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Dibattito

Resistenza e revisionismo

"La Resistenza smitizzata ora che si può parlare male di Garibaldi"

di Claudio Magris

Un tempo era vietato - o almeno disdicevole politicamente e moralmente scorretto - parlare male di Garibaldi ovvero della Resistenza. Chi sollevava critiche o dubbi nei riguardi dell'immagine ufficiale e oleografica di quest'ultima incorreva in una specie di delitto di lesa maestà, come chi offende la patria attraverso il vilipendio di uno dei suoi padri fondatori quale l'Eroe dei due mondi. A criticare la Resistenza erano i suoi sconfitti avversari della destra più o meno radicale, che nel dibattito politico - culturale nazionale non avevano voce in capitolo e non venivano presi in
alcuna considerazione. Da alcuni anni la situazione è mutata e la Resistenza non è più oggetto di liturgia, bensì (in innumerevoli pubblicazioni, interventi, seminari e convegni, fino a quello recentissimo svoltosi a Roma nella sede della Fondazione Basso) di discussione - ora aperta e serena, ora vigorosamente polemica, ora livorosamente querula e supponente. Sono stati, giustamente, sbriciolati i pilastri del monumento ufficiale della Resistenza. Allo stereotipo della sua compattezza si è contrapposta l'analisi della sua complessità anche eterogenea e lacerata da conflitti. Sono state messe in evidenza le diversità e contrapposizioni fra i resistenti azionisti, comunisti, cattolici, monarchici, liberali, repubblicani, le differenze di fondo tra l'antifascismo democratico e quello comunista e tra i due modelli di società per i quali essi si battevano. Giustamente si è proclamato che la Resistenza è stata una guerra civile ossia tra due Italie, e non tra l'Italia e una banda di delinquenti; interpretazione, quest'ultima, insostenibile al pari di quella di Croce che, per difendere il liberalismo da qualsiasi ipotesi di responsabilità nei confronti del fascismo, cercava di convincersi che
quest'ultimo fosse nato dalla storia e dalla società dell'Italia liberale, bensì fosse un'esplosione irrazionale arrivata chissà da dove, un'invasione barbarica come quella - egli diceva - degli Hyksos in Egitto.
L'interpretazione semplificatrice e paludata - che diviene uno strumento ideologico di potere di una classe politica - non è prerogativa della classe dirigente uscita dalla Resistenza, come spesso vorrebbe un revisionismo fazioso il quale volentieri dimentica che, se la Resistenza è stata una guerra civile e il rispetto dovuto a chi vi si trova coinvolto e travolto - la parte che ha vinto era quella indiscutibilmente migliore, quella che si è oggettivamente battuta per l'umanità e la libertà.
Giustamente si mette in evidenza come la Resistenza antifascista, usante quale collante ideologico dell'Italia repubblicana, sia pure servita al partito comunista, quand'era ancora totalitario e staliniano, a darsi una legittimazione democratica. Si dimentica spesso però di aggiungere che quel collante ideologico è servito pure alla classe dirigente centrista per dare un colore progressista alla sua lotta contro il comunismo, grazie a un antifascismo ridotto a grancassa e alla segregazione (a fatti e soprattutto a parole) dell'estrema destra in un ghetto.
Questo fervore di studi e discussioni - ben più complesso e articolato di quanto sia possibile riassumere in questa sede - permette, forse per la prima volta, di scorgere nella Resistenza un fondamento essenziale del Paese, proprio perché la libera da falsificazioni retoriche. Anzitutto va detto che queste ultime condizionavano il linguaggio ufficiale di molti politici e intellettuali, ma non la consapevolezza della maggioranza delle persone, spesso più libere, ragionevoli e razionali di chi, a furia di parlare e pensare secondo i modi e le forme del proprio ambiente (politico, accademico,
giornalistico, televisivo), finisce per restarne prigioniero, per scambiare la lingua, del proprio clan per l'unica lingua del mondo e dimenticare il mondo che sta fuori dalla porta di casa sua. Chi, in tutti questi decenni del dopoguerra, è cresciuto spiritualmente in un antifascismo libero da enfasi ha sempre chiaramente saputo che l'antifascismo non era la ricetta del paradiso terrestre né era privo di limiti e contraddizioni, ma non per questo ha creduto di meno nel valore essenziale del suo buon combattimento contro il Leviatano. Non occorreva e non occorre essere un genio per
sapere che la Resistenza, come ogni guerra civile, ha la responsabilità e la colpa di errori e orrori, che la sua vittoria non avrebbe instaurato una volta per sempre un mondo definitivo di giustizia, bensì avrebbe solo creato - ma è un merito enorme - le possibilità per il difficile, prosaico lavoro quotidiano inteso a rendere il mondo un po' più giusto, anche di pochissimo.
Abbiamo sempre saputo:che il partito comunista - al cui tributo di sacrificio e di sangue l'antifascismo deve un apporto incancellabile - perseguiva, oltre alla Liberazione, pure altri scopi e abbiamo sempre saputo - e scritto, anche quando tali temi non erano all'ordine del giorno del dibattito politico-culturale - di Malga Porzus o delle foibe, pure sul "Corriere". Forse anche per questo a molti di noi sembra comico sentire lezioni di anticomunismo da chi ancora negli anni Settanta credeva nella lotta armata contro il sistema borghese considerato infame e dato per morente.
Tutto ciò permette di scorgere autenticamente, con la chiarezza della verità e non nelle nebbie dell'idolatria, il senso e il valore dell'antifascismo e della resistenza che esso ha opposto al fascismo e al nazismo. E' verissimo, come ha scritto Giovanni Belardelli, che rispetto alle aspirazioni umane che trascendono un momento storico limitato - come quelle espresse da socialismo, liberalismo e democrazia - l'antifascismo è legato a una stagione particolare. Anche per tale ragione, un concetto e un sentimento corretto dei valori storicamente vissuti e difesi dalla Resistenza impedisce - e ha sempre impedito a ogni persona che non fosse un imbecille - di usare indiscriminatamiente la parola "fascista" come un insulto rivolto a tutto ciò che si giudica negativamente, "come una metafora del nemico totale", ha
scritto Paolo Conti. Ma l'antifascismo è stato la forma che quelle aspirazioni ideali umane generali hanno assunto in un preciso momento storico; forma limitata, ma perciò concreta e quindi espressione concreta, in quel momento, dell'universale-umano. A volerlo oggi scordare sembra essere non solo una neodestra pacchiana, ma anche una sinistra insicura e petulante, ansiosa di far dimenticare la sua storia, anziché assumerne l'eredità di grandezza e miseria, smaniosa di diventare non già liberale bensì radicaloide. Ci si lamenta o compiace che l'antifascismo non sia più un mito fondante; può essere invece fondante proprio e solo perché non è più un mito. Il valore di una visione dei mondo si afferma solo quando la
si libera dall'imperiosa rigidezza del mito e dell'idolatria. Può essere bene parlare anche male di Garibaldi; tanto, diceva Croce, Garibaldi rimane Garibaldi anche se ha scritto alcuni brutti romanzi.









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