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Biografie

pallanimred.gif (323 byte) Cesare Pavese

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Nasce il 9 settembre 1908 a Santo Stefano Belbo (Cuneo), un paesino delle Langhe in Piemonte. Trascorre la sua infanzia nel casolare del padre, cancelliere del Tribunale di Torino, che rimarrà sempre nei suoi ricordi come simbolo di serenità e spensieratezza, dove ritornare in vacanza anche quando la sua vita si svolgerà a Torino, prima per gli studi universitari e poi per il lavoro come redattore della casa editrice Einaudi.

Studia nell’Istituto «Sociale» dei Gesuiti e nel «Ginnasio moderno» quindi passa al Liceo «D’Azeglio», dove avrà come professore un maestro d’umanità, Augusto Monti, al quale molti intellettuali torinesi di quegli anni devono tanto. L’ingresso al liceo «D’Azeglio» è di somma importanza per la vita di Cesare, il quale tra il 1923 e il 1926 partecipa a quel rinnovamento delle coscienze che non solo esercitava l’azione educatrice di Monti ma che trovava concretezza e palpabilità nell’opera di Gramsci e Gobetti. Dapprima Pavese è assai riluttante ad impegnarsi attivamente nella lotta politica, verso la quale egli non nutre grande interesse, anche perché tende a fondere sempre il motivo politico con quello più propriamente letterario. È però attratto dai giovani che seguono Monti: Leone Ginzburg, Norberto Bobbio, Tullio Pinelli, Massimo Mila, i quali non aderiscono né al movimento di Strapaese (legato al fascismo) né a quello di Stracittà (movimento apparentemente progressivo ma in realtà anch’esso trincerato dietro lo scudo fascista), in opposizione ai quali essi coniano la sigla Strabarriera.

Nel 1930 ( a soli ventidue anni) si laurea con una tesi Sulla interpretazione della poesia di Walt Whitman e comincia a lavorare alla rivista «La cultura», insegnando in scuole serali e private, dedicandosi alla traduzione della letteratura inglese e americana nella quale acquisisce ben presto fama e notorietà.

Nel 1931 Pavese perde la madre, in un periodo già pieno di difficoltà. Rimasto solo, si trasferisce nell’abitazione della sorella Maria, presso la quale resterà fino alla morte. Lo scrittore non è iscritto al partito fascista e la sua condizione lavorativa è molto precaria, riuscendo solo saltuariamente a insegnare in istituti scolastici pubblici e privati.

Nel 1933 sorge la casa editrice Einaudi al cui progetto Pavese partecipa con entusiasmo per l’amicizia che lo lega a Giulio e dove frequenta Carlo Levi, Franco Antonicelli e Leone Ginzburg. Fino al febbraio 1935 è anche direttore responsabile della rivista "La cultura", di impronta antifascista, edita da Einaudi e da Paolo Treves, restandovi successivamente come collaboratore letterario. Questi sono gli anni del suo amore con «la donna dalla voce rauca», una intellettuale laureata in matematica e fortemente impegnata nella lotta antifascista: Cesare accetta di far giungere al proprio domicilio lettere fortemente compromettenti sul piano politico. Il mattino del 13 maggio, nella casa di Pavese piomba la polizia. Tutta la casa è messa a soqquadro, viene trovata una lettera che preveniva dal carcere di Regina Coeli e Pavese è dichiarato in arresto. Contemporaneamente vengono arrestati Augusto Monti, Massimo Mila, Giulio Eianudi, Vittorio Foa, Antonicelli, Bobbio Giua, Perelli e molti altri. Pavese non fa il nome della donna e finisce così nel carcere delle Nuove di Torino e vi rimane alcuni mesi. Poi sarà condannato a tre anni di confino a Brancaleone in Calabria per sospetta appartenenza al movimento di Giustizia e Libertà. Tre anni che si ridurranno poi a meno di uno, per richiesta di grazia: torna infatti dal confino nel marzo del 1936, periodo in cui scrive "Il mestiere di vivere", diario autobiografico. Tornato a Torino continuò, pur sapendosi come tutti coloro che erano passati per il carcere e il confino, ad essere sorvegliato dall'Ovra, a frequentare gli ambienti antifascisti, accompagnato dal Fedele Paolo Cinanni che era suo allievo. Ma il suo ritorno coincide con un’amara delusione: l’abbandono della donna e il matrimonio di lei con un altro. L’esperienza (che sarà il soggetto del suo primo romanzo, Il Carcere), e la delusione giocano insieme per farlo sprofondare in una crisi grave e profonda, che per anni lo terrà avvinto alla tentazione dolorosa e sempre presente del suicidio.

Nel 1936 compare a Firenze, per le edizioni Solaria, la prima raccolta di poesie Lavorare stanca che comprendeva le poesie scritte dal 1931 al 1935 e che fu letta da pochi. Una seconda edizione, comprendente anche le poesie scritte fino al 1940, fu pubblicata nel 1942 da Einaudi. In quegli anni scrive ancora racconti, romanzi brevi, saggi: sembra aver riacquistato la fiducia in se stesso e nella vita e, soprattutto frequentando gli intellettuali antifascisti della sua città, pare aver maturato anche una coscienza politica. Tuttavia non partecipa né alla guerra né alla Resistenza: chiamato alle armi, viene dimesso perché malato di asma.

Destinato a Roma per aprire una sede della Einaudi, si trova isolato e in lui prevale la ripugnanza fisica per la violenza, per gli orrori che la guerra comporta e si rifugia nel Monferrato presso la sorella, dove vivrà per due anni «recluso tra le colline» con un accenno di crisi religiosa e soprattutto con la certezza di essere diverso, di non sapere partecipare alla vita, di non riuscire aessere attivo e presente, di non essere capace di avere ideali concreti per vivere (il ricordo di quel periodo è descritto ne La casa in collina).

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Dopo la fine della guerra si iscrive al Partito comunista. Recatosi a Roma per lavoro ( dove soggiornerà per un periodo stabilmente, a parte qualche periodica evasione nelle Langhe) conosce una giovane attrice: Constance Dowling. È di nuovo l’amore. La giovane con le sue efelidi rosse e forse in qualche modo con una sincera ammirazione per un uomo ormai famoso e noto, ricco di intelletto e capace di una forte emotività, accende ancora una volta Cesare, ma poi va via, lo abbandona. Costance torna in America e Pavese scrive Verrà la morte e avrà i tuoi occhi…

A questo secondo abbandono, alle crisi politiche e religiose che riprendono a sconvolgerlo, allo sgomento e all’angoscia che lo assalgono nonostante i successi letterari ( nel 1948 Il compagno vince il premio Salento; nel 1949 La bella estate ottiene il premio Strega; pubblica La luna e i falò, considerato il suo miglior racconto) alla nuova ondata di solitudine e di senso di vuoto non riesce più a reagire. Logorato, stanco, ma in fondo perfettamente lucido si toglie la vita in un albergo di Torino ingoiando una forte dose di barbiturici. È il 27 agosto del 1950. solo un biglietto «Perdono a tutti e a tutti chiedo perdono…….». Aveva solo 42 anni.

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