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L'8 Settembre 1943
Re, ministri e generali, lo Stato in fuga. La cronaca delle
drammatiche ore di quell'8 settembre 1943
di Silvio Bertoldi
Alle
cinque della sera, lora fatale in cui Ignacio Sanchez, il torero di García Lorca,
affronta la morte nellarena, Vittorio Emanuele III comincia a prepararsi a lasciare Roma. È
l8 settembre 1943, un sereno mercoledì che prelude a un dolcissimo autunno,
e il re ha 74 anni. Il ministro della Real Casa, Acquarone, ha telefonato che il Quirinale
è ritenuto più sicuro di Villa Ada, meglio trasferirvisi. Sarà il primo passo di un
itinerario peraltro previsto e destinato, nellipotesi, a concludersi in Sardegna,
per sfuggire a una eventuale cattura da parte dei tedeschi. Si è pensato a tutto nel caso dun abbandono
della capitale: due cacciatorpedinieri dovranno prendere a bordo i sovrani e
portarli alla Maddalena, beni e oggetti preziosi sono già in Svizzera, sedici milioni,
per affrontare le prime esigenze, diciassette valigie per il viaggio, carte e documenti in
una borsa. Alle 18.15 precise la Fiat 2800 dellautista Baraldi varca il portone
della reggia. Vittorio Emanuele ed Elena si ritirano nei loro appartamenti. Il preludio
della fuga di Pescara è questo.
Ma gli avvenimenti
precipitano ed è difficile dar conto in breve dognuno di essi. La cronaca segnala
l'improvviso ritorno del sovrano a Villa Ada, come per un cessato allarme, e subito dopo
l'altrettanto improvviso ritorno al Quirinale per un improvvisatissimo Consiglio della
Corona. È ormai certo che Eisenhower annuncerà alla radio in
serata la firma dell'armistizio da parte dell'Italia e coglierà di sorpresa governo e
militari, impreparati all'evento e chissà perché convinti che l'annuncio
sarebbe stato dato il giorno 12.
Sicché non hanno fatto nulla di quanto era
previsto dagli accordi sottoscritti per fornire i mezzi richiesti dagli Alleati in
vista del lancio su Roma di una divisione paracadutisti: e quando, la sera del 7, due
ufficiali americani si erano presentati segretamente nella capitale per concordare le
comuni iniziative, tutti sono caduti dalle nuvole. Il generale Carboni, comandante della
difesa di Roma e delegato a riceverli, era a una festa; il capo di stato maggiore generale
Ambrosio proprio quel giorno era a Torino per un trasloco; Badoglio era a letto dalle
nove, Roatta cenava in famiglia e per quei due ospiti annunciatissimi era a disposizione
soltanto un colonnello che non parlava inglese e un principesco banchetto con cui si
sperava di addolcire la loro irritazione.
Alla fine arrivò
Carboni, andarono tutti da
Badoglio e lo svegliarono. Lui scese in vestaglia supplicando che si rimandasse ogni cosa,
in quelle condizioni c'era il rischio d'un fallimento, i due americani spedissero per
carità ad Eisenhower un telegramma di proroga, almeno per salvare i loro paracadutisti.
Sia pur di malavoglia, il telegramma venne spedito e quella fu la prima delle sciagurate
mosse del tragico balletto alla ricerca di una salvezza purchessia.
Il Consiglio della Corona
vede seduti intorno al re il primo ministro Badoglio, il generale Ambrosio, Carboni, De
Stefanis (per Roatta) e Puntoni, con i tre ministri militari, De Courten della Marina,
Sorice della Guerra e Sandalli dell'Aviazione, più Acquarone e un giovane addetto di
Ambrosio, il maggiore Marchesi. Comincia
il re, annunciando la firma dell'armistizio e i ministri militari, sbalorditi, esclamano:
«Armistizio? Noi veramente non ne sapevamo nulla».
Non ne sa niente nessuno, forse fingono, ma ormai è tardi per meraviglie e
recriminazioni. Si spera solo che Eisenhower accetti la proroga, tutto dipende da lì: e
quando il giovane maggiore Marchesi rientra annunciando che Eisenhower ha respinto ogni richiesta e proprio in
quel momento da Radio Algeri sta dando l'annuncio dell'armistizio, perdono tutti la
testa. Carboni propone di sconfessare la firma già messa, si dia la colpa a Badoglio
dicendo che avrebbe agito all'insaputa del governo. Ambrosio è d'accordo, qualsiasi
vergognosa trovata pur di non affrontare la reazione dei tedeschi, ai quali fino al
mattino di quello stesso giorno il re aveva assicurato che la guerra continuava come aveva
proclamato il 25 luglio (mentendo) il maresciallo Badoglio.
Solo all'intraprendenza
dello sconosciuto Marchesi che fece osservare quanto ignobile fosse quella disperata
ciambella di salvataggio in extremis, ricordando tra l'altro che gli Alleati avevano
filmato la resa di Cassibile e conservavano tutti i documenti sottoscritti dagli italiani
per sbugiardarci, si dovette se quei folli propositi furono accantonati e il re dicesse: «L'armistizio fu
firmato e si deve onorare l'impegno. Si terrà la parola». A quel punto, ciascuno per sé
e Dio per tutti. I sovrani passeranno al ministero della Guerra ritenuto più
sicuro, altri li raggiungeranno alla spicciolata, ma ci si dimenticherà di avvisare i
ministri e perfino quello degli Esteri, Guariglia, venne abbandonato a Roma. Badoglio
andò alla radio a leggere il suo messaggio, aspettando pazientemente che finisse il
programma di canzoni.
Nella notte accorre
affannato Roatta a comunicare che i tedeschi stanno attaccando dovunque, hanno già preso
Gaeta e Civitavecchia, bisogna lasciare subito la capitale e l'unica via libera è la Tiburtina che porta a
Pescara. Bisogna partire subito e alle 4.50 del mattino del 9 settembre prende il via la
carovana, con in testa l'auto del re, della regina e del generale Puntoni, poi le
altre con Badoglio, gli aiutanti di campo e il principe Umberto che si vergogna della fuga
e vorrebbe che almeno un Savoia restasse a Roma. Ma il padre gli ordina di seguirlo, S'at
più at massu , se ti pigliano ti ammazzano, alludendo ai tedeschi.
Seguono valletti,
cameriere, bagagli, autisti. Seguono, più tardi, i generali. Sul molo di Ortona, nella
speranza di imbarcarsi sulla «Baionetta» col re, saranno duecento. Lo stato maggiore è
stato sciolto, il comando supremo non esiste più: e nessuno che abbia avuto un moto di dignità, che abbia pensato
che si sarebbe dovuto combattere anche se la causa era persa, e non abbandonare
l'esercito al suo destino per salvare la pelle.
Il viaggio fu descritto
come avventuroso, con soste all'aeroporto di Pescara, trasferimenti nell'ospitale villa
della duchessa di Bovino a Crecchio in attesa dell'arrivo della corvetta «Baionetta» per
portare la comitiva in salvo a Brindisi: con l'indegno assalto alla nave sul molo di
Ortona da parte di fuggiaschi inferociti contro il re e Badoglio che li lasciavano a
terra. Si imbarcarono solo in 59,
gli altri abbandonarono automobili e bagagli e pensarono a mettersi in salvo in
qualche modo.
Resta il mistero su
quella fuga così oscura, su quella Tiburtina che non doveva essere controllata dai
tedeschi e invece li vedeva transitare ininterrottamente. Le macchine reali furono fermate
per tre volte dai tedeschi e sempre lasciate proseguire. Ogni volta si affacciava uno dei
fuggitivi e diceva «Ufficiali generali». Bastava per passare. Il viaggio sulla
«Baionetta» fu seguito momento per momento da un ricognitore della Luftwaffe, dal quale
furono scattate le fotografie che mostrano i reali seduti tristemente a poppa. Ce n'era
abbastanza per sospettare che
quel «trasferimento» fosse stato concordato con Kesselring, la salvezza dei sovrani e
del governo in cambio dell'abbandono di Roma?
Fu lo storico Ruggero Zangrandi il primo ad avanzare questa ipotesi, quando nel dopoguerra
alla testa delle istituzioni erano tornati proprio coloro che erano fuggiti al momento del
pericolo. Allora la sua tesi fu considerata eretica e ingiuriosa, Zangrandi fu trascinato
in tribunale, condannato e diffamato al punto di concludere la vita col suicidio. Al quale
concorsero certamente le amarezze patite e il discredito riversato su di lui. Oggi molti
cominciano a credere che forse qualcosa di vero in quella sua tesi poteva esserci, anche
se mancano le prove «accademiche» del suo asserto. Da tempo il viaggio reale verso Pescara ha cessato di essere
definito «trasferimento» e si parla apertamente di fuga, pur se c'è chi si
ostina a ritenerla necessaria per mantenere in territorio non occupato dai tedeschi (ma
pure sempre dagli Alleati) quanto restava delle istituzioni.
Però all'alba del 9
settembre, viaggiando in affanno sulla Tiburtina, alle istituzioni non pensava nessuno. E
quando, finita la guerra, una
speciale Commissione giudicò i responsabili della mancata difesa di Roma, non si trovò
un solo colpevole e tutto finì in assoluzioni e reintegri nelle carriere. Per
molti, anche negli stipendi. Arretrati compresi.
(Corriere della Sera, 7 settembre 2003) |