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la resistenza romana
La Resistenza a Roma: donne e
quotidiano
La situazione alimentare: la
memoria
Il problema dell’alimentazione è
forse una delle piaghe che ogni guerra si porta dietro.
Non era possibile nascondere la situazione di estrema miseria e bisogno
nella quale la popolazione italiana si era venuta a trovare in particolar modo negli anni
e del dopoguerra. I tedeschi lo sapevano, i documenti lo dimostrano, e apparivano
addirittura meravigliati della capacità del popolo italiano di resistere in condizioni di
indigenza così drastica.
"[…] è talmente chiaro che le razioni di cibo sono
scarse, che qualunque dottore onesto confermerebbe che un uomo non può vivere così a
lungo senza danneggiare seriamente la sua salute".
E ancora in un altro documento:
"Come in tutta Italia, anche a Roma la distribuzione delle razioni
alimentari è insufficiente. La legislazione ha trascurato le esigenze basilari della
vita, poiché i generi alimentari che si possono ritirare con le tessere sono
insufficienti per il consumatore."
Sono documenti, questi, del dicembre del 1943, ed è incredibile come,
nelle fonti del Ministero dell’Interno, conservati presso l’Archivio Centrale
dello Stato, ci siano, fino al 1945, relazioni di Prefetti che parlano di "situazioni
preoccupanti", di generi alimentari che "difettano sul mercato", di
"condizione di gravissima crisi"che dunque permane a lungo a tormentare la vita
della popolazione italiana, già dilaniata dalla guerra e poi dall’occupazione.
La crisi, naturalmente, non riguardava solo il settore alimentare. Alla
fine della guerra il paese si trova in una drastica bancarotta; Togliatti, in procinto di
rientrare in Italia, lo riconosceva in uno dei suoi discorsi a Mosca:
"Il debito pubblico interno raggiunge i 406 miliardi. Ad essi
bisogna aggiungere circa 100 miliardi di circolante privi di ogni copertura, poiché
l’oro è scomparso completamente dalle casse dello Stato. Bisogna aggiungere ancora
alcune centinaia di miliardi di impegni dello Stato, la cui estinzione è stata rinviata e
ripartita in un periodo di trent’anni (tali per esempio, le pensioni ai militari,
invalidi di guerra e loro famiglie, il cui pagamento è stato rinviato, dal governo
fascista, a guerra finita!). Si tocca così la cifra fantastica di circa 1000 miliardi di
debiti, in un paese il cui reddito nazionale medio supera di poco i 100 miliardi
all’anno. Il fascismo ha letteralmente divorato le ricchezze del paese."
"La fame come la conoscevamo attraverso i libri, come la
immaginavamo, era un’avventura anzi un fenomeno, che conteneva in sé uno svolgimento
in curva da un principio ad una fine, fosse pure, questa fine, la morte. Era un
avvenimento quasi avulso dalla restante vita dell’individuo, faceva blocco a sé,
come una tragedia d’amore, una nascita, una disgrazia. Tra le tante cose essenziali
che abbiamo imparate nei Nove Mesi, anche questa imparammo, importantissima, che la fame
è un’atmosfera, un’atmosfera che uccide qualunque altro germe di vita. La fame,
non consente che di pensare alla fame, che di sopportare la fame"
Molte volte, ascoltando e leggendo le testimonianze della resistenza,
si trovano riferimenti all’incredibile condizione di impotenza che la fame comporta.
Probabilmente fu una delle piaghe più dolorose e più diffuse:
"Capimmo l’inutilità del lamento e quella della parola.
Furono nove mesi di silenzio, su Roma. Zitti gli uomini nelle loro tane, zitte le donne,
intente solo a frugare le campagne e le strade, in cerca d’ogni possibile alimento.
Non vi furono più razza e condizione. Vedemmo l’animale homo sapiens e la sua
femmina impiegare la propria giornata a vivere come, dai testi di zoologia avevamo
appreso, fanno i lupi, i coccodrilli, le balene. Guardarsi dal nemico agguattato a ogni
angolo e nutrirsi. Erano una caccia spietata, una ricerca ossessiva.".
In quei mesi a Roma si mangiava di tutto.
"Si faceva la fila per ore per comprare le cipolle, i broccoli, la
zucca. Alla chiusura del mercato c’erano donne che frugavano tra le immondizie per
trovare foglie e torsoli da cucinare. L’unica distribuzione sicura erano quei cento
grammi di pane testa, ogni giorno, pane fatto di segale ceci e segatura. "
Perfino i giornali femminili davano consigli su come cucinare senza
olio, senza sale, insegnavano a fare torte senza farina né zucchero, ad utilizzare tutto
senza buttar via niente. Significa che anche le donne della borghesia, il pubblico dei
giornali di moda, avevano necessità di centellinare ogni risorsa.
"Mio padre era un alto dirigente della Siae. Aveva guadagnato bene, per molti
anni. E abitavamo in una bella casa grande, sul Lungotevere. Ma non volle andare al nord.
Così nei nove mesi dell’occupazione non aveva uno stipendio fisso. Già avevamo
speso la maggior parte dei risparmi, eravamo parecchi in casa, con due fratelli nascosti.
Certi giorni non c’era proprio niente da mangiare in casa. Mia madre si vergognava
anche a uscire. Mio padre andava lui a prendere la minestra all’assistenza, e io
andavo con lui, così ce ne davano due razioni. Quando fu la stagione delle fave facevamo
bollire le bucce e le passavamo al setaccio per farci la minestra. Per mesi in casa mia
non entrò nemmeno un goccio d’olio. Papà aveva comprato la casa, prima della
guerra, pagandola 70.000 lire, e adesso un fiasco d’olio ne costava 2000."
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