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Dossier: le Foibe e la questione di Trieste
I 2000 operai di Monfalcone
traditi da Tito e abbandonati dal Pci
di Marzio Breda
La guerra di memorie che negli ultimi cinquantanni
ha diviso lAlto Adriatico è coincisa con lodissea degli italiani fuggiti da
Fiume, Pola, Spalato e da cento villaggi dell«altro mare», davanti ai soldati di
Tito. Da allora è serpeggiato un conflitto di identità forse scontato in un periodo di
limite della storia come quello. Le «vittime» furono tante. In primo luogo i 350 mila
che partirono per lesilio, abbandonando tutto. E poi chi lesilio lha
sofferto in casa, rimanendo oltreconfine: i 35 mila «fratelli dIstria» schiacciati
dalla slavizzazione. Infine 2.000 altri uomini imbarazzanti per tutti, e perciò
dimenticati, che in quegli stessi giorni diedero vita a un controesodo su cui è calata unamnesia
generale: la loro sfortuna fu di essere sempre «dalla parte sbagliata nel momento
sbagliato, circondati dalle frontiere più dure e feroci», come ha scritto Claudio
Magris, che li ha ricordati in un passo di «Utopia e disincanto».
Erano duemila operai comunisti di Monfalcone, dei «duri e puri» già perseguitati da
camicie nere e SS. Attraversarono il golfo per edificare con i compagni titini «il vero
socialismo». Pochi mesi dopo larrivo, quando nel 1948 il maresciallo jugoslavo
venne scomunicato dal Cominform e ruppe con Stalin, furono visti con sospetto da Belgrado,
minacciati, e molti di loro sbattuti nei gulag, perché «non ortodossi». Insomma, erano
rimasti stalinisti. Subirono pestaggi e violenze, prima di tornare in Italia. Ma anche in
patria quel destino «sbagliato» non cambiò: furono umiliati, emarginati e vessati, in
quanto testimoni di un passato del quale il Pci ormai si vergognava.
Vicenda che su quella gente è pesata come un fallimento morale, tanto da indurla a non
parlarne per anni. Lo ha fatto in tempi recenti qualche superstite, come per liberarsi la
coscienza, parlando con uno storico, Giacomo Scotti, che ha ricostruito la storia. Tutto
ha inizio subito dopo la guerra di liberazione, quando molti operai comunisti del cantiere
navale di Monfalcone, affascinati dalla scommessa di Tito, varcano il confine e si
trasferiscono a Pola e Fiume, nelle cui industrie cè appunto un gran bisogno di
manodopera qualificata.
E un controesodo di almeno 2.000 persone, convinte di fare una scelta definitiva e
che perciò in parecchi casi si portano dietro pure le famiglie. A loro si aggiungono
altri militanti mobilitati dal Pci in mezza Italia: intellettuali (come il critico darte
Mario De Micheli), attori (come Sandro Bianchi), musicisti (come il violinista della
Scala, Carlo La Spina). I «monfalconesi» restano «agli ordini» della federazione
comunista di Trieste: da lì viene la linea politica che li condannerà a partire dal 28
giugno 48, quando Mosca accusa Tito di deviazionismo. Il Pci, infatti, resta
stalinista e firma la risoluzione antititoista del Cominform, proprio mentre Stalin è
ormai un nemico a Belgrado. Di colpo diventano tutti e 2.000 «persone sospette», oggetto
di purghe ed epurazioni. Ciò significa il gulag di Goli Otok, sullIsola Calva, o
altre prigionie in Bosnia Erzegovina. Mesi durissimi. Alla fine rientrano a casa, ma anche
lì si ritrovano discriminati dalla loro stessa gente. Il Pci ha fatto uno strappo, ed è
meglio che si tolgano di mezzo. «Fatelo per il bene della Causa e dellIdea», viene
detto loro. E il paradosso è che obbediscono.
(Corriere della Sera 8 ottobre 2001) |