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Donne, la Resistenza "taciuta"
L'esclusione delle donne nella
società fascista
Per consolidare il proprio regime improntato sull'autoritarismo,
Mussolini adottò una politica anti-femminista, che impose alla donna l'esclusivo ruolo di
madre-casalinga e facendo così della maternità, oggetto di pubblica esaltazione, a
sostegno della forza nazionalista dello Stato.
Le donne, intese come portatrici di interessi privati (familiari)
furono così escluse da tutto ciò, che aveva attinenza con la sfera pubblica; anche la
questione demografica fu affrontata in nome del superiore interesse dello Stato, in
termini di quantità, anziché di qualità.
Allo scopo di incrementare le nascite, lo Stato fascista vietò l'uso
di anticoncezionali e il ricorso all'aborto, nonché qualsiasi forma di educazione
sessuale.
Come si è accennato, ogni aspetto della vita delle donne fu
subordinato agli interessi dello Stato, al punto da negare, in assoluto, ogni forma di
emancipazione femminile.
Le femministe storiche, in testa alle quali si ricorda Anna Kuliscioff,
per la sua coraggiosa battaglia, a favore dell'estensione del voto alle donne, dopo la
sconfitta del 1925, furono costrette a volgere il loro impegno nel volontariato sociale o
nell'attivismo culturale, ma con crescenti ostacoli e limitazioni.
Il diritto di famiglia, disciplinato dal 1865 dal Codice Pisanelli,
improntato sulla supremazia maschile, precludeva alle donne ogni decisione, di natura
giuridica o commerciale (atti legali e notarili, stipule, contratti, firme di assegni e
accensione di prestiti), senza l'autorizzazione del marito o del padre.
La stessa tutela dei figli era esclusiva prerogativa maschile.
Anche la Chiesa, ostile all'emancipazione femminile, attraverso
l'enciclica papale Arcanum del 1880, esaltò il ruolo della maternità e dei valori
della famiglia, contrapponendoli alla modernità, portatrice di corruzione dei costumi.
Dal 1926, con la soppressione di tutti i partiti politici, fenomeno che
imbavagliò la stampa nonché l'attivismo femminista delle socialiste e delle giovani
militanti del P.C.I., il regime riconobbe solo due movimenti femminili: quello fascista,
che venne incoraggiato e quello cattolico, che fu tollerato.
"Lo scopo della vita di ogni donna è il figlio. [
] La sua
maternità psichica e fisica non ha che questo unico scopo". Così si legge in un
manuale di igiene, divulgato dal regime alla fine degli anni '30.
Non a caso, tra i fasti imperialisti del ventennio, si annoverano le
cerimonie presiedute dal Duce, con le quali li madri più prolifiche ottenevano
riconoscimenti ufficiali e privilegi.
Nel suo romanzo Pane Nero, Miriam Mafai evidenzia come la
politica fascista e l'ideologia cattolica "si intrecciano e si sostengono a vicenda,
imponendo alla donna un destino tutto biologico" e la sua subalternità nella
famiglia e nella società.
Fra le prime misure pro-nataliste, introdotte dal regime, peraltro con
evidenti intenti punitivi, ricordiamo la c.d. tassa sul celibato (D. L. 2132 del
19/12/1926), che da molte donne fu considerata come l'unico provvedimento normativo, a
sfavore dell'uomo.
La funzione procreativa femminile, come si è preannunciato, determinò
un progressivo allontanamento della donna dalla sfera pubblica.
La riforma della scuola fascista, che ai giorni nostri è ricordata
ancora con il nome del suo promotore, Giovanni Gentile, Ministro dell'Educazione Nazionale
(1922-1924) fu improntata su due precisi obiettivi: inculcare nei giovani l'ideologia
dello stato fascista e selezionare e promuovere solo l'elite, in modo da far accedere
all'istruzione secondaria e all'Università, un numero ristretto di studenti, provenienti
dalle famiglie più agiate. La riforma Gentile era "dichiaratamente
anti-femminile", come sottolinea la storica Victoria De Grazia in Le donne del
regime fascista: "per essere pregiata, rispettata, esaltata, la donna doveva
accettare e non tentare di negare i limiti della sua diversità".
Negando alla donna qualsiasi capacità come educatrice, la riforma
della scuola, operata da Gentile, produsse una vera e propria defeminilizzazione del corpo
insegnante.
L'insegnamento di molte materie fu precluso alle donne: esse non
poterono accedere ai concorsi pubblici per insegnare nei licei lettere, latino, greco,
storia e filosofia o per insegnare italiano negli istituti tecnici.
Un Decreto Legge del 05/09/1938, infine imponendo una riduzione al 5%
del personale femminile, impiegato nella Pubblica Amministrazione, rappresentò il culmine
della discriminazione sessuale.
Poiché le opportunità occupazionali per le donne, andarono
drasticamente riducendosi, sino allo scoppio del secondo conflitto bellico, ogni ragazza
non riceveva incoraggiamenti a proseguire gli studi.
La controtendenza al fenomeno del calo occupazionale femminile iniziò
a manifestarsi nel 1940 e ad accentuarsi per tutta la durata della seconda guerra
mondiale, perché giovani e meno giovani furono chiamati alle armi e i loro posti di
lavoro furono così ricoperti da mogli, sorelle e donne che si ritrovarono,
all'improvviso, nella necessità di provvedere al sostentamento di famiglie con prole
numerosa e private del capo-famiglia.
(a cura di Katia Romagnoli)
IL
LIBRO
Le donne durante il fascismo dovevano accontentarsi di
vivere secondo lo slogan alato di Benito Mussolini «per obbedire, badare alla casa,
mettere al mondo figli e portare le corna» e poi dovevano stare nell'ombra, perché il
mondo in cui si trovavano era un mondo di soli uomini. Alcune di loro, poche, andando
controcorrente erano riuscite a balzare in primo piano, a diventare Le signore del
fascismo . Marco Innocenti le racconta nelle loro passioni e nelle loro tragedie,
offrendoci di ciascuna un ritratto breve eppure completo, eroine che sono perfino entrate
nella storia del Ventennio, quasi tutte per amore. Sono Rachele Mussolini la massaia, Edda
Ciano la ribelle, Claretta Petacci la romantica, Margherita Sarfatti l'intellettuale,
Maria José la frondista, Alida Valli la fidanzata d'Italia, Doris Duranti l'orchidea
nera, Luisa Ferida bella da morire, Wanda Osiris la leggenda, Liala la penna alata, Ondina
Valla il sole in un sorriso: così, più o meno, venivano definite dai giornali
dell'epoca. A queste, l'autore ne aggiunge altre, senza nome: l'incarnazione del sogno
erotico degli anni Trenta, la Signorina Grandi Firme inventata dal duo
Zavattini-Boccasile, e l'adolescente, anzi le adolescenti soldatine della Repubblica di
Salò, che vediamo in una fotografia, così miserelle nella divisa autarchica, il
moschetto in presentatàrm e gli occhi bassi. Loro con le «signore» sicuramente hanno
pochissimo da spartire. Ma tornando alle grandi donne, quella che è uscita meglio dal
fascismo è la Wandissima, forse perché non si è lasciata travolgere dalle solite
avventure coi gerarchi - per i quali peraltro valeva il motto «molte donne molto onore»
-, e continuò a scendere le sue celebri scale anche negli anni Cinquanta, avvolta in
piume di struzzo e nuvole di Arpège, per poi invecchiare tranquillamente nella sua bella
casa milanese dove infine è morta a 89 anni. Anche la Sarfatti è morta ultraottantenne
nella villa di Cavallasca, vicino a Como, ma ha dovuto girare il mondo e fuggire,
soprattutto dai suoi ricordi, quello dell'uomo a cui per vent'anni era stata unita dal
cocktail fortissimo di sesso e potere, e quello del feroce colpo di spugna con cui lui
l'aveva infine cancellata: a Palazzo Venezia le aveva mandato in anticamera il maggiordomo
a dirle che ogni attesa era inutile, il Duce non l'avrebbe ricevuta mai più.
MARCO INNOCENTI
Le signore del fascismo
Mursia, Milano 2001
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