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Biografia
Vincenzo Moscatelli (detto Cino)
Nacque a Novara il 3 febbraio 1908, nel rione operaio di
Sant'Andrea, da Enrico e da Carmelita Usellini. Quarto di sette figli; padre ferroviere,
madre casalinga, crebbe nell'ambiente della periferia novarese e iniziò a frequentare fin
da giovanissimo il Circolo ferrovieri, "covo di 'rossi', di rivoluzionari",
ascoltando i discorsi e "infiammandosi". In V elementare provocò uno sciopero,
che ben presto coinvolse anche gli studenti delle scuole superiori, per protestare contro
la mancanza di legna per riscaldare le aule. Dopo la VI elementare iniziò a lavorare e
seguì contemporaneamente, per due anni, un corso professionale serale. Divenuto,
"nel clima rovente della 'Novara rossa' del primo dopoguerra", il "capo dei
fanciulli proletari" del quartiere, che si battevano contro i "balilla",
nel settembre 1920, appena dodicenne, durante l'occupazione delle fabbriche, partecipò
all'occupazione della Rumi, in cui lavorava come garzone; nell'estate del 1922, durante la
"battaglia di Novara", si distinse assieme ai suoi compagni apprendisti e ad
altri operai della Scotti e Brioschi nella difesa a sassate della Camera del lavoro e di
circoli proletari dagli assalti delle squadracce fasciste. Da allora si impegnò sempre
più nella battaglia contro la nascente dittatura e in difesa degli interessi della classe
operaia.
Nel 1925 organizzò con uno stratagemma uno sciopero degli apprendisti alle Officine
meccaniche novaresi. In quel periodo, introdotto da Giuseppe (Pinéla) Rimola, si iscrisse
alla gioventù comunista e fu incaricato dell'attività di stampa e propaganda. Conobbe
Secchia, D'Onofrio, Dozza, Li Causi e altri dirigenti del partito con cui svolse intensa
attività clandestina tra operai e braccianti. L'anno seguente si licenziò dalle Omn e
trovò, assieme a Rimola, lavoro a Milano, all'Alfa Romeo, dove già era occupato
"Pinin" Giarda, segretario della Sezione metallurgica e primo segretario della
sezione comunista di Novara.
Perseguitato dai fascisti, in seguito a uno sciopero, si occupò, sempre con Rimola, alla
Cerutti di Milano, dove continuò a operare clandestinamente. L'organizzazione comunista
novarese in quel periodo svolse un notevole lavoro politico, soprattutto in direzione
delle mondine, sotto la guida di Girolamo Li Causi (che si faceva allora chiamare Cian So
Lin e che scrisse con lo pseudonimo di Elio Termini, per la rivista del Pc "Lo stato
operaio", un dettagliato resoconto di quelle lotte, che sarebbero sfociate nel grande
sciopero nelle risaie del giugno 1927). Nel settembre del 1927, durante le manifestazioni
di protesta per l'esecuzione negli Stati Uniti degli anarchici Sacco e Vanzetti, provocò
un corto circuito nella cabina elettrica della Cerutti, dando luogo a uno sciopero.
Sospettato e gravemente compromesso, espatriò clandestinamente in Svizzera per
frequentare, in una baita a Paswang, nei pressi di Basilea, una scuola di partito, diretta
da Togliatti, Longo e Grieco. Arrestato dalla polizia svizzera con gli altri partecipanti
al corso, fu condannato a tre giorni di reclusione perché sprovvisto di documenti, e
quindi espulso dal Paese.
Recatosi con i compagni a Berlino, continuò a frequentare il corso nella Casa "Karl
Liebknecht e Rosa Luxemburg" del Partito comunista tedesco fino al mese di settembre,
quando fu inviato alla scuola internazionale di Mosca, dove continuò gli studi,
approfondendo la propria formazione ideologica. Nel gennaio del 1930 lasciò l'Unione
Sovietica e si trasferì a Parigi, al "centro estero" del Partito comunista. Qui
curò la redazione e la grafica del "Fanciullo proletario", di
"Avanguardia", del "Galletto Rosso" e partecipò a riunioni con gli
emigrati antifascisti, collaborando attivamente con Secchia.
Con Secchia realizzò nel giugno del 1930 il volumetto "La lotta della gioventù
proletaria contro il fascismo" che venne stampato a Berlino nell'agosto successivo
presso le edizioni dell'Internazionale giovanile comunista e diffuso poi clandestinamente
in Italia dai giovani che lottavano contro la tirannide mussoliniana.
Intervenne nel dibattito che si svolse tra i dirigenti del partito sulle tesi del VI
Congresso dell'Internazionale comunista e del X Plenum, pronunciandosi con forza a favore
della "svolta" e sostenendo l'esigenza di ricostruire un "centro" del
partito in Italia, per rilanciare la presenza e riorganizzarne le fila.
Alla fine del giugno 1930 venne inviato dal partito in Italia per organizzarne la lotta
clandestina contro il fascismo (era munito di un passaporto falso intestato a Franz Kraft,
cittadino svizzero, e si celò in seguito sotto i nomi di Alfeo Pescio e di Aldo Conti -
quest'ultimo, casualmente, era il nome del questore di Parma -). Come funzionario della
Federazione giovanile comunista per l'Emilia-Romagna (noto con il nome di battaglia di
Dondoli) operò nelle province di Modena, Reggio, Parma, Piacenza, Bologna, Ferrara e
Ravenna, soprattutto tra i più giovani, dando un notevole impulso all'organizzazione
clandestina del partito. In poche settimane coordinò la resistenza antifascista, che in
quelle zone non era mai cessata, sviluppando un'azione organica e dando vita anche ad
alcune iniziative clamorose. A Parma costituì numerose cellule clandestine che svolgevano
una intensa attività di propaganda; nel Ravennate riuscì a organizzare più di 600
iscritti. I successi spinsero però alcuni incauti dirigenti della Fgci modenese a una
aperta manifestazione durante i funerali di un compagno: l'arresto degli organizzatori
portò l'Ovra sulle tracce della rete clandestina creatasi nella regione. La polizia
fascista, favorita inoltre dall'inesperienza di alcuni giovani, che si lasciarono trovare
liste di nomi, e anche dalla debolezza di altri che, sotto le torture, diedero qualche
informazione, fin dal mese di settembre iniziò una serie di arresti a catena.
Moscatelli, mentre curava l'organizzazione di manifestazioni per l'anniversario della
rivoluzione bolscevica, venne scoperto, pedinato e arrestato a Bologna l'8 novembre, dopo
quattro mesi di attività (in quel periodo la durata media dell'attività clandestina dei
dirigenti era di venti giorni). Dopo essere stato lungamente torturato, il 21 febbraio
1931 fu deferito al Tribunale speciale. Giudicato con altri sette, con sentenza del 24
aprile dello stesso anno fu condannato a 16 anni e 6 mesi di reclusione, all'interdizione
perpetua dai pubblici uffici, a 3 anni di vigilanza speciale e a 2.000 lire di multa per
ricostituzione del Partito comunista e appartenenza al medesimo, propaganda comunista, uso
di documenti falsi ed espatrio clandestino.
Di fronte ai giudici Moscatelli affermò che l'accusa formulata rappresentava un onore
troppo grande per lui che non aveva "ricostituito" il partito, che esisteva
già, perché "dove c'è un operaio il Pc è presente: dappertutto dove sono andato
ho sempre trovato dei comunisti". E gridò: "Viva l'incrollabile esistenza del
partito comunista".
Venne recluso nelle carceri di Volterra, dove partecipò a uno sciopero della fame di
sette giorni e fu rinchiuso, per punizione, in cella di isolamento per tre mesi. Nel 1932
fu trasferito a Civitavecchia. In questo carcere dove il regime aveva creato, senza
rendersene conto, l' "università" dell'antifascismo, fu a contatto con Secchia,
Scoccimarro, Li Causi, Terracini, Sereni, Manlio Rossi Doria, Leo Valiani e completò la
sua formazione politica e ideologica. Anche qui prese parte a uno sciopero della fame e
subì quarantacinque giorni di cella di rigore, essendo stato sorpreso con un
"tarocchino", un messaggio scritto su cartina di sigaretta. Fu trasferito infine
ad Alessandria, dove venne ancora rinchiuso per sei mesi in cella di isolamento (nella
cella accanto a quella di Tito Zaniboni).
La pena gli venne ridotta, in applicazione dell'amnistia del "decennale" e di
vari condoni, a 7 anni, di cui 2 condonati. Scarcerato nel dicembre 1935, fu sottoposto a
libertà vigilata. Decise di rimanere in Italia (si stabilì a Varallo Sesia) e perse
quindi contatti con il "centro estero" del partito e, pur essendo
"bruciato", riuscì tuttavia a mantenere qualche legame con militanti delle
province di Novara e di Vercelli.
Lavorò come tornitore alla cartiera Serravalle Sesia. Arrestato l'8 marzo 1937 dai
carabinieri di quella località con l'imputazione di aver scritto frasi sovversive sui
muri della fabbrica (in questo caso Moscatelli era però "innocente"), scontò
sei mesi di carcere a Vercelli. Poiché "di sentimenti contrari al Regime, nonché
pericoloso all'ordine nazionale" e "persistendo in atteggiamenti e
manifestazioni che denotano il permanere della sua pericolosità, mentre d'altra parte si
manifesta inattuabile ed inefficace la di lui sorveglianza a piede libero data l'indole
della di lui attività pericolosa" il giudice di sorveglianza di Vercelli ne ordinò
"l'assegnazione ad una casa di lavoro per la durata minima di anni uno". Il
decreto venne successivamente revocato ma poiché Moscatelli, nel frattempo scarcerato,
era giudicato dai carabinieri di Borgosesia "di cattiva condotta politica e di idee
sovversive" fu da questi proposto per l'assegnazione al confino. Il provvedimento
tuttavia non venne emesso, anche se, continuamente sottoposto a vigilanza, Moscatelli non
diede "prove concrete di ravvedimento".
Stabilitosi a Borgosesia avviò un'attività commerciale (vendita di macchine utensili) e
fu titolare di una piccola rubinetteria. Nel 1938 sposò Maria Leoni dalla quale ebbe due
figlie: Carla e Nadia. Il 26 luglio 1943, giorno successivo alla caduta del fascismo,
improvvisò a Borgosesia una manifestazione popolare e, nei quarantacinque giorni del
governo Badoglio, riprese a dirigere il movimento antifascista in Valsesia, ristabilendo i
contatti con le fila dell'organizzazione e riallacciando in particolare il collegamento
con Secchia, che nel frattempo (19 agosto) era stato liberato dal confino di Ventotene.
Dopo l'8 settembre fu tra i promotori del Comitato valsesiano di Resistenza (il futuro
Cln) e svolse subito, impegnando tutti i suoi risparmi, un'intensa attività per
l'organizzazione degli sbandati e della guerriglia, contro le forze che la Repubblica di
Salò andava riorganizzando, a fianco dell'esercito di occupazione. Arrestato il 29
ottobre dai carabinieri di Borgosesia su mandato del comando germanico di Vercelli, fu
prontamente liberato dai suoi compagni, sostenuti da numerosa folla, con un audace attacco
alla caserma. Si rifugiò quindi con i primi "fuori legge" sul monte Briasco,
organizzando, con Eraldo Gastone (Ciro), azioni di guerriglia. Contro il distaccamento
"Gramsci" di Cino e Ciro i fascisti inviarono fin dal dicembre 1943 le loro
truppe, nell'intento di soffocare sul nascere la rivolta. Ma i pochi "banditi"
crebbero di numero fino a diventare una brigata (la 6a brigata garibaldina
costituita in Italia). I garibaldini valsesiani, sottoposti a duri attacchi e a durissimi
rastrellamenti durante tutto l'inverno e la primavera 1943-44, non cedettero, anzi, nel
mese di giugno, grazie anche a condizioni particolarmente favorevoli (la Rsi convinta che
i "ribelli" fossero stati annientati, aveva trasferito l'agguerrita legione
"Tagliamento", responsabile di ogni genere d'efferatezze, sul fronte adriatico)
venne costituita la "zona libera" della Valsesia (la prima d'Italia: 10 giugno,
4 luglio 1944). Fu questa un'occasione per Moscatelli e Gastone per riorganizzare le
formazioni e costituire, grazie all'afflusso di nuovi combattenti, una divisione.
Formata nei mesi successivi anche una divisione nell'Ossola, venne costituito il
raggruppamento delle divisioni garibaldine della Valsesia-Ossola-Cusio-Verbano, di cui
Moscatelli fu commissario politico fino alla Liberazione (Gastone ne fu il comandante
militare). Le brigate garibaldine di Cino e Ciro (nell'aprile 1945 erano 12, inquadrate in
4 divisioni - "Fratelli Varalli", "Redi", "Pajetta",
"Flaim" - composte complessivamente da circa 3.000 uomini) per la loro posizione
geografica gravitavano assai più su Milano che su Torino, quindi non dipesero dal Comando
regionale piemontese ma vennero poste alle dirette dipendenze del Comando generale delle
Brigate Garibaldi e del Comando generale del Corpo Volontari della Libertà. Ciò anche
perché, come scrisse Secchia "faceva comodo al Comando generale avere sottomano
delle unità di manovra, delle unità modello, sia per studiarne la ricca esperienza, che
per qualsiasi necessità operativa potesse presentarsi".
Il dinamismo con cui Moscatelli seppe dirigere la lotta gli fruttò vasta popolarità:
durante i venti mesi della Resistenza la sua figura divenne leggendaria (lo testimoniano
le numerose canzoni e racconti che nacquero su di lui in quel periodo). Moscatelli del
resto dedicò sempre la massima cura a stabilire rapporti proficui di collaborazione con
tutte le componenti sociali: nelle sue formazioni combatterono fianco a fianco uomini di
ogni corrente politica e di ogni fede religiosa, ex militari sbandati, ufficiali del
dissolto regio esercito, monarchici, giovani di leva, vecchi antifascisti; ben quattro
industriali pagarono con la vita il loro appoggio al movimento partigiano della zona.
Moscatelli applicò un'abile politica verso le forze cattoliche, che gli permise di
assicurarsi larghi appoggi del clero locale (scrisse e fece stampare una "preghiera
del garibaldino" e ciò non per motivi strumentali, ma perché era consapevole che
"la maggioranza dei partigiani era cattolica, assisteva alle messe al campo", e
che "anche il sentimento religioso - di pace, di giustizia, di uguaglianza - era
un'arma 'rivoluzionaria', un'arma nella lotta contro il nazifascismo".
Nell'ottobre del 1944 fondò e diresse il periodico "La Stella Alpina", organo
del raggruppamento garibaldino, che raggiunse una diffusione di migliaia di copie.
Nell'aprile 1945 le formazioni di Moscatelli parteciparono alla liberazione di Novara e
marciarono poi su Milano, dove giunsero il 28 aprile, accolte da una folla in tripudio.
Moscatelli, assieme a Longo e ad altri partigiani, tenne un comizio in piazza Duomo di
fronte a migliaia di persone esultanti per la riconquistata libertà.
Per i meriti acquisiti nella lotta partigiana, Moscatelli fu congedato con il grado di
tenente colonnello e gli vennero conferite la medaglia d'argento al valor militare e due
croci al merito di guerra; fu decorato con l'americana "bronze star medal", e
ottenne la medaglia polacca "Za lud Polske Wolnosc" e l'onorificenza
cecoslovacca "Cestný partizánsky odznak".
Dopo la Liberazione venne designato sindaco di Novara dal Cln. In seguito, dopo essere
stato membro della Consulta nazionale, che doveva preparare l'elezione dell'Assemblea
Costituente, e aver fatto parte della commissione industria e commercio, fu eletto
deputato alla Costituente per la circoscrizione di Torino-Novara-Vercelli e ricoprì
durante il terzo governo De Gasperi (2 maggio/31-5 1947) la carica di sottosegretario alla
presidenza del Consiglio dei ministri per l'assistenza ai reduci e ai partigiani.
Nel 1948, quarantenne, entrò al Senato, membro di diritto, e fece parte della Commissione
difesa. Come più giovane segretario, nella seduta d'insediamento, procedette all'appello
nominale dei senatori e la sua fu pertanto una delle prime voci a risuonare nel Senato
repubblicano.
Nel 1953 fu eletto con 60.000 voti deputato per la circoscrizione di
Bologna-Ferrara-Ravenna-Forlì e fece parte della Commissione trasporti; nel 1958 per
quella di Torino-Novara-Vercelli. Al termine della legislatura lasciò la vita
parlamentare per motivi di salute.
Oltre all'attività di parlamentare e di amministratore comunale (consigliere a Novara dal
1946 al 1956, poi a Borgosesia fino al 1975) ebbe numerosi incarichi di partito. Fece
parte del Comitato centrale del Pci fino all'VIII Congresso (1956) e contemporaneamente,
dopo aver lavorato presso la direzione, fu, nel 1948, responsabile d'organizzazione a
Torino, dal 1949 al 1950 segretario della federazione di Aosta, quindi ispettore
regionale, inviato presso la federazione di Cuneo, e successivamente vicesegretario di
quella di Novara. Nel 1957 costituì la federazione di Verbania, per l'Alto novarese, di
cui fu segretario per alcuni mesi.
Nel 1963 fece ritorno a Borgosesia dove assolse l'incarico di capogruppo nel consiglio
comunale fino al 1975. Fu, con il democristiano Giulio Pastore, tra i promotori del
Consiglio Valle della Valsesia, il primo costituito in Italia, trasformatosi poi in
Consiglio della Comunità Montana.
Impegnato fin dai primi anni del dopoguerra nella valorizzazione della Resistenza e dei
suoi ideali, depositario del cospicuo archivio delle formazioni garibaldine della
Valsesia-Ossola-Cusio-Verbano, scrisse in collaborazione con Pietro Secchia "Il Monte
Rosa è sceso a Milano. La Resistenza nel Biellese, nella Valsesia e nella
Valdossola" che vinse il premio Prato. Fu il principale promotore della concessione
della medaglia d'oro al valor militare alla Valsesia per l'attività partigiana (1973) e
si dedicò con passione alla ricerca storica, costituendo nel 1974, assieme a partigiani e
uomini politici della Valsesia, del Biellese e del Vercellese, l'Istituto per la storia
della Resistenza in provincia di Vercelli, con sede a Borgosesia. Ebbe numerosi incarichi
in seno all'Associazione nazionale partigiani d'Italia, di cui fece parte anche della
presidenza onoraria nazionale.
Gli ultimi anni della sua vita furono tormentati da sofferenze fisiche, ma non cessò mai
di essere un punto di riferimento per partigiani, antifascisti, democratici e giovani.
Stroncato da male incurabile, morì a Borgosesia il 31 ottobre 1981. Alle sue esequie
presero parte il Capo dello Stato, i massimi dirigenti del Pci e una imponente folla di
antifascisti e di democratici, che volle rendere omaggio e dare l'estremo saluto al suo
"comandante".
(a cura di Piero Ambrosio)
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