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Dibattito

Resistenza e revisionismo

"Storia e revisionismo
la lezione di Calvino"

di Alberto Asor Rosa
 

NEL corso del dibattito attuale fra revisionismo e antirevisionismo nessuno
si è ricordato che sull'argomento aveva scritto pagine decisive, anticipando
di molti anni la storia, uno dei più grandi scrittori del nostro tempo,
Italo Calvino, nel suo primo romanzo, Il sentiero dei nidi di ragno, apparso
nel 1947.
COME è noto a tutti, - ma per quelli cui non fosse noto, riassumo le notizie
in poche righe essenziali, - Calvino ventenne, dopo l'8 settembre 1943, s'
imbosca per sfuggire alla leva della Repubblica di Salò, poi, all'inizio del
'44, sale in montagna con il fratello sedicenne ed entra nella seconda
divisione d' assalto "Garibaldi", operante sulle Alpi Marittime, ai confini
con la Francia. Resta lassù, combattendo, fino ai giorni della Liberazione,
mentre suo padre e sua madre, per rappresaglia, vengono arrestati e
minacciati di morte.
Il sentiero dei nidi di ragno fu scritto immediatamente a ridosso di questa
fondamentale esperienza. Il libro, infatti, era già ultimato nel dicembre
1946. Le posizioni, narrative e ideologiche, che il giovanissimo scrittore
vi assunse, possono perciò esser legittimamente considerate il frutto delle
riflessioni elaborate in montagna, caratterizzate da una lucidità e, -
verrebbe voglia di aggiungere oggi, - da una preveggenza, che lasciano
intravedere il futuro grande scrittore e intellettuale .
La particolarità sostanziale del libro è costituita dal fatto che Calvino
rinuncia a qualsiasi tentazione di rappresentazione celebrativa e
trionfalistica della resistenza. I suoi personaggi più importanti, - a
cominciare dal protagonista, il bambino Pin, - sono individui marginali,
socialmente irregolari, tutt'altro che contraddistinti da una forte
"coscienza di classe" o da una definita consapevolezza politica. Quando Pin
si rifugia in montagna, s'aggrega a un distaccamento partigiano, quello del
Dritto, tutto composto, per una scelta consapevole del commissario politico
Kim, da individui di tal genere.
Calvino, perciò, guarda alla Resistenza dalla sua estrema linea di confine:
quella lungo la quale scegliere di stare di qua o di là non risponde a un
processo chiaro, definito, razionale, perché quello che muove gli uni e gli
altri è un sentimento molto simile, forse il medesimo sentimento: "la
rabbia", "la furia", il "furore", gli "inutili furori", "un gioco tra
compagni che ha per posta la morte" (sono tutte parole ed espressioni dello
scrittore).
È questo, - questo "punto di vista", - che consente subito a Calvino di
affiancarsi ma al tempo stesso di distinguersi da tutto il contemporaneo
neorealismo populista e ne aguzza lo sguardo in maniera tanto eccezionale al di là delle convinzioni stereotipe allora dominanti anche in campo
antifascista.
Così, infatti, il problema - il problema di cui si sta discutendo in questi
giorni - è chiaramente posto. Cosa distingue, - nonostante l'affinità
eventuale delle pulsioni iniziali e persino di taluni atteggiamenti (la
violenza cieca, la ferocia, l'assenza di pietà), - gli uni dagli altri e ne
rende la valutazione drasticamente e insuperabilmente contrapposta? Ne
discutono pianamente, spostandosi da un distaccamento all'altro nel corso
della notte che precede la battaglia contro i tedeschi, il comandante di
brigata Ferriera, un operaio di fabbrica venuto dalla montagna, e il
commissario politico Kim, uno studente universitario di psichiatria, che, al
di là del ruolo ricoperto, è alla ricerca di spiegazioni meno schematiche e
più complesse sia, dei comportamenti individuali ed esistenziali, sia dei
grandi fenomeni storici (la lotta di classe, la rivoluzione politica), e
vorrebbe dare "un senso" alla lotta anche di quelli che combattono magari
senza sapere perché, i "senza patria", ai quali sarebbe bastato "un nulla"
per trovarsi dall'altra parte (anche queste sono parole di Calvino).
Ferriera, lucido, razionale, naturale rappresentante della classe
liberatrice, quella operaia, non capisce. Kim insiste. Le radici, spiega,
potrebbero essere le stesse. Ma a dividere gli uni dagli altri c'è "la
storia": la storia, che dà un senso giusto, positivo, alla furia degli uni;
e ricaccia gli altri nel gorgo distruttivo e autodistruttivo degli "inutili
furori", che tendono a riprodurre senza fine l'oppressione, la schiavitù e
le sozzurre di sempre. Insomma, da una parte c'è "il giusto"; dall'altra "lo
sbagliato". Se si dimentica questo, si perde il senso della storia.
È esattamente quello che ci si chiede in questi giorni: perdere (e far
perdere alla comunità nazionale) il senso della storia. Anzi, di più:
ammettere che la storia non ha senso, che nella storia non c'è né il giusto
né l'ingiusto, ma solo l'evento, l'accaduto, il fatto, - ingiustibicabile e
sostanzialmente incomprensibile. È un passaggio necessario, ma attenzione - ed è questo che, sulla scorta di Calvino m'importa di più, - solo intermedio e provvisorio per andare oltre, per arrivare alla "giustificazione" totale, che è la logica conclusione dell'intero percorso revisionistico.
Calvino dice: dietro il milite delle Brigate nere più onesto, più in
buonafede, più idealista, c'erano i rastrellamenti, le operazioni di
sterminio, le camere di tortura, le deportazioni e l'Olocausto; dietro il
partigiano più ignaro, più ladro, più spietato, c'era la lotta per una
società pacifica e democratica, ragionevolmente giusta, se non proprio
giusta in senso assoluto, chè di queste non ce ne sono.
Non ce ne importa nulla che i bravi "ragazzi di Salò" non sapessero cosa
difendevano, insieme con l'onore della patria (anche perché non è in gioco,
mi pare, la pretesa di giustificare il loro errore ma, più sostanzialmente,
quella di riconoscere la positività della loro scelta). Capita, talvolta,
nella storia di trovarsi dalla parte sbagliata, anche senza volerlo. In
questo caso non resta che rassegnarsi: è andata così, se ci sarà un'altra
vita, potremo rimediare.
Ma è l'idea che la storia sia riducibile ad una somma di casi individuali,
ognuno preso per sé e dunque, nella loro assoluta singolaità
esistenzialmente, tutti giustificabili (quello perchè aveva il padre caduto
in guerra, l'altro perchè aveva una madre apprensiva, il terzo perchè voleva
solo sfangarsela, ecc. ecc.), a produrre questo sfascio di tutti i parametri
intellettuali e civili, cui stiamo assistendo. Il Grande Fratello tende a
diventare, - coerentemente con l'ideologia dominante di massa, - il nuovo,
universale canone della interpretazione storica: si è buoni o cattivi, beati
o reietti, si entra o si esce dalla "storia", si è salvati o perduti, a
seconda degli umori del pubblico televisivo (e magari delle maggioranze di
governo o regionali) e ognuno (partigiano o repubblichino, torturato o
torturatore) non conta più per sé né per le ragioni e i valori di cui è
stato portatore, ma per lo spettacolino che, bene o male, gli è riuscito di
rappresentare sulla scena del passato (o, di conseguenza, su quella del
presente).
Cerchiamo d'immaginarci come fosse una città, una campagna, un paese
italiano negli anni terribili fra il '43 e il '45, quando la minaccia della
morte e della repressione gravava sull'intera comunità nazionale. Ci sono
due case vicine e molto simili, l'una accanto all'altra, abitate da famiglie
più o meno della stessa condizione. Una certa mattina da una delle due case esce un giovane, prende la strada dei boschi e sale in montagna, imbraccia l'arma che gli porgono e comincia a sparare contro i guardiani
dell'oppressione e dell'ingiustizia, gli alleati di una forza d'occupazione
feroce; dall'altra casa, esce un giovane, coetaneo dell'altro, si dirige
alla più vicina caserma, indossa la divisa delle Brigate nere e comincia a
sparare contro il primo e se lo prende lo appicca ad un albero, come a
Bassano del Grappa, a Padova, ecc. ecc. Il senso della storia è che al primo dobbiamo quel che non avevamo, cioè quel tanto di libertà e giustizia che i tempi, particolarmente inclementi, ci hanno garantito; il secondo, se avesse avuto "ragione", ce ne avrebbe ancor più ferocemente privato che in passato.
Se la distinzione fra i due non è mantenuta, - se un qualsiasi italiano, se
un giovane di oggi non pensa che, se fosse accaduto a lui di trovarsi in
quella situazione, si sarebbe affiancato a quel suo antico coetaneo che
saliva lungo quel sentiero verso un destino di precarietà e di sofferenza -
non vuol dire soltanto che si legge male la storia del passato: vuol dire
che della libertà e della giustizia non ce ne importa nulla oggi. Ma questo
è il vero senso della storia, oggi. Si rilegge il passato in quel modo
perché si vive il presente in questo modo. Lo schema
ideologico-storiografico è perfettamente funzionale allo schema
ideologico-politico: anzi, questo determina quello. In formule subdole e
striscianti avanza in Italia una nuova forma di pensiero fascista, che
tende, per ora cautamente, a ricollegarsi all'esperienza storica passata e,
appunto, a giustificarla, a raddrizzarla, a rimetterla sul piedistallo da
cui era caduta. La manovra a tenaglia fra operazione politica e operazione
intellettuale è di giorno in giorno sempre più evidente. E siamo appena
all'inizio.

(La Repubblica, 13 novembre 2000)

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