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La Liberazione di Roma: 4 giugno 1944

di Lucio Villari

Ricorre oggi un anniversario (il cinquantasettesimo) che continua a meritare il ricordo. Il 4 giugno 1944 Roma fu la prima capitale dell’Europa occidentale ad essere liberata. Mentre le avanguardie americane erano acclamate da una folla incredibile, soprattutto donne, riversatasi sulle vie Appia, Tuscolana e Casilina, gli ultimi reparti tedeschi scomparivano sulle vie Flaminia e Cassia. Fu una liberazione pacifica: qualche isolato colpo di fucile e poi l’attonita festa attorno ai carri armati ed alle jeep della Quinta armata. Ma quando Roma fu liberata non era la capitale d’Italia. Da nove mesi Roma non era più niente. Non apparteneva neanche ai romani, sorvegliati e puniti da un comando militare straniero, da una polizia spietata, da tristi funzionari fascisti. Roma non possedeva più un volto, né era più possibile una qualche proiezione simbolica - politica o religiosa che fosse - che in qualche modo la salvaguardasse veramente. Il regno d’Italia aveva la capitale a Salerno, e l’unico Stato che avrebbe potuto rivendicare Roma capitale, la Repubblica Sociale, si era ben guardato dal farlo. Il capo di
questo Stato, Mussolini, non volle mai metter piede nella città che pure aveva plasmato a misura sua e dell’ideologia del fascismo. Se fosse venuto, gli sarebbe apparsa irriconoscibile.
Ai primi di giugno l’Italia era realmente tagliata in due parti uguali, e la ferita sanguinava proprio a Roma, la città res nullius la cui sola identità era nell’essersi proclamata città aperta e la cui protezione virtuale era data dalla presenza di un altro Stato, la Città del Vaticano. Ma queste condizioni particolari non avevano impedito i bombardamenti alleati del 1°, del 3 e del
19 marzo e le terribili incursioni sui Colli Albani (a Castel Gandolfo il 10 febbraio erano morte sotto le bombe 500 persone). La tranquilla, pulita, ordinata Roma di appena un anno prima era non più riconoscibile: macerie in varie zone della città; la popolazione più che triplicata da sfollati, immigrati, soldati, avventurieri, borsari neri; masse di persone che al coprifuoco e durante le retate sparivano all’improvviso lasciando le strade vuote e silenziose.
Il 3 giugno, mentre i soldati americani (a loro fu lasciato il privilegio di entrare a Roma) si apprestavano al balzo finale, la città fu tagliata in due: linea di confine il Tevere ed i ponti controllati senza molta convinzione dalle mitragliere tedesche. Silenzio ed attesa. I romani tendevano l’orecchio al rombo delle artiglierie alleate e, come in sogno, all’imbrunire, cercavano i lampi baluginanti a sud. Dopo quattro mesi dallo sbarco ad Anzio, un tempo lunghissimo, snervante, qualcosa stava dunque accadendo. Dall’altro lato del Tevere, al Teatro dell’Opera si alzava intanto il sipario sul «Ballo in maschera» (sì, alcuni teatri e molti cinema funzionavano) e qualcuno tra gli spettatori avrà sorriso ascoltando sul finale, l’addio, «Diletta America» cantato da Beniamino Gigli.
Alle 8 del mattino successivo l’America, nelle persone del generale Mark Clark e degli ufficiali del suo stato maggiore e con la spettacolare potenza di un esercito vittorioso, entrava finalmente a Roma. La libertà di Roma schiudeva lo scenario storico dell’inevitabile sconfitta della Germania nazista. In quelle stesse ore infatti una immensa flotta alleata approdava in
Normandia.

(da "Corriere della Sera", 4 giugno 2001)

 

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