part.gif (12146 byte) Testata.gif (8044 byte)

home

   

      

la Resistenza romana

Partizan.gif (3053 byte)

Saggi

Roma “città aperta” nelle fotografie ufficiali dell’epoca

di Stefano Mannucci

Romani, dopo l’appello di S.M. il Re Imperatore agli Italiani e il mio proclama, ognuno riprenda il suo posto di lavoro e di responsabilità. Non è il momento di abbandonarsi a dimostrazioni che non saranno tollerate. L’ora grave che volge impone ad ognuno serietà, disciplina, patriottismo fatto di dedizione ai supremi interessi della Nazione. Sono vietati gli assembramenti e la forza pubblica ha l’ordine di disperderli inesorabilmente. Badoglio”.

Così era scritto in un manifesto affisso sulle mura di Roma il 26 luglio del 1943, e fotografato dagli operatori dell’Istituto Luce.

Quando la radio aveva annunciato la destituzione di Mussolini, gli operatori dell’Istituto, che per tutto il Ventennio avevano ripreso le adunate oceaniche di Piazza Venezia e le acclamazioni popolari ai discorsi del duce, si gettarono di nuovo per le strade di Roma, questa volta con l’intento, però, di fotografare il consenso della popolazione alla decisione di porre fine al regime fascista.

Gli operatori del Luce fotografarono così la popolazione riversare nelle strade di Roma per acclamare Badoglio nella veste del nuovo Capo del Governo. Essi fotografarono la città imbandierata, nonché la folla di persone che gremiva via del Corso, via Nazionale, innalzando cartelloni con sopra scritto “W l’Italia libera”.

In una piazza Colonna riempita dalla folla, gli operatori del Luce ripresero alcune persone innalzare un cartello con sopra impressa la scritta “Piazza G. Matteotti”; per poi seguire le persone che, arrampicandosi su lunghe scale, iniziavano a demolire i fasci littori dalle mura dei palazzi.

Ma presto tali manifestazioni di esultanza popolare iniziarono ad essere sgradite al nuovo governo insediatosi, arrivando al punto di ordinare alle forze dell’ordine di sciogliere molti assembramenti con l’uso della forza, e così il Luce, dopo aver fotografato il popolo che si gettava nelle vie a distruggere tutti i simboli del fascismo che trovava lungo il suo corso, iniziò a riprendere anche i primi provvedimenti del nuovo governo Badoglio, i primi picchetti armati e l’affissione del sopra citato primo manifesto murale.

E bisognò aspettare la giornata del 15 agosto per trovare nuovamente fotografie di assembramenti popolari consentiti, quando gli operatori del Luce fotografarono la folla che riempiva Piazza San Pietro per acclamare Pio XII a testimoniare l’affetto ed il ringraziamento che la popolazione gli donava per aver visitato i luoghi colpiti dai bombardamenti, oltre alla riconoscenza per l’intervento e l’interessamento che la diplomazia vaticana aveva avuto nel far dichiarare Roma “città aperta”, riflettendo, così, come la popolazione romana ormai affidasse le proprie speranze soltanto alla Santa Sede ed al Papa[1].

Nei giorni dell’agosto del 1943, il Reparto Guerra del Luce, nel frattempo, tornò spesso a documentare gli effetti dei bombardamenti a Roma, riprendendo una cerimonia militare con la bandiera italiana a mezz’asta in segno di lutto, ma soprattutto fotografando i cadaveri che affioravano fra le macerie. Gli operatori del Reparto fotografarono i corpi morti di un gruppo di neonati, i cadaveri stesi sul selciato divelto davanti ad un asilo comunale nella zona romana di Tiburtina, i treni incendiati nella stazione Casilina, o i corpi senza vita che venivano ritrovati fra le macerie, o stesi nel mezzo della ferrovia bombardata. Ma queste fotografie furono tutte archiviate come riservate, a testimoniare come la censura sull’immagine fotografica continuasse, nonostante il cambio di governo.

Il Luce, per certi versi, nei giorni seguenti testimoniò emblematicamente anche la confusione in cui fu gettata la nazione, ed in assenza di vere e proprie direttive politiche su cosa fotografare, nei “quarantacinque giorni” di Badoglio, si concentrò a produrre un innumerevole quantitativo di fotografie sulla lavorazione del vetro a Murano, a Trieste, sulla produzione ortofrutticola di Chioggia, o effettuando un ampio servizio fotografico sulle varie fasi di lavorazione della sezione conserviera dell’industria Arrigoni.

E nessun operatore dell’Istituto si aggirò per Porta San Paolo, la mattina del 10 settembre, quando civili e reparti dell’esercito, dopo la fuga di Badoglio e del re, cercarono di resistere all’occupazione della città da parte dell’esercito nazista. Nessuna immagine fu ufficialmente prodotta dall’Istituto, e se vogliamo cercare qualche scorcio di quella giornata, lo possiamo rinvenire in fotografie di privati che riprendevano i resistenti nell’atto di difendere Roma dietro barricate improvvisate o proteggendosi dietro le vetture, opponendo, nonostante l’immenso divario di forze umane e militari che giocava a favore delle truppe del maresciallo Kesselring, una strenua e coraggiosa battaglia.

E prima di essere trasferito definitivamente a Venezia, dove dall’ottobre del 1944 sarebbe stato dotato di una spaziosa residenza a Sant’Elena dei Giardini, nel cineborgo della Repubblica di Salò, il Luce tornò ad aggirarsi per la città, per riprendere essenzialmente la costituzione del Partito Fascista Repubblicano. Gli operatori fotografarono le varie manifestazioni pubbliche, le visite degli esponenti del partito ad asili e sanatori, la messa e le manifestazioni alla memoria di Ettore Muti, le iscrizioni degli aderenti al partito, il maresciallo Graziani tenere il discorso del teatro Adriano, i valori di Montecassino portati a Castel Sant’Angelo, la Federazione Romana del PFR rendere omaggio al Milite Ignoto e all’Ara dei Caduti Fascisti, o confezionare i pacchi dono per sinistrati e sfollati.

Una rappresentazione fotografica che cercava di costruire l’immagine di un partito vivente ed ancora presente nella vita italiana. Ma la vera realtà della città iniziava ad essere tratteggiata in una delle ultime fotografie scattate dal Luce sul suolo romano, quando gli operatori ci consegnarono l’immagine di una Roma ormai pattugliata dai soldati tedeschi, a vigilare “sulla linea di confine a Piazza San Pietro”, come recitava la didascalia impressa nei registri dell’Archivio Fotografico del Luce.

Una volta trasferito l’Istituto, gli operatori del Luce raramente tornarono a Roma per fotografare gli eventi della città durante i mesi dell’occupazione nazista. Poche furono le fotografie scattate sul suolo romano, qualche raro spettacolo in onore dei feriti italo-tedeschi alla presenza di Pizzirani, qualche immagine raffigurante soldati alleati a marciare prigionieri per le vie del centro, pubblicate con sotto impresse didascalie quali: “Gli anglo-americani hanno visto Roma”; oppure le immagini dei bombardamenti angloamericani che continuavano a colpire la città, come l’ampia documentazione sui bombardamenti avvenuti nel marzo del 1944, fotografando gli effetti di tali bombardamenti sulla parrocchia di San Benedetto, al quartiere Ostiense, sulla Casa della Maternità alla Garbatella, sul convento delle suore Orsoline o sull’asilo d’infanzia in via Lorenzo il Magnifico.

Furono altri fotografi a rappresentare ufficialmente gli eventi della città. Accanto all’Istituto Luce, infatti, durante il periodo dell’occupazione nazista, operarono nella ripresa degli avvenimenti in Italia anche i vari fotografi tedeschi della Propaganda Kompanien dell’esercito, dell’aviazione, della marina e della Waffen-SS, presso le quali erano appunto distaccati i vari fotografi di guerra. I fotografi dipendevano dall’Oberkommando der Wehrmacht, cioè dalla sezione del comando supremo delle forze tedesche, incaricata della propaganda, ed a cui giungevano tutte le immagini, per essere sottoposte al vaglio della censura prima di poter essere distribuite alle agenzie di stampa[1].

Ed erano state proprio le PK, d’altronde, a fotografare la liberazione di Mussolini, il 12 settembre del 1943, a Campo Imperatore sul Gran Sasso, ritraendolo rattrappito in un cappotto col bavero rialzato, intento a salire su di un piccolo aereo.

E sarebbero state sempre loro molto spesso a consegnare alla storia la terribile testimonianza di molti eccidi perpetrati dai nazisti contro la popolazione civile italiana. Fotografie scattate con l’intenzionalità politica di elevare la morte a monito contro i partigiani affinché non continuassero la loro resistenza, fotografie scattate per una consuetudine militare di ritrarre immagini di morte violenta per esorcizzare la morte stessa, fotografie che poi sarebbero rimaste a testimoniare l’atrocità di quelle rappresaglie ed in molti casi furono anche utilizzate come prove giudiziarie durante i processi che si sarebbero avuti nel dopoguerra.

Molte di queste fotografie sono state raccolte da Mignemi e De Luna nel loro libro “Storia fotografica della Repubblica Sociale Italiana[2]”, ed osservando alcune fotografie, l’immagine risalente che i fotografi delle PK tratteggiarono di Roma, per certi versi, sembra quasi tessere una trasfigurazione della realtà cittadina.

Basti vedere quei servizi fotografici che forse intendevano propagandare l’immagine di una Roma senza alcun problema alimentare. Gli operatori ripresero i greggi e le piccole mandrie che attraversavano le piazze della città per essere portati al mattatoio, o  si aggirarono per i mercati rionali, fotografando banchi pieni di frutta, verdura e pollami. Una rappresentazione che stridente contrastava con le voci e le testimonianze che si levavano dalla popolazione a tratteggiare una realtà di continua fame, in una città in cui la distribuzione delle razioni alimentari sembrava sempre più divenire quantitativamente insufficiente, come veniva anche attestato nelle relazioni fiduciarie che riportavano il malcontento della popolazione e nei documenti del Ministero dell’Interno. Una rappresentazione che certo non fotografava la realtà di quei vasti settori della popolazione che venivano gradualmente stritolati fra le disposizioni che aumentavano il prezzo del pane, la distribuzione ritardata della razione di pasta, le speculazioni crescenti dei borsari neri.

Ma questa, d’altronde, era una rappresentazione che ricordava la coreografia fotografica effettuata dal regime fascista durante i primi anni di guerra, quando i fotografi del Luce si aggirarono per Roma a riprendere l’allestimento dei vari orti di guerra, con l’intento di attestare la produttività dell’agricoltura italiana, di enfatizzare la mobilitazione della popolazione, e ricollegare la rappresentazione dell’Italia fascista come continuazione storica dell’antica Roma, in cui il cittadino era dipinto come guerriero e contadino veterano.

Al fine di negare la drammaticità economica e sociale del paese, sin dall’estate del 1941, il Luce aveva così iniziato a fotografare i vari orti di guerra che riempivano gli spazi pubblici delle città. Gli operatori fotografarono gli orti di guerra di Villa Torlonia, nei giardini di San Giovanni, od ancora il 6 agosto del 1941 all’Università La Sapienza. In quest’ultimo caso, con l’ulteriore intento di propagandare l’impegno di tutta la società agli sforzi della guerra, gli operatori del Luce fotografarono alcune giovani studentesse sorridenti mentre raccoglievano delle patate nell’orto di guerra, impiantato nei giardini di fronte alla facoltà di “Fisiologia Generale”.

Gli orti di guerra iniziarono a riempire sempre di più ogni angolo delle città, ed il Luce, nel febbraio del 1942, fotografò il loro allestimento a Villa Umberto, a San Giovanni in Laterano, lungo viale dell’Impero, al Colle Oppio, per poi riprendere nell’estate successiva, la popolazione intenta nelle varie fasi della lavorazione e della trebbiatura del grano in piazza del Popolo a Roma[3].

Ancora più surreali sembravano i servizi fotografici delle PK che riprendevano le tranquille passeggiate nelle città, le persone sedute sui bar ad ascoltare musica e sorseggiare tranquillamente aperitivi, od appoggiati sotto un sole primaverile a leggere le ultime notizie dei giornali, così contrastanti con la realtà di una città schiacciata dal coprifuoco e attonita dalla paura dell’invasore. Alcune fotografie sembrerebbero scattate a ricordo di una situazione privilegiata che vivevano i soldati, come nelle immagini che ritraevano lo spettacolo di una ballerina in un locale notturno frequentato dalle truppe tedesche. Ma forse, a tali immagini, era anche soggiacente il disegno politico di propagandare il messaggio di come soltanto gli anglo-americani violassero con i loro bombardamenti lo status di “città aperta” della capitale.

>Immagini che certo sembrano assurde rispetto alla realtà di via Tasso 145, la caserma della Gestapo diretta dall’ufficiale Kappler, nel cui carcere durante i  mesi dell’occupazione nazista, furono rinchiusi e torturati civili e partigiani prima di essere deportati o fucilati a Forte Bravetta; rispetto alle continue torture perpetrate dall’aguzzino Koch[4] e dalla sua banda nella pensione Jaccarino, rispetto al numero di persone deportate, dal rastrellamento del ghetto ebraico a quello del Quadraro.

Una realtà che emerse agghiacciante oltre l’aspetto patinato delle fotografie di costume, quando dopo l’attentato partigiano in via Rasella, con cui fu annientata la 11° compagnia del terzo battaglione delle SS Polizei Regiment Bozen, le PK fotografarono il 23 marzo 1944 le fasi del rastrellamento, riprendendo un sottoufficiale del comando di Roma intento ad esaminare i resti della bomba, ma soprattutto immortalando i militari altoatesini del Polizei-Battaillon Bozen pattugliare la strada con le spalle al muro ed i fucili puntati alle finestre delle case.

Quelle case che furono crivellate di proiettili dai nazisti alla disperata ricerca di colpire gli esecutori dell’attentato. Una foga ed una voglia di vendetta che spinse i soldati ad arrestare chiunque passasse nei paraggi, prelevando dagli appartamenti e dai fabbricati da cui si pensava fosse stato sparato chiunque vi si trovasse in quell’istante, perquisendo abitazioni arrestando un gran numero di abitanti totalmente estranei al conflitto in atto. Una massa di arrestati, perseguiti, i cui volti compaiono in quelle fotografie, ritratti addosso alle mura di palazzo Pittoni, sotto lo sguardo vigile ed armato dei soldati.

E furono ancora le PK a fotografare le persone schierate davanti la cancellata del Palazzo Barberini, controllate a vista dai fucili spianati dei soldati del III battaglione del Polizei-Regiment Bozen e del battaglione Barbarigo della X Mas[5]. Visi di persone che poi sarebbero stati sottoposti a strenuanti interrogatori condotti con sevizie e senza alcun rispetto della dignità umana, testimoniando l’inizio di una foga di rappresaglia che culminò con l’eccidio delle Fosse Ardeatine, in cui 335 italiani furono uccisi per soddisfare la voglia di vendetta di Hitler e del comando militare tedesco operante in Italia.

E se nessuna immagine è stata rinvenuta di quei drammatici momenti, se la strage fu condotta nella più assoluta segretezza, è senz’altro vivida nel suo dolore la testimonianza lasciata dal documentario “Giorni di Gloria[6] relativa alla scoperta delle salme. Quelle immagini in bianco e nero a riprendere le ricerche degli scavatori nei cunicoli che i tedeschi avevano ostruito con le esplosioni dei genieri e con mucchi di immondizia per meglio occultare lo scempio da loro perpetrato. Quelle immagini a testimoniare il momento del ritrovamento di quei corpi ammassati in una lugubre piramide, sommersi dal terriccio causato dalle esplosioni, trasportati ormai irriconoscibili sopra i tavoli dove si sareb

be ricercato di ridonare loro quell’identità strappata dall’eccidio nazista. Visibili nelle immagini erano ancora le mani delle vittime legate con fili e corde dietro le schiene. E poi oggetti, soltanto oggetti appartenuti alle vittime, in molti casi unico legame possibile rimasto per donare un nome a quegli scheletri e teschi appartenenti a persone consumate dall’atrocità nazi-fascista. Orologi, frammenti di lettere, parole scritte per un ultimo addio od un’ultima preghiera, brandelli di stoffe, unico legame per effettuare un’identificazione altrimenti impossibile. Ed ancora le immagini strazianti del pianto e delle urla dei parenti, la disperazione dopo aver riconosciuto qualche caro fra i martiri delle Fosse Ardeatine. Ma anche il dolore composto di quei parenti che con la loro testimonianza raccontavano quelle giornate di smarrimento, quando non avevano notizie dei propri cari, e temevano quella sorte avversa che poi si sarebbe avverata.

E dopo qualche mese avvenne la Liberazione della città, e furono questa volta gli operatori foto-cinematografici a seguito delle truppe americane[7] a riprendere i momenti di quelle giornate. Gli operatori fotografarono i soldati all’ingresso di Porta Maggiore nella giornata del 5 giugno, per poi riprendere la popolazione festeggiare nelle vie della città, le ragazze sorridenti e le jeep americane con seduti sopra bambini e civili in festa. I fotografi ripresero un Altare della Patria gremito di soldati statunitensi accerchiati da una popolazione trepidante per la liberazione dai tedeschi. Nei giorni seguenti, gli operatori fotografarono le persone riunite in cerchio a leggere i giornali che annunciavano l’evento, come l’Avanti che recitava “Da Roma liberata un solo grido: Italia libera!” od il Tempo che annunciava “Le truppe anglo-americane sono entrate ieri a Roma”. Ma soprattutto si aggirarono per la città a fotografare i soldati americani offrire cibo ai civili dalle proprie scatolette o mentre si apprestavano a curare una ragazza ferita, nel cui viso era ancora vivida un’espressione di timore. Ed anche nei mesi successivi, gli operatori americani cercarono, attraverso le proprie fotografie, di testimoniare le attenzioni e l’interesse che i soldati apprestavano alla popolazione romana, come nelle immagini che ritraevano la coda di persone accorrere per ricevere assistenza alimentare al Centro Cucina Popolare n.15; per poi produrre le immagini di una serena amicizia fra i soldati e le ragazze del luogo, come quelle fotografie che ritraevano soldati intenti a passeggiare serenamente per strade o a farsi accompagnare per i monumenti della città da quelle ragazze sorridenti che nelle didascalie venivano indicate come le “segnorine”.

Una metodologia fotografica che pian piano pose le fondamenta nell’immaginario collettivo del mito del soldato americano liberatore. Emblematico esempio era l’immagine scattata nel centro di Roma, con un soldato americano sorridente in piedi sulla propria jeep a sorreggere un bambino, mentre le persone gremivano tutta via del Corso che si apriva sullo sfondo della fotografia, e visi esultanti salutavano e toccavano di gratitudine il soldato.

Una ripresa fotografica che, riprendendo il corpo del soldato in primo piano, gli conferiva la potenza e la statuarità, innalzandolo ala centro della fotografia e pertanto propagandando un messaggio di potenza, ma allo stesso tempo, ritraendolo intento a stringere e cullare al proprio petto un neonato, creava l’immagine degli Stati Uniti amici, protettori paterni dell’Italia.

Un’immagine paterna e protettrice degli Stati Uniti nei confronti dell’Italia, che in molte crisi del dopoguerra, e tutt’oggi durante il conflitto iracheno, è stata spesso fatta risaltare dalle forze politiche intenzionate ad avallare le decisioni internazionali americane.

Il soldato liberatore, il soldato protettore, che salvava la città dalla violenza nazista e donava carezze e cioccolato alla popolazione, la costruzione fotografica di un messaggio politico che sarebbe stato ricordato negli anni.

Ed infine venne il tempo della Roma dei processi che avrebbero condannato alcuni fascisti all’esecuzione capitale, come quelle avvenuta contro Caruso[8], o successivamente contro l’aguzzino Koch[9]. E furono ancora gli operatori americani a fotografare l’odio e la rabbia che tanti anni di dittatura fascista prima e occupazione nazista poi avevano creato negli animi della popolazione. Così possono essere lette quelle tremende fotografie che riprendevano la popolazione intenta a linciare Donato Carretta, direttore del carcere di Regina Coeli.  Fotografie che ritraevano il corpo di Carretta gettato nelle acque del Tevere, con la popolazione a fissare composta dai bordi del fiume il suo corpo cercare di tornare a galla ma sempre respinto da alcune persone che lo colpivano ripetutamente sulla testa con i remi di una barca,   a costringerlo ad affogare tramortito dentro il fiume,  prima di essere prelevato ormai senza più vita.

Ed anche il Luce, dopo aver fotografato la Liberazione di Venezia il 25 aprile, ritornò a Roma. Ma la sua attività fotografica oramai veniva sempre più messa in discussione dall’apertura concorrenziale di molte agenzie fotografiche. Il monopolio dell’immagine fotografica dettato dall’Istituto Luce oramai andava sempre più in frantumi. Sempre meno immagini furono prodotte, fin quando l’Istituto non sciolse definitivamente il servizio.

Ma proprio alcune delle ultime immagini prodotte dall’Istituto furono le fotografie che seguirono la seduta inaugurale della Costituente, riprendendo le varie personalità politiche che affluivano a Roma, per partecipare ai lavori di quell’assemblea che avrebbe dato una costituzione democratica all’Italia repubblicana.

 

Breve Bibliografia.

Chabod Federico, L’Italia contemporanea (1918-1948), Torino, Einaudi, 1961.

Colarizi Simona, L’opinione degli italiani sotto il regime (1929-1943), Roma-Bari, Editori Laterza, 1991.

De Luna Giovanni, Mignemi Adolfo (a cura di), Storia fotografica della Repubblica sociale italiana, Torino, Bollati Boringhieri, 1997.

Griner Massimiliano, La “banda” Koch. Il Reparto Speciale di Polizia, Torino, Bollati Boringhieri, 2000.

Insolera Italo, Roma fascista nelle fotografie dell’Istituto Luce, Roma, Editori Riuniti, 2002.

Katz Robert, Morte a Roma. Il massacro delle Fosse Ardeatine, Roma, Editori Riuniti, 1996.

Lualdi Aldo, La banda Koch. Gli anni bui della Repubblica di Salò, in Storia Illustrata, Anno XVI, N.171, Febbraio 1972, pag.86-98.

Lualdi Aldo, La banda Koch. Un aguzzino al servizio del regime, Milano, Bompiani, 1972.

Mignemi Adolfo, Storia fotografica della Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 1995.

Mignemi Adolfo, La seconda guerra mondiale (1940-1945), Roma, Editori Riuniti, 2000.

Olla Roberto, Combat film, Roma, RAI-ERI, 1997.

Troisio Armando, Roma sotto il terrore nazi-fascista, Roma, Mondini, 1944.

 

 

[1] Furono circa  3.500.000 le fotografie di guerra scattate dalle PK sui vari fronti, nelle retrovie o nei paesi occupati dalle truppe tedesche, fra il 1939 ed il 1945. Per l’archiviazione di tali fotografie esistono tre fondi: il Bild 101 I, che raccoglie le fotografie scattate dalle compagnie di propaganda dell’esercito e dell’aviazione; il Bild 101 II, che raccoglie quelle provenienti dalla marina; il Bild 101 III, che infine detiene la produzione delle compagnie di propaganda della Waffen-SS. A causa delle ingenti perdite subite durante la guerra e nel dopoguerra, il fondo Blind 101, conservato a Coblenza, è composto oggi da circa 1.100.000 fotografie restituite dagli Stati Uniti al Bundesarchiv nel 1962.

[2] De Luna Giovanni, Mignemi Adolfo (a cura di), Storia fotografica della Repubblica sociale italiana, Torino, Bollati Boringhieri, 1997.

[3] Identica rappresentazione fotografica fu effettuata nella città di Milano, dove gli operatori del Luce ed i fotografi privati della Publifoto, ripresero spesso i lavori di trebbiatura del grano negli orti di guerra sistemati nel centro della città ed all’ombra del Duomo.

[4] Per le violenze commesse da Pietro Koch e la sua banda durante il periodo della loro permanenza a Roma, vedi Griner Massimiliano, La “banda” Koch. Il Reparto Speciale di Polizia, Torino, Bollati Boringhieri, 2000; Lualdi Aldo, “La banda Koch. Un aguzzino al servizio del regime”, Milano, Bompiani, 1972.



[5] Per uno studio sistematico sugli avvenimenti di quei giorni a Roma, concernente sia la dinamica dell’attentato di via Rasella sia le violenze nazi-fasciste, vedi Troisio A., “Roma sotto il terrore nazi-fascista” e Katz R., “Morte a Roma”.

[6] Vedi Giorni di gloria, regia di Luchino Visconti, Marcello Pagliero, Giuseppe De Santis, Mario Serandrei. Produzione Titanus, ANPI, 1945.

[7] Vedi Olla Roberto, Combat film, Roma, RAI-ERI, 1997.

 

[8] Per le immagini relative a Caruso vedi ancora “Giorni di Gloria”.

[9] Le fotografie del processo e della fucilazione di Koch sono state pubblicate con l’articolo Lualdi Aldo, “La banda Koch. Gli anni bui della Repubblica di Salò.”, in Storia Illustrata, Anno XVI, N.171, Febbraio 1972, pag.86-98.

 

 

resistenza
res. roma
ricerca
anpi
scrivici
home         ricerca        

anpi

        

dibattito

        scrivici

 

.