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Dibattito

Resistenza e revisionismo

"Revisionismo. Intervista a Claudio Pavone"

di Simonetta Fiori

«E se la smettessimo di parlare di revisionismo e antirevisionismo? I
termini, applicati alla storiografia, mi appaiono ormai svuotati di senso.
O, ancor peggio, fattori di confusione». Può sembrare strano che a lanciare
l’appello sia lo studioso che ha maggiormente innovato la storiografia
resistenziale, Claudio Pavone, 80 anni (li compirà il 30 novembre),
caposcuola del filone revisionista di sinistra non sempre applaudito dalla
stessa sinistra. Può sembrare bizzarro che proprio lui ora invochi il
silenzio su queste etichette storiografiche, ma in realtà la sua posizione
è tutt’altro che sorprendente. Lo spiega diffusamente in un saggio del nuovo
volume Fascismo e antifascismo. Rimozioni, revisioni, negazioni (a cura di
Collotti, Laterza, pagg. 535, lire 55.000) e vi ritorna con forza in
questa intervista. 

Professore, ma perché non dobbiamo più parlare di revisionismo?
«Perché bisogna chiamare le cose con il loro nome. Revisionare continuamente se stessi è un obbligo morale per tutti, storici e non storici. Ma l’uso che oggi viene fatto della parola è sviante. Il revisionismo, nel dibattito attuale, rappresenta una posizione politica, che poco ha in comune con la ricerca storiografica. Intendiamoci: uno storico è libero di scrivere un
articolo di fondo sul Corriere della Sera, ma non pretendere con ciò di
rinnovare la storiografia. Il fatto è che l’uso immediatamente politico
della storia viene presentato come uso scientifico. Con il risultato di
confondere il dibattito - anche quello alto intorno all’uso pubblico della
storia suscitato da Habermas - e di intimidire chi è su posizioni diverse».
In che modo?
«Si presentano le proprie tesi come le uniche finalmente e coraggiosamente
libere, innovative, non allineate a una cieca vulgata, spingendo gli
avversari nel cono d’ombra dell’ortodossia. Gli antagonisti sono liquidati
come vecchi barbogi, orfani del Partito d’Azione o del Pci. Anche a sinistra
c’è chi è caduto nella trappola, preferendo il silenzio all’accusa di
ortodossia».
Il timore è di passare per brontosauri.
«Una patente ingiustificata. Molti dei pilastri di quella che viene definita
sprezzantemente la vulgata antifascista sono stati da tempo rimessi in
discussione proprio a sinistra, e in particolare da giovani studiosi
provenienti dal movimento del Sessantotto. Ma i "neorevisionisti" fingono di
non accorgersene».
Per questo le piacerebbe che la parola revisionismo scomparisse dall’ambito storiografico?
«Sì, il termine significa ormai soltanto cambiare il segno valutativo di
fatti noti e accertati. In uno degli articolo sul Risorgimento pubblicati di
recente da Il Foglio, Adriano Sofri ha ricordato che lo storico Nello
Rosselli, fratello di Carlo, ebbe rispetto per il fratello di Pisacane, un
generale fedele ai Borboni, ma mai "avrebbe attenuato di un millimetro l’
adesione al Risorgimento e al suo lascito inadempiuto". Mi sembra un memento utile a coloro i quali ritengono che studiare la Repubblica Sociale
Italiana, com’è necessario e come fanno soprattutto studiosi di sinistra,
significhi equipararla alla Resistenza».
Lei sostiene che i "neorevisionisti" usano la storia per fare politica.
«Sì, grazie anche al rilievo che danno loro i media. Il risultato è che si
va sedimentando un nuovo senso comune storiografico, sciatto e deformato. Se oggi domandi a un ragazzo non particolarmente acclto chi ha governato per quarant’anni questo paese, c’è il rischio che ti risponda: i comunisti. Se appena più sofisticato, aggiungerà: con il sostegno degli ex azionisti, loro servi sciocchi. Una storia d’Italia alquanto bizzarra».
E questo è colpa dei "neorevisionisti"?
«Attenzione! Tra loro ci sono anche validi studiosi che continuano a
studiare e a far ricerca. Ma c’è anche chi, influente storico di professione
o affermato giornalista - Ernesto Galli della Loggia e Paolo Mieli - usa la
storia come strumento di lotta politica immediata e contingente. Hanno
ovviamente tutto il diritto di farlo, ma nel momento in cui lo fanno non
operano da storici».
C’è qualcosa che la irrita in particolar modo?
«La presunzione con cui si dà per scontato di essere gli unici veri e
"obiettivi" storici, relegando gli altri tra gli epigoni d’una storia
ufficiale e di regime. Quel che mi preoccupa è che così si crea un clima di
conformismo, che potrebbe influenzare i ricercatori più giovani».
Secondo lei c’è una relazione tra la vague neorevisionista e la cifra
clericale che caratterizza l’attualità italiana?
«Senza dubbio. Un legame ricco di contraddizioni, che sarebbe interessante
indagare. S’è cominciato col sostenere che l’Italia è priva di un’identità
nazionale perché la patria è morta l’otto settembre del 1943. E’ la tesi di
Galli della Loggia che, condotta alle estreme conseguenze, significa:
perché la patria non morisse, la guerra doveva vincerla il fascismo, che è
un argomento proprio della propaganda di Salò. Su questa tesi s’è innestata la vecchia litania che l’unico vero collante di questo paese è il
cattolicesimo: la Roma onde Cristo è romano, secondo l’espressione cara ai clericofascisti. Questo è un tema proprio dell’antirisorgimento. Così
abbiamo assistito a un curioso paradosso: da posizioni programmaticamente laiche e liberali, alla ricerca di uno stimolante dialogo con i cattolici, una rivista come Liberal — periodico rappresentativo dei "neorevisionisti" — è scivolata verso una sorta di neoguelfismo, che ha fatto da ponte tra il revisionismo dell’antifascismo e della Resistenza e quello del
Risorgimento, aprendo la strada al cattolicesimo più retrivo. La
beatificazione di Pio IX è caduta in questa temperie. Ma c’è di più».
Cos’altro, professore?
«Plaudire al Sillabo significa spostare indietro d’un secolo e mezzo le
lancette dell’orologio, ributtando con cinismo addosso ai cattolici più
sensibili problemi antichi e dolorosi che era stato loro merito superare,
percorrendo un cammino difficile innanzitutto per le loro stesse
coscienze».
Ma quali vantaggi i "neorevisionisti" possono trarre da una restaurazione clericale?
«Sono rilevanti settori della borghesia che guardano con favore a una sorta
di neotemporalismo come strumento per mantenere le loro posizioni di
vantaggio ed alimentare i propri pregiudizi. Un tempo era la Dc a
provvedere, oggi la Chiesa interviene in prima persona, con variopinti
corteggi. Così il governatore della Banca d’Italia va alla messa in memoria
degli zuavi di Porta Pia».
Ma secondo lei — a proposito di questa curiosa miscela tra clericalismo e falso liberalismo — è legittimo parlare d’una nuova egemonia?
«Sicuramente è in atto una lotta per esercitarla. A una nuova egemonia
aspirano sia il fondamentalismo cattolico che il moderatismo travestito da
liberalismo. Sono filoni clli assai diversi eppure oggi convergenti. Ma mi
domando come possano convivere il fondamentalismo rozzo e il liberismo
senza regole. Ovvero le posizioni d’un Ratzinger e di un Biffi, che mette
al bando gli immigrati musulmani, e la necessità di manodopera del terzo
Mondo, cui sottobanco aspirano gli imprenditori».
E la sinistra, in tutto questo, è senza colpe?
«Tutt’altro. S’è genuflessa al cospetto del pontefice, percuotendosi il
petto e recitando: gli unici ad avere valori siete voi… Mi domando ad
esempio perché il valore della solidarietà venga fatto risalire all’ottocentesca dottrina sociale cattolica e non al pensiero socialista, figlio
della tradizione democratica».
In un recente fondo su questo giornale, Sandro Viola ha lamentato una sorta di letargia da parte degli intellettuali laici e di sinistra.
«Viola esagera un po’, colpito forse dal gran fracasso prodotto da
"neorevisionisti" e neoguelfi. Sicuramente gli interventi dei laici hanno
tonalità più basse rispetto alle grida della controparte, ma c’è una valida
produzione storiografica che smentisce il sospetto di afasia. Viola ha però
ragione nel lamentare un eccesso di timidezza».
Sta dicendo che gli storici di mezz’età non eccellono in coraggio leonino?
«Non dico questo, perché ce ne sono di ottimi".

(La Repubblica, ottobre 2000)

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