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Biografia

pallanimred.gif (323 byte) Giancarlo Pajetta

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Nato a Torino il 24 giugno del 1911 da Carlo, avvocato, e da Elvira Berrini, maestra elementare. Dirigente e parlamentare comunista. Un suo libro autobiografico è intitolato "Il ragazzo rosso". Proprio da ragazzo, aveva cominciato l’attività politica che gli valse, a 14 anni, mentre frequentava il Liceo-ginnasio Massimo D’Azeglio di Torino, l’espulsione "da tutte le scuole del Regno" per tre anni. Era il febbraio del 1927. Come non bastasse, Giancarlo Pajetta venne arrestato e rinchiuso, quando non aveva ancora 17 anni, nella sezione minorile delle carceri giudiziarie di Torino. Il 25 settembre del 1928, il Tribunale Speciale lo condanna a due anni di reclusione, che sconta nelle carceri di Torino, Roma e Forlì.
Nel 1931 l’espatrio clandestino in Francia, dove il "ragazzo rosso" assume lo pseudonimo di "Nullo", diventa segretario della Federazione giovanile comunista, direttore di "Avanguardia" e rappresentante italiano nell’organizzazione comunista internazionale. In quel periodo Giancarlo Pajetta compie numerose missioni clandestine in Italia, fino a quando, il 17 febbraio del 1933, viene arrestato a Parma. Un anno dopo il Tribunale Speciale fascista lo condanna a 21 anni di reclusione; Pajetta ne sconterà 11 nei carceri di Civitavecchia e di Sulmona e verrà scarcerato il 23 agosto del 1943, dopo la caduta del fascismo.
Poi venne l’8 settembre e la guerra partigiana (nella quale cadde suo fratello Gaspare), che vede "Nullo" Capo di Stato Maggiore (ma di fatto vice comandante generale) delle Brigate Garibaldi e membro del Comando generale del Corpo volontari della libertà. È in questa veste che, tra il novembre e il dicembre del 1944, Pajetta è a Roma, come membro del CLNAI, per trattare con gli Alleati e con il governo Bonomi l’accordo politico-militare che porta al riconoscimento delle formazioni partigiane come formazioni regolari e all’attribuzione delle funzioni di governo al Comitato di Liberazione dell’Alta Italia.
Dopo la Liberazione Pajetta diventa direttore dell’edizione milanese dell’"Unità" e membro della Direzione del Pci. Nel 1945 viene eletto alla Consulta (non era potuto diventare senatore perché troppo giovane), poi, nel 1946, all’Assemblea costituente, nel 1948 alla Camera dei deputati (dove è stato riconfermato ben dodici volte). Nello stesso anno entra a far parte della segreteria nazionale del partito di via delle Botteghe Oscure. Resterà membro di tale organo fino al 1986, anno in cui assumerà la presidenza della commissione di garanzia del partito. In questi anni fu anche responsabile esteri del Pci ed ebbe modo di crearsi una fitta rete di conoscenze e di contatti con tutto il mondo sovietico di cui fu, nell’ultima fase della sua vita, un critico rimproverando a Bresnev ed ai suoi successori di aver mentito al mondo intero e soprattutto ai “compagni” dei “partiti fratelli” sulle reali condizioni dell’Urss e del comunismo sovietico. 

Dal 1984 è stato anche parlamentare europeo. Nel Pci fu sempre un battitore libero, rispettava, ma non stimava Togliatti e Berlinguer (al cui funerale tenne l’orazione funebre ufficiale) e non ebbe mai timori reverenziali nell’esprimere le proprie opinioni anche quando queste erano in disaccordo con la linea ufficiale del partito alla cui disciplina e alle cui linee guida generali, però si atteneva scrupolosamente: poteva essere un protestante verso la casa madre comunista, ma mai un eretico della dottrina ufficiale.

Per la sua schiettezza e la sua onestà era molto apprezzato nella “base” del Pci. All’inizio degli anni ’90 si oppose, lui che da sempre era stato sul posizioni riformiste (quelle di Giorgio Amendola prima e, poi, di Giorgio Napolitano), al cambio del simbolo e del nome del Partito Comunista Italiano che Achille Occhetto voleva, e riuscirà con successo, trasformare in Partito Democratico della Sinistra, rimpicciolendo l’antico simbolo del partito, la falce, martello e stella su bandiera rossa e tricolore, e facendolo sormontare da una grande Quercia. 
Diede origine, con alcuni degli altri capi storici del partito (Pietro Ingrao, Alessandro Natta, Armando Cossutta e Aldo Tortorella) al cosiddetto fronte del NO che si oppone al cambiamento del nome e del simbolo del Pci. 
Con la solita schiettezza d’animo espressa con grande arguzia e ironia, in questo caso, malinconica, in un’intervista, rilasciata al l’Unità il 9 marzo 1990, l’ormai anziano Giancarlo Pajetta, nei cui occhi si intravedeva ancora l’antico spirito ed a cui solo l’età avanzata impediva di continuare a scavalcare i seggi della Camera, affermò: “Ce lo vedo male un robot al posto della falce e martello. E spero che sia rossa la bandiera che mi accompagnerà nell’ultimo viaggio”. 
Il giorno prima di morire d’infarto aveva rilasciato al Messaggero un’intervista nella quale, con riferimento alla "svolta della Bolognina" che avrebbe portato allo scioglimento del PCI, , dichiarava di stare vivendo i giorni più brutti della sua vita. Morto a Roma il 12 settembre del 1990.

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