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Gli scioperi del marzo del '43
Da Torino a Milano a Genova gli operai dimostrarono che era possibile
opporsi al fascismo e alla guerra. Sotto la spinta delle condizioni materiali i
lavoratori riscoprirono la propria soggettività di classe e riemerse la cultura
del conflitto. Fu un colpo terribile per la credibilità di Mussolini, un vero
e proprio preludio al crollo del 25 luglio. Gli scioperanti si politicizzarono
in fretta; più tardi molti di loro entrarono a far parte della resistenza
armata, altri prepararono l'insurrezione del 25 aprile 45.
Qual è la data d'inizio della resistenza? Ognuno può dare una risposta diversa. L'8
settembre - l'armistizio con gli alleati e la conseguente occupazione tedesca
dell'Italia - è quella più comune e, forse, più "ragionevole". Ma
si potrebbe, con altrettanta ragionevolezza, fissare nell'emigrazione
antifascista o nella guerra civile spagnola, l'avvio dell'esperienza resistenziale.
Oppure - seguendo interpretazioni fin troppo ortodosse - rinchiudere il tutto
nella storia dei partiti antifascisti, a partire dalle loro alleanze prebelliche,
fino alla nascita del Cln e al governo di Roma del biennio 44-45. O, al contrario,
affermare che una data precisa non ci può essere, perché la restistenza trae
origine dalla disgregazione italiana sotto i colpi della guerra, il crollo di
credibilità del regime, i bombardamenti alleati e la fame. Percorsi endogeni ed
esogeni alla realtà nazionale, legittimamente, si sovrappongono sulla strada che
diede origine all'esperienza resistenziale. Ma, forse, si può sceglire un'altra chiave di
lettura, quella che fissa nel primo momento di resistenza di massa al regime fascista
l'atto di origine del movimento che portò all'insurrezione del 25 aprile 45: gli
scioperi operai che nel marzo 1943 paralizzarono le fabbriche del nord. Allora, per
la prima volta da quasi vent'anni, uno dei nuclei essenziali della società italiana
espresse pubblicamente la propria sfiducia nel fascismo; e inferse un pesante colpo
alla credibilità del regime.
Gli operai: per vent'anni erano rimasti muti - non uno sciopero -
"inquadrati" nei sindacati fascisti e nelle organizzazioni di massa che
Mussolini aveva creato per controllare quella classe di cui - da buon ex socialista -
sapeva di non potersi fidare fino in fondo, che poteva solo neutralizzare, non
attivizzare al suo fianco. Durante il ventennio la condizione operaia era di
molto peggiorata: i salari avevano perso potere d'acquisto, l'introduzione
del fordismo ne aveva avvilito la forza contrattuale, esasperando i ritmi
di produzione secondo i dettami della modernità novecentesca. Privati di
qualunque autonomia - con la cancellazione dei sindacati - costretti a un
coorporativismo che non li tutelava, erano scomparsi dalla scena politica del paese.
Con la guerra - militari a parte - i lavoratori dell'industria erano diventati
il gruppo sociale su cui il conflitto pesava di più. Doppiamente penalizzati:
come tutti gli altri italiani dal generale degrado delle condizioni del paese
[a partire dal progressivo razionamento dei generi alimentari, fino all'incubo
dei bombardamenti], più degli altri cittadini dall'intensificazione dei ritmi
di lavoro e dal prolungamento degli orari, per una produzione tutta
finalizzata allo sforzo bellico. Così, dopo le donne - che facevano i conti giorno
per giorno con le dispense sempre più vuote - fu tra chi rendeva vive le
fabbriche che il malcontento cominciò a serpeggiare ben presto. In più gli operai
avevano alle spalle la cultura - rimossa ma non cancellata del tutto -
della rivendicazione e del conflitto. La loro naturale distanza dal fascismo, con
la guerra si trasformò in progressivo dissenso: fin dagli ultimi mesi del 42
nelle fabbriche - soprattutto nei grandi stabilimenti del nord-ovest - le
ragioni dello sciopero c'erano tutte. Difficile - molto difficile - era farlo.
Anche perché i militanti dei partiti antifascisti - e in primo luogo i comunisti
- erano una piccolissima minoranza. Quella minoranza accompagnò la
gestazione degli scioperi del marzo 43, li prepararono - come racconta una
delle testimonianze che qui riportiamo - con una fitta rete di "sussurri".
I militanti dei partiti antifascisti - alcuni dei quali rientrati in Italia proprio
per fare attività nelle fabbriche - diedero a quegli scioperi un respiro
politico, collocando le rivendicazioni economiche nel quadro della guerra e
sottolineando la necessità di una pace immediata. Ma non si può dire che li abbiano
indetti e diretti. Le agitazioni dei lavoratori "crebbero su sé stesse":
dalle prime fermate in alcune fabbriche torinesi, al blocco totale degli stabilimenti
Fiat, alle industrie lombarde, liguri, venete, emiliane. Scese in campo una
classe operaia con scarsa memoria, formatasi in gran parte sotto il fascismo, ma
con una fortissima sensibilità sociale, cui la prosecuzione della guerra
appariva insopportabile. Poi, quasi naturalmente, quegli operai si scoprirono ben
presto necessariamente antifascisti.
Gli scioperi del marzo 43 furono prima di tutto una protesta sociale contro
le condizioni cui il regime aveva ridotto il paese. I lavoratori
chiedevano soprattutto integrazioni salariali, dettate da una condizione materiale
ormai insostenibile. Come controparte diretta avevano le imprese, ma il ricorso
allo strumento dello sciopero fece di quella rivendicazione un fatto
immediatamente politico. E, successivamente, l'aspetto politico - come testimoniano i
rapporti delle autorità periferiche fasciste - accentuò progressivamente il proprio
peso.
Fino alle agitazioni della primavera successiva, quando la saldatura tra
aspetto sociale e politico si completò, quando gli scioperi furono chiaramente
contro il fascismo [e i tedeschi che avevano occupato il nord del paese].
"Pane, pace e libertà": con queste parole d'ordine gli scioperi del 43
sono passati alla storia. L'opposto di ciò che Mussolini poteva offrire. E l'uomo
di Predappio uscì fortemente indebolito dalle giornate di marzo, la sua
credibilità infranta. Gli operai dimostrarono che era possibile opporsi
esplicitamente al regime: non ottennero, dal punto di vista economico, tutto ciò che
chiedevano e le agitazioni - durate quasi un mese - si risolsero con mediazioni
aziendali che accoglievano solo in parte le richieste dei lavoratori. Ma il loro
impatto simbolico e politico fu enorme, furono le premesse del 25 luglio. Di più,
quegli scioperi furono anche una grande scuola di antifascismo: molti dei
loro protagonisti poi salirono in montagna, altri finirono nei campi
di concentramento tedeschi, per non farne più ritorno, altri riuscirono a
celarsi alla repressione dando vita alla resistenza armata in fabbrica, organizzando
il sabotaggio della produzione bellica, preparando il 25 aprile. E nei
giorni dell'insurrezione i primi luoghi liberati delle città del nord furono proprio
le grandi fabbriche.
Oggi gli storici s'interrogano su quelle giornate: qualcuno sostiene che la portata e
il ruolo degli scioperi siano stati troppo enfatizzati, arrivando anche a metterne in
discussione la stessa esistenza, perché il loro esordio fu molto più stentato di
quanto voglia la tradizione del movimento operaio; o magari perché alla Fiat
Mirafiori - una fabbrica che Mussolini non avrebbe mai voluto fosse costruita,
conscio che per il suo regime tanti operai tutti assieme non potevano che essere un
guaio - lo sciopero non riuscì il 5 di marzo, ma solo alcuni giorni più tardi. Ma
basterebbe leggere le reazioni degli apparati di potere, le destituzioni di gerarchi
e autorità di polizia per confermarne la portata. Oppure sarebbe sufficiente
analizzare le biografie di molti dei combattenti della resistenza di origine operaia
per comprendere il peso degli scioperi del marzo 43: una "dimostrazione"
che anticipava di alcuni mesi le scelte che una parte d'Italia fece dopo l'8
settembre.
(a cura di Gabriele Polo)
Dopo il 25 luglio
Dal 25 luglio ai primi giorni di settembre del 43 gli scioperi nelle grandi fabbriche
del nord non conoscono soluzione di continuità. Secondo i rapporti conservati presso
l'Archivio centrale dello stato, i primi a scioperare lo stesso 25 luglio sono gli operai
della Piaggio di Pontedera, "per la caduta del fascismo", con una manifestazione
in cui ci furono anche due arresti. Da quel giorno sono registrate ben 135 agitazioni
operaie, con numerosi feriti e anche 12 morti [l'episodio più grave avviene alle officine
Reggiane di Reggio Emilia, il 28 agosto, quando l'intervento dei bersaglieri provoca 7
morti e 25 feriti]. Il lungo elenco delle manifestazioni operaie, tutte per la fine della
guerra e l'allontanamento dei dirigenti compromessi con il regime, comprende le principali
realtà industriali italiane, dalla Fiat di Torino alla Falk e alla Breda di Milano, dalle
fabbriche di porto Marghera ai cantieri navali di Monfalcone e di Genova.
Gli scioperi a Torino, da Carlo Chevallard:
"Torino in guerra - diario 1942-45", Torino 1974 (ilmanifesto.it)
La testimonianza di un operaio della Grandi Motori Fiat
(ilmanifesto.it)
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