, gli fu ordinato di guidare un attacco di bombardieri contro una batteria austriaca
che, posizionata alla periferia di S. Donà, seminava la morte nelle nostre linee.
L'attacco, compiuto in volo notturno a bassissima quota, ebbe pieno successo e
l'artiglieria nemica fu messa a tacere. La cosa però non finì lì per Trentin. Quando S.
Donà venne liberata, egli volle recarsi sul posto. Rimase sconvolto da ciò che vide e,
rivoltosi all'amico Vittorio Ronchi, disse: «Ho fatto il mio dovere di combattente,
ma quale angoscia mi è rimasta nel cuore. Bisogna veramente compiere ogni sforzo per
evitare le guerre e ogni forma di brutale violenza».
In Trentin e in milioni di altri uomini la guerra aprì una lacerazione profonda, fu
un'esperienza devastante dopo la quale non poterono essere più gli stessi. Negli spiriti
migliori, nelle coscienze più attente la guerra fu però anche un terreno fertile da cui
far scaturire nuovi sentimenti di solidarietà e di rispetto per l'individuo, insieme ad
una acuita sensibilità per il sociale, per i bisogni e le aspettative della gente. La
guerra insomma costituì la molla che portò Trentin e altre coscienze sensibili
all'attiva partecipazione politica. Non fu comunque per Silvio una scelta facile. Egli
aveva sì chiaro il dovere di contribuire alla ricostruzione della nazione italiana in
modo da garantirne l'integrità politica ed economica. Ma pensava di farlo nella veste di
tecnico. Sottovalutando se stesso, reputava di non avere la stoffa del politico. E così
il suo primo contributo, una volta terminata la guerra, fu proprio nella veste di tecnico,
quando si ritrovò a svolgere un ruolo fondamentale nella creazione dello strumento più
importante per lo sviluppo della regione, ossia l'Istituto federale di credito per la
ricostruzione del Veneto, istituito nel marzo 1919.
Nel novembre 1919 però le sue resistenze vennero meno davanti alle preghiere degli amici
e si candidò alle elezioni politiche nella lista della Democrazia sociale veneziana. Si
trattava di un cartello elettorale che comprendeva raggruppamenti della sinistra
democratica riformista. Trentin fu l'unico eletto della lista e il suo fu quindi
soprattutto un successo personale.
Sul finire del 1919 ci furono altre novità nella vita dei Trentin: presero stabile
domicilio a Venezia, abitando in un appartamento al secondo piano di palazzo Manin, dove
pure aveva sede la Banca d'Italia. Il bell'edificio del XVI secolo si trovava in calle
larga Mazzini, a pochi passi dal ponte di Rialto. L'altra novità fu la nascita del
secondogenito, una bambina, a cui fu dato il nome di Franca.
Veniamo ora alla milizia parlamentare di Trentin. La sua permanenza a Montecitorio fu
breve. Durò solo un anno e quattro mesi per la fine anticipata della legislatura, ma si
contraddistinse subito per l'alto profilo tecnico e morale, nonchè per l'eccezionale mole
di risultati.
Due sopra tutti vanno ricordati: il primo fu l'istituzione dell'Ente di rinascita agraria
per le provincie di Venezia e Treviso, per il quale Trentin scrisse lo statuto di
fondazione; il secondo fu il decreto che autorizzava per cinque anni la spesa per la
bonifica integrale di circa 75.000 acri di terreni paludosi che si estendevano tra i fiumi
Lemene e Livenza.
L'esperienza parlamentare di Trentin si chiuse nel maggio del 1921. Non fu rieletto in
quelle elezioni anticipate che segnarono la sconfitta di tutte le forze politiche
intermedie.
Il 1921 fu un anno segnato dal dolore per Trentin. Il piccolo Giorgio fu a lungo tra la
vita e la morte per una paurosa caduta dalla finestra di casa. Gli morì improvvisamente
il cognato ventottenne. Perse l'amico più caro, il compagno di lotta politica che Trentin
chiamava «mia guida, mio maestro di vita»: Mario Marinoni, un uomo di
straordinarie virtù morali e intellettuali che Venezia intera salutò come il «santo
laico».
La morte di Marinoni aveva ridestato quella vena di pessimismo nella personalità di
Trentin che lo induceva a considerare sofferenza e infelicità come elementi centrali
della vita. Ma era altrettanto tipico di lui riprendere con vigore l'azione pratica nel
momento esatto in cui le circostanze sembravano escludere ogni possibilità di successo.
In quei mesi il principale impegno di Trentin divenne l'organizzazione del famoso e ormai
storico convegno sulle opere di bonifica che si tenne a S. Donà dal 22 al 25 marzo 1922.
Armato di progetti concreti Trentin, in un discorso poi ricordato a lungo da amici e
avversari, dava una nuova interpretazione e quindi nuova dimensione al problema della
bonifica agraria.
Nel frattempo Trentin decise di tornare all'insegnamento. Il 24 ottobre 1921 vinse il
concorso per la cattedra di diritto amministrativo a Macerata, dove insegnò due anni.
Per certi aspetti questa sua decisione fu una perdita per la democrazia italiana perchè
egli, secondo il suo costume, prese questo impegno professionale con estrema serietà
considerando l'adempimento degli obblighi di docente come una responsabilità prioritaria.
Questo senso austero del dovere esigeva che uno dedicasse la vita al bene comune ed
esigeva anche la fermezza di non accettare compromessi. Per questa fede, ad esempio,
Trentin aveva rinunciato, dopo l'elezione a deputato, alla professione di avvocato e alle
numerose consulenze che egli riteneva incompatibili con l'esercizio del mandato
parlamentare. Di conseguenza, per far fronte alle spese di famiglia, aveva finito per
trovarsi gravemente indebitato verso molti amici devoti.
Alla luce di questi atteggiamenti ben si comprende come l'antifascismo di Trentin sia
stato una rivolta morale prima ancora che politica. Con stupore e con sgomento Trentin
osservò che la conquista fascista del potere coincideva con una crisi di valori, una
crisi di fede in principi ai quali egli, e altri come lui, avevano consacrato la vita.
Questa crisi era particolarmente manifesta nella pronta adesione che le oppressive leggi
fasciste trovavano in persone a cui Trentin era solito guardare come modelli e guide. Ma
anche amici, membri della sua stessa famiglia, colleghi furono tra i primi ad abbracciare
la causa del fascismo.
Trentin reagì comunque da par suo. Aumentò anzichè diminuire la sua attività di
oppositore, partecipò sistematicamente a tutti i tentativi di formare un grande partito
liberaldemocratico antitetico negli uomini e negli ideali al nuovo regime. E il regime
Trentin osò sfidarlo apertamente quando, con alcuni amici di S. Donà, il 4 novembre 1924
si recò a Fratta Polesine per rendere omaggio alla tomba di Giacomo Matteotti.
All'entrata in cimitero lui e gli amici furono costretti ad esibire i documenti ai
carabinieri. Questo affronto alla sua dignità di uomo libero si ripetè agli inizi del
1925 allorchè uno squadrista veneziano gli impedì di entrare a Ca' Foscari per svolgervi
la sua lezione.
Era dal 1923 che Trentin insegnava all'ateneo veneziano, la qual cosa gli aveva consentito
di essere nuovamente vicino ai vecchi compagni di lotta. Trentin però percepiva con
sempre maggiore insofferenza la situazione paradossale di essere al contempo un
funzionario di quello stesso governo di cui era ormai un irriducibile avversario. Così
quando il regime emanò il 24 dicembre 1925 un decreto che privava tutti gli impiegati
dello Stato della loro libertà politica ed intellettuale Trentin decise di dimettersi. Lo
fece il 7 gennaio 1926 con una lettera che val la pena di citare quasi per intero:
«Ill.mo Signor direttore
ragioni d'ordine personale e soprattutto il dubbio (quasi direi la certezza) di non saper
conciliare il rispetto delle mie più intime e salde convinzioni di studioso del diritto
pubblico con l'osservanza dei nuovi doveri di funzionario che mi vengono imposti dalla
legge 24 dic. 1925, n. 2.300, in questi giorni pubblicato dalla Gazzetta Ufficiale, mi
inducono a rassegnare le mie dimissioni da professore stabile presso codesto Istituto
Superiore».
La scelta di Trentin nelle università italiane fu seguita solo da Salvemini e Nitti,
mentre altri due docenti furono allontanati dall'incarico.
Insieme alle dimissioni, Trentin maturò l'idea dell'esilio. Agli amici che cercavano di
dissuaderlo rispondeva: «Non posso rimanere in Italia. Se fossi un professore di
matematica forse potrei anche restare, ma come professore di diritto, come posso rimanere
qui ad insegnare quando l'attuale regime è contrario a tutto quanto io credo? Come posso
assistere qui impotente che la forza del diritto sia sostituita con il diritto della
forza»?
I Trentin attraversarono il confine con la Francia il 2 febbraio 1926. Li attendeva il
loro nuovo domicilio, Ville du Cedon, una bella tenuta agricola non lontana da Auch, nel
sud-ovest francese. Trentin l'aveva acquistata qualche settimana prima, dopo aver venduto
tutti i suoi beni in Italia. Si illudeva che la caduta del fascismo sarebbe presto
avvenuta. In realtà dovette attendere il settembre del 1943 per rimettere piede in
patria, quasi diciotto anni dopo.
Gli anni francesi furono senz'altro esaltanti per Trentin che sviluppò il suo pensiero
politico in modo straordinariamente originale e fecondo. Intensa e continua fu la sua
attività di saggista. Nel 1929 Trentin seppe ancora una volta anticipare tutti. Con la
sua opera Les transformations recentes du droit public italien, come gli riconobbe
Calamandrei. Trentin attuò in assoluto la prima seria analisi scientifica
dell'ordinamento giuridico fascista che «i costituzionalisti italiani per servilismo
o per paura continuavano a rappresentare nei loro libri come una perfetta incarnazione
dello Stato di diritto».
Come l'attività pubblicistica, anche quella politica fu continua ed instancabile. Sebbene
in disparte nella provincia francese, lontano da Parigi dove risiedeva il nucleo centrale
dell'antifascismo italiano, Trentin fu sempre considerato e ascoltato come un leader,
talvolta come guida di un'organizzazione, più spesso come guida morale. Lo fu dapprima
nel partito repubblicano e nella Lega italiana dei diritti dell'uomo; lo fu quindi nella
cosiddetta Concentrazione antifascista e nel movimento Giustizia e Libertà; lo fu infine
nella resistenza francese e in quella italiana, sino - possiamo dirlo - agli ultimi giorni
della sua vita. Suoi interlocutori furono uomini altrettanto eccezionali come Carlo
Rosselli, Emilio Lussu, Gaetano Salvemini e poi, via via, altri fuoriusciti come Francesco
Volterra, Ruggero Grieco, Alberto Tarchiani e altri. Se poi dovessimo indicare un solo
elemento distintivo nell'azione politica di Trentin in quegli anni, segnaleremmo il tenace
perseguimento del fronte unico antifascista. Fu quasi naturale perciò che proprio a
Trentin toccasse il compito di sottoscrivere per Giustizia e Libertà il cosiddetto patto
di Tolosa del 1941 che ripristinava, con il partito comunista., l'unità d'azione perduta
con lo sciagurato accordo Molotov-Ribbentrop del 1939.
Sul piano strettamente privato ed umano il periodo francese fu anche contrassegnato da
sofferenze e sacrifici.
Il tempo di Ville du Cedon durò poco. Trentin aveva investito in questa impresa agricola
quasi tutto il capitale che si era portato dall'Italia. Pensava in questo modo di
sostentare la famiglia cresciuta di numero con la nascita di Bruno nel dicembre 1926. E
pensava, con questo forte investimento, di attuare degli esperimenti agrari. Dal punto di
vista tecnico i suoi sforzi furono ampiamente premiati, ma la crisi monetaria che colpì
la Francia in quell'anno e il grosso immobilizzo finanziario misero nei guai Trentin
proprio all'inizio della sua avventura. Di conseguenza egli vendette la proprietà e si
trasferì in un modesto appartamento ad Auch, nel centro della città. Ciò avvenne
probabilmente entro l'aprile del 1928. Con un'oculata gestione dei pochi risparmi rimasti
riuscì a mantenere la famiglia per un altro anno.
Quell'estate del 1928 - come dicevo all'inizio di questa conversazione - Trentin soffrì
il tormento della nostalgia. Lo preoccupava soprattutto l'idea che i contatti con gli
amici di Venezia e S. Donà venissero meno. Le sue lettere anche le più innocenti, come
lui diceva, si perdevano per strada. Le persone che dall'Italia andavano a fargli visita
erano poi persuase dalle autorità di polizia di non ritornarvi. Ma era ogni movimento di
Trentin che veniva minuziosamente controllato dall'OVRA, la polizia segreta fascista. I
suoi scritti arrivavano in Italia solo per via clandestina e poi circolavano alla macchia.
Secondo Aldo Garosci, Trentin riuscì però una volta a farsi beffa dei suoi controllori.
Inviò copie del suo già citato Les trasformations recentes... a diverse
biblioteche italiane che le accettarono, ingannate dal titolo inoffensivo.
Se dunque, giocoforza, Trentin ebbe solo sporadicamente il conforto degli amici veneti, è
altrettanto vero che costoro gli dimostrarono sempre una commovente dedizione. Grazie al
fratello minore, Bruno, l'unica persona che poteva avvicinarlo senza sospetto, lo
aiutarono economicamente nei momenti più difficili; nè trascurarono poi il rapporto
politico, essendo essi stessi membri di Giustizia e Libertà. Ve li voglio ricordare i
nomi di questi amici, persone discrete che, nulla ostentando, hanno un debito con la
storia: sono Camillo Matter di Mestre, Angelo Fano di Venezia, Galliano Corazza di Santo
Stino di Livenza, i sandonatesi Baron, Boccato, Picchetti, Rizzo, Emilio Guerrato, i
fratelli Janna, Gianni Nardini, Nino Perissinotto.
Dicevamo in precedenza che Trentin nondimeno riuscì a porre salde radici nella patria
d'adozione. Leggeva e scriveva il francese e lo parlava correttamente, in modo quasi
impeccabile. Nonostante il forte accento italiano il suo era un francese molto distinto.
Grazie alla padronanza della lingua e alla conoscenza del pensiero giuridico francese,
Trentin non ebbe difficoltà a intrattenere ottimi rapporti con i giuristi d'Otralpe,
alcuni dei quali divennero suoi sinceri amici.
L'esperienza fondamentale nella vita privata di Trentin in quel periodo fu però un'altra:
fu l'umile lavoro di manovalanza che Silvio esercitò per circa tre anni in una tipografia
di Auch. Si adattò a tagliare la carta, trasportare casse e scatoloni, portare il
materiale agli altri operai. Trentin non si sentì per nulla avvilito da questo lavoro che
anzi considerò come una delle parentesi più serene della sua vita. Insistè sempre per
essere trattato sotto tutti gli aspetti come chiunque altro alla tipografia.
Nel maggio 1934 Trentin fu però licenziato, dopo un periodo di tensione con la proprietà
della tipografia. Per cinque o sei mesi la situazione finanziaria dei Trentin fu davvero
sisperata. Beppa dovette vendere i gioielli di famiglia e gli antichi mobili veneziani che
si era portati dall'Italia. Compì diversi viaggi in patria per chiedere l'aiuto di
parenti e amici. Fortunatamente giunse in Francia a soccorerli Camillo Matter con una
consistente somma di denaro. Silvio potè così imbarcarsi in una nuova avventura:
acquistò una piccola, ma nota libreria di Tolosa, la Librairie du Languedoc, e
si trasferì con la famiglia nella bella città verso la fine del 1934.
La libreria, con Trentin proprietario, divenne un vero salon, dove si scambiavano idee e
si lanciavano nuove imprese intellettuali, il che però avveniva a scapito della vendita
dei libri. Se Trentin riuscì a trarne di che vivere fu solo perchè diversi professori
dell'università e alcuni personaggi influenti di Tolosa raccomandarono espressamente a
studenti e amici di comprare i libri da lui. Ma la libreria di Trentin divenne anche
centro di azione politica al punto che, durante la guerra civile spagnola, fu - secondo
Emilio Lussu - «una specie di ambasciata, la sede dei collegamenti irregolari fra la
Francia e Barcellona». Più tardi, dopo la caduta della Francia e l'avvento del regime di
Vichy, divenne - per dirla con Jean Cassou - «le centre principal pour l'intelligentsia
(antifasciste) de Toulouse». La piccola bottega aveva anche un qualcosa che non tutti
conoscevano: uno scantinato segreto, dove, durante la resistenza, trovarono nascondiglio
cospiratori antifascisti e agenti inglesi e francesi per lunghi periodi di tempo. Inoltre
la cave si prestava benissimo alle riunioni clandestine.
Oggi, davanti alla libreria, una lapide - ovviamente in francese - recita:
«In questa casa visse dal 1934 al 1943 Silvio Trentin. Esiliato
volontario, iniziatore della lotta antifascista e del movimento clandestino di liberazione
dell'Europa, capo della resistenza italiana nel 1943, catturato dal nemico e morto a
Treviso il 12 marzo 1944».
Devo forzatamente tralasciare tutto il lavoro politico e organizzativo, tutta l'incessante
ricerca intellettuale che vanno fino al suo ritorno in Italia. Meritano tuttavia di essere
citati alcuni episodi che di Trentin confermano il suo spessore umano, la sua statura
morale, il suo coraggio personale.
Della guerra di Spagna ho appena detto il ruolo che ebbe la sua libreria. Aggiungo solo
che al di là dei Pirenei si recò almeno quattro volte, come corrispondente di guerra di
Giustizia e Libertà e consulente militare. Aveva allora 51 anni.
Il 9 giugno 1937 Trentin provò ancora una volta il dolore e lo sgomento per la perdita di
una persona cara, una perdita che apparve subito una terribile tragedia per G. L. e
l'intero movimento antifascista. Quel giorno, a Bagnoles de l'Orne, sicari armati da Roma
assassinarono Carlo Rosselli e il fratello Nello. Tre giorni dopo, in un articolo, Trentin
svelò il suo dolore:
«Scrivo con l'animo in tumulto, più che per adempiere a un dovere - chè mi manca la
forza di farlo - per gridare il mio orrore, il mio sgomento, la mia indignazione, per dar
sfogo al mio tormento nostalgico, per mitigare la violenza incontenibile della mia
passione, della mia ribellione, del mio odio mortale».
Il 24 giugno a Tolosa, davanti a 20.000 persone, Trentin lanciò il suo atto d'accusa
contro le alte gerarchie fasciste. La risposta minacciosa del regime non si fece
attendere. Roberto Farinacci, il ras di Cremona, disse che, se Trentin non avesse
desistito da questa violenta propaganda contro il regime fascista, avrebbe subito la
stessa sorte dei Rosselli. Una telefonata anonima, proveniente dal consolato di Tolosa,
avvertì che c'era in atto un complotto contro Trentin. Quella notte un amico armato
vegliò in casa Trentin, ma fortunatamente non accadde nulla.
Quanto fosse profondo il senso della lealtà e del dovere in Trentin l'abbiamo potuto ben
conoscere. E proprio per un genuino sentimento di lealismo verso la sua seconda patria,
cui tanto doveva, Trentin chiese di arruolarsi nell'esercito francese nel settembre 1939.
Restò deluso quando il governo Daladier respinse la sua domanda, assieme a quella di
altri esiliati italiani, per non inimicarsi Mussolini (a quell'epoca l'Italia era non
belligerante). A parte l'età - aveva allora 54 anni - Trentin difficilmente poteva
prestare servizio attivo per le sue cagionevoli condizioni di salute. Soffriva di vari
malanni che lo avrebbero accompagnato per il resto della sua vita. Costringendolo a volte
all'inattività, lo incupivano e gli creavano un forte senso di frustazione. Il più grave
di questi malanni era un disturbo cardiaco che si manifestò per la prima volta
nell'aprile 1941. Nello stesso 1941 a Trentin furono offerti due incarichi universitari in
America.
Avrebbe dovuto e potuto accettarli, dato che ormai nella lotta per la libertà aveva speso
copiosamente i suoi anni, la sua salute. Lì in America si erano rifugiati amici come
Alberto Tarchiani, Franco Venturi, Marion Rosselli. Per la verità Trentin prese in seria
considerazione la cosa e fu sul punto di dire di sì. Ma «una crisi di coscienza», come
lui ebbe a dire, lo indusse a restare in Francia. Il senso del dovere quindi prevalse
ancora una volta sul desiderio di sicurezza per sè e la famiglia.
Passarono così altri due anni colmi di pericoli e sacrifici, ma anche di passione civile
e di impegno umano nella resistenza francese. E finalmente, con la caduta del fascismo il
25 luglio 1943, venne il tempo di tornare in patria.
Silvio ormai era un uomo malato, ma del combattente aveva intatto tutto l'entusiasmo e la
grinta.
A fine luglio o ai primi di agosto tentò di rientrare clandestinamente in Italia con un
viaggio che aveva del rocambolesco: attraversare i Pirenei e la Spagna, giungere in
Nordafrica e di lì paracadutarsi in Italia. Forti dolori al petto e un grave attacco
d'asma lo costrinsero a rientrare a Tolosa.
In agosto però il governo Badoglio tolse le restrizioni alla frontiera e Trentin potè
rientrare legalmente in patria. Con lui viaggiavano in treno la moglie, i figli Giorgio e
Bruno, mentre Franca restò in Francia.
Il 4 settembre furono a Mestre, il giorno dopo a Treviso, dove una folla festante si recò
spontaneamente ad accoglierlo alla stazione.
Il 6 settembre finalmente Trentin arrivò nella sua città natale. Fu un'accoglienza
trionfale quella che gli riservarono gli abitanti di S. Donà. Silvio naturalmente era
felice ed emozionato di rivedere i vecchi amici, ma non fu dello stesso umore con tutti.
Si rifiutò di stringere la mano a diverse persone che avevano aderito al partito
fascista, mentre il saluto al parroco, mons. Luigi Saretta, fu corretto ma freddo. La
seconda visita a S. Donà fu di ben altro tenore. Una settimana dopo l'armistizio dell'8
settembre, con il territorio controllato dai tedeschi, la popolazione terrorizzata gli
chiuse tutte le porte. Essere respinto in questo modo, nonostante le circostanze del
pericolo, fu una delle esperienze più penose della vita di Trentin.
Dal 9 settembre al momento dell'arresto, la sera del 19 novembre, Trentin lavorò in prima
linea all'organizzazione politica e militare della resistenza nel Veneto.
A Treviso e Feltre tentò invano di far distribuire dai comandi militari le armi alle
nascenti forze della resistenza. A Padova partecipò alle prime riunioni organizzative del
Comitato di liberazione nazionale per il Veneto. Si spostò poi a Mira, dove la casa della
famiglia Fortuni, per le successive quattro o cinque settimane, divenne il suo quartier
generale.
Fra il 15 e 25 settembre il professor Ferrari - questa era la sua falsa identità -
intervenne a tutta una serie di incontri in Bavaria, un piccolo centro sulla strada tra
Bassano e Treviso. Qui si posero le basi per costituire nel Veneto un comando militare
unificato delle forze della resistenza.
Il 23 ottobre Trentin scrisse una lunga lettera a Lussu, in cui declinava l'invito ad
entrare nella direzione centrale del CLN perchè il suo posto di battaglia era qui nel
Veneto e non nella capitale.
«Ognuno si aspettava e desiderava che Trentin facesse ogni cosa, tutti si
appoggiavano alla sua inestimabile esperienza, alla sua intelligenza, alla sua autorità
morale», ricorda Giuseppe Zwirner. E Tessari, forse il principale storico militare
della resistenza veneta, riconosce a Trentin il merito di aver dato l'impulso decisivo al
movimento partigiano e soprattutto quello di aver fatto valere la superiorità del comando
politico su quello militare.
Il comando politico, fino al dicembre 1943, aveva la sua centrale a Padova; Trentin ne era
membro, insieme ad Egidio Meneghetti, per il Partito d'azione. Il grande latinista
Concetto Marchesi, che ne era membro per il partito comunista, ricordava con commozione
Trentin, «i suoi sguardi - lo cito testualmente - che indugiavano nel frugare il segreto
sentimento dell'amico, la malinconia del volto che voleva schiudersi alla gioia
dell'aperto consenso, le strette di mano che tardavano ad allentarsi, come ad assicurarsi
il tacito accordo dell'anima».
Il 1 novembre 1943, dalle pagine di «GL», il giornale degli azionisti di Padova, Trentin
lanciò il suo «Appello ai Veneti guardia avanzata della nazione italiana». Vi si
leggeva: «E' il momento di darsi alla macchia, di raggrupparsi, di ricominciare insieme
nella fraternità di una libera federazione di pionieri della nuova Italia, di armarsi, di
battersi e, se occorre, di morire».
Verso la fine di ottobre Trentin si trasferì da Mira a Padova per impegnarsi più
intensamente sul fronte politico e della propaganda. Lo ospitarono i coniugi Monaci, in un
appartamento nel cuore della città, e lì lo raggiunse il figlio sedicenne Bruno. Dina
Monaci ricorda che Trentin parlava spesso con nostalgia delle sue esperienze in Spagna,
mentre soffriva intensamente al pensiero che egli difficilmente avrebbe potuto vedere la
liberazione d'Italia. Il suo sdegno verso i fascisti invece si era trasformato in odio
implacabile e selvaggio. Dina restava stupita di sentire una persona «così semplice e
buona, così eccellente» - sono sue definizioni - fantasticare di vendette e stermini
atroci.
La sera del 19 novembre agenti fascisti irruppero nell'appartamento dei Monaci, arrestando
tutti i presenti. Silvio e Bruno furono sottoposti a interrogatori per due giorni nella
sede centrale della polizia e quindi trasferiti al carcere dei Paolotti. Fortunatamente al
momento dell'arresto erano riusciti ad ingoiare le carte più compromettenti. Così la
polizia fascista, ancora disorganizzata, si ritrovò ad avere in mano, come prigionieri,
un uomo malato e suo figlio con l'unica imputazione di possesso di documenti falsi e li
rilasciò.
Trentin uscì di prigione, ai primi di dicembre, debilitato dai suoi disturbi cardiaci. Un
grave attacco di angina pectoris lo colpì proprio nel giorno del rilascio e subito, il 6
dicembre, fu ricoverato all'ospedale di Treviso. Qui rimase poco più di due mesi, fino
all'11 febbraio 1944, quando i violenti bombardamenti aerei sulla città ne consigliarono
il trasferimento in un'altra clinica, a Monastier, Trentin lottò tenacemente contro il
male, ma non poteva illudersi sull'esito finale. Enrico Opocher ricorda che «era calmo e
preparato a morire». In realtà tutto era pronto ad accettare serenamente, come lui
stesso ebbe a dire a Opocher, «purchè l'Italia si salvi».
Nei due mesi di dicembre e gennaio in cui fu degente all'ospedale di Treviso, Trentin fece
il possibile per mantenere i contatti con i compagni di lotta che, in effetti, quasi
quotidianamente gli facevano visita . Riuscì persino a dettare a Bruno un abbozzo di
costituzione per l'Italia del dopoguerra, sulla falsariga di quello per la Francia,
scritto un anno prima, e che costituiva la base del suo progetto di democrazia socialista
federale. Riuscì inoltre a scrivere un ultimo Appello ai lavoratori delle Venezie. Nel
documento si riaffermava che la rivoluzione federalista e socialista doveva
necessariamente svilupparsi su scala mondiale. Trentin chiudeva con queste parole:
«Vivano i popoli per la loro redenzione! Viva l'Italia libera!». Il suo sogno infatti
non era solo la redenzione dal nazifascismo, ma da tutte le forme di oppressione e di
degradante sfruttamento.
Voglio ora lasciare alle parole di Frank Rosengarten il compito di ricostruire gli ultimi
giorni di vita di Trentin, in quella clinica Carisi di Monastier, dove si trovava dall'11
febbraio 1944:
«La sede della clinica - scrive il biografo americano - era una delle ville
settecentesche tipiche della zona ... Dalla finestra della camera, al secondo piano, si
poteva contemplare il paesaggio familiare della grande pianura veneta. Era ancora inverno,
ma fra la fine di febbraio e i primi di marzo, il tempo cominciava già a cambiare. C'era
nell'aria un fremito di primavera accolto da Trentin con gioia e con la spontanea promessa
a Beppa che «quando sbocceranno i primi fiori li porteremo in camera nostra».
L'11 marzo l'amico Camillo Matter andò a trovare Trentin. Durante la conversazione
Trentin ebbe una «crisi tremenda» di dolori cardiaci. Parlarono soprattutto di problemi
politici. Trentin disse ... che voleva andare a Roma, per dedicarsi all'organizzazione
della resistenza in questo settore. ... Manifestava tutto il proprio risentimento contro
molti vecchi amici veneziani che per sopravvivere si erano iscritti al Partito fascista o
si erano adattati in qualche modo più o meno compromettente al regime. Il suo sdegno
arrivava a colpire anche persone per le quali in altri tempi aveva avuto la massima stima,
come lo storico ed economista Gino Luzzato, la cui condotta politica nel ventennio
fascista era stata tutt'altro che ineccepibile. Fino alla fine, osserva Matter,
l'intransigenza di Trentin restò così rigida da confinare con l'intolleranza.
... Quando il 12 marzo sopraggiunse la fine v'erano accanto a lui solo due persone, Beppa
e Giorgio, il figlio maggiore. (Al sopraggiungere dell'attacco fatale) passò diverse ore
di violenti dolori. Benchè confortato dalla presenza della moglie e del figlio, aspettava
con impazienza alcuni amici che non potevano venire, e rimpiangeva che l'opera che
lasciava fosse incompiuta. Per un attimo, il suo volto fu alterato ed espresse
un'angosciata disperazione. Ma con l'avvicinarsi della fine, riprese un'espressione di
equilibrio e serenità.
Silvio Trentin fu sepolto a S. Donà di Piave due giorni dopo la morte, la sera del 14
marzo. Come corteo funebre c'erano solo Beppa, Giorgio, Bruno e Camillo Matter, che
camminarono verso il cimitero al seguito di un carretto, su cui giaceva la bara. Per tutta
la strada, fino al cimitero, la polizia fascista, nervosa e preoccupata perchè le
autorità di Padova avevano dato ordine di non lasciar passare il funerale attraverso il
centro di S. Donà, per paura di possibili dimostrazioni, sorvegliò la famiglia e il più
fedele amico di Trentin. Le esequie si svolsero in un'atmosfera di sospetto e quasi di
clandestinità. Ma nessuna menzogna, nessuna repressione fascista avrebbe potuto far
dimenticare che Silvio Trentin aveva lottato con tutte le sue forze per la causa della
liberazione dell'umanità».
(biografia di Moreno Guerrato , commemorazione
ufficiale nel 50° anniversario della morte di S. Trentin, San Donà di Piave 12 marzo
1994. N.B.: Il documento si fonda interamente sulla mirabile biografia scritta da Frank
Rosengarten, Silvio Trentin dall'interventismo alla Resistenza, Milano, Feltrinelli, 1980)
Centro studi e
ricerca "Silvio Trentin" (biografia, bibliografia,
documenti, immagini)
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