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Dossier: le Foibe
Foibe: una pagina di storia
nazionale
saggio di Giannantonio Paladini
Se per "uso pubblico della storia" si intende, con Jürgen Habermas,
"un dibattito che è in ultima istanza etico e politico sul passato", allora la
discussione sulle foibe ne è un caso classico. Ma lo è, a varie riprese, da
cinquant'anni (1 ). La novità di oggi non è, tuttavia, da poco. A imprimere un marchio
particolare a quello che Roberto Spazzali ha definito un "dibattito ancora
aperto"(2 ), è stata la sinistra politica. Stelio Spadaro, segretario del Pds
triestino e Piero Fassino, sottosegretario agli Esteri, anch'egli del Pds, hanno parlato,
l'estate scorsa, di "rimozione da parte della sinistra", di suoi "imbarazzi
e reticenze", sollecitando "l'apertura degli archivi"; e Luciano Violante,
presidente della Camera dei deputati, un altro esponente del Pds, che è la terza carica
dello Stato, ha rilanciato (3 ). Il fatto è di notevole rilevanza, ma - insieme - rivela
un preoccupante tasso di ambiguità. Sollecitare "l'apertura" di archivi
scandagliati da tempo dimostra quanta distanza l'azione dei partiti, in questo caso,
certamente, quella del maggior partito della sinistra, abbia accumulato, nel tempo,
rispetto alla società civile, e con quanta disinvoltura si finisca per porsi di fronte a
tematiche di grande spessore storico e civile. Allo stesso tempo, le
"esternazioni" su questioni storiche così complesse (dal riconoscimento di
nobiltà ai "vinti" di Salò alla problematica, appunto, delle foibe della
Venezia Giulia) fanno affiorare, finalmente, la coscienza della politica di aver svolto
una funzione impropria in una società democratica, di aver "usato" le verità
risultanti dal faticoso procedere della ricerca storica nella direzione più conveniente
alla lotta politica, senza rispetto e, forse, anche oggi, senza vero ripensamento, quasi a
voler confermare una vocazione all'ideologizzazione capace soltanto di cambiare di segno.
Dicevamo di archivi scandagliati da tempo. Per quanto anch'essi attardati dal vizio
nazionale di travestire la verità storica in funzione degli interessi di parte, gli
storici hanno svolto, anche sul tema delle foibe, il proprio compito. Certo, c'è stato un
grosso limite: a muoversi sono stati storici, ricercatori, istituti, dell'Italia "al
confine orientale". Al di qua dell'Isonzo, ben poco. Ma non si è trattato di storia
locale, nel senso - peraltro, improprio - di storia minore. Si potrà, poi, discutere dei
ritardi di taluni settori della storiografia troppo politicizzati, non dell'intera
storiografia italiana. E non si dovrà dimenticare quanto , all'appuntamento di una
corretta informazione storica sull'intera "questione adriatica", sia mancata la
scuola italiana (4 ). Non è, in ogni caso, inutile, riassumere i termini della questione,
per evitare le consuete confusioni di piani. A cinquant'anni dalla disgregazione del
fragile assetto nordorientale dell'Italia uscita da Versailles e consolidata
territorialmente nei primi anni Venti, è impensabile continuare a considerare la
"situazione giuliana" degli anni tra l'autunno 1943 e la primavera 1945 (ma
anche dei mesi e degli anni successivi, oltre lo stesso trattato di pace), isolatamente da
un contesto più ampio. L'arco temporale da considerare va, almeno, dall'inizio delle
ostilità dell'esercito italiano contro la Yugoslavia in avanti, fino alla
"slavizzazione" di pressocché tutti i territori acquisiti tra il 1919 e il 1920
(il 1924, per Fiume). All'aggressione italiana fece seguito l'erompere della guerriglia
partigiana. E la Venezia Giulia - come ricorda Raoul Pupo - "finì per diventare
retrovia di un nuovo fronte, quello contro i «ribelli» sloveni e croati, per divenire
poi, essa stessa, obiettivo e teatro di operazioni del movimento di liberazione
jugoslavo"(5 ). L'esperienza bellica fece "deflagrare", insomma, con
violenza contraddizioni e tensioni accumulatesi nel corso di decenni, e che il fascismo
aveva esasperato. Quando l'armistizio fece precipitare l'intera Italia nel "buco
nero" più profondo della sua storia nazionale, nell'Istria, "sulla furia di una
tipica jacquerie contadina, si innestarono le rivalse contro gli uomini-simbolo di un
regime e di uno stato indistinguibili da parte di chi ne era stato oppresso, assieme al
disegno di rovesciare le autorità italiane per sostituirle con nuovi poteri, controllati
dal partito comunista croato" (6 ). Le cinquecento persone che vennero, in quei
giorni, trucidate e gettate nelle foibe carsiche furono, dunque, vittime di
un'insurrezione sociale e nazionale insieme. E il trauma di quella strage si fissò
stabilmente nella memoria degli istriani di sentimenti italiani: come ricordo, e come
possibilità "sempre latente".
Il futuro della Venezia Giulia è, da quel momento, fortemente ipotecato. Il
"contesto" si aggraverà, naturalmente, perché l'intera regione dall'Isonzo
alla Dalmazia diverrà progressivamente oggetto di una contesa che, a sua volta, si
allargherà progressivamente, fino a diventare, oltreché nazionale, internazionale: non
"una disputa bilaterale, soltanto, ma un problema che coinvolgerà direttamente le
relazioni fra Stati Uniti ed Unione Sovietica" (7 ). I "seicento giorni"
nell'area giuliana furono, infatti, cosa assai diversa rispetto al resto dell'Italia
occupata dai tedeschi. Alla fine di una guerra (fra i tedeschi e anglo-americani), di una
guerra di liberazione (fra i partigiani, da una parte, divisi tra di loro secondo linee
politiche e nazionali brutalmente intersecantesi, e gli occupanti, tedeschi e italiani di
Salò, e collaborazionisti, dall'altra) e di una guerra civile, radicale più che altrove,
la Venezia Giulia si ritrovò, nel 1945, sotto il pieno controllo dell'esercito popolare
jugoslavo di liberazione. Le ragioni dell'anti-fascismo e della Resistenza di parte
italiana erano state sopraffatte. La "corsa per Trieste" era stata vinta dagli
jugoslavi, anche se l'improvvisa irruzione della II divisione neozelandese oltre l'Isonzo
rischiò di rimetter in discussione le cose(8 ).
Appena giunte nelle città della Venezia Giulia, le truppe jugoslave procedono al disarmo
e all'internamento degli avversari, a partire dai soldati di Salò. Ma subito vanno ben
oltre. Ai maltrattamenti, all'internamento nei campi di concentramento dove la morte
arriva per stenti e malattia, alle eliminazioni lungo le strade che portano ai luoghi di
detenzione, si aggiungono le esecuzioni sommarie. E a cadere non sono soltanto i militari,
ma anche le forze di polizia (Questura, carabinieri), e i civili. é una spirale di
rancori - come scrive Pupo - che altrove in Italia genera rapide ondate di violenza
politica e catene di delitti, e che nella Venezia Giulia, alimentandosi del ricordo
bruciante delle sopraffazioni compiute dal fascismo nei confronti delle popolazioni slave
e delle spietatezze della repressione antipartigiana, "travolge chi torti ha
compiuto, chi avrebbe potuto compierli, talvolta chi, semplicemente, ne richiama la
memoria" (9 ).
Se questo è il contesto "minimo", di esso si deve tener conto per una
riflessione seria sullo specifico fatto, solo apparentemente circoscritto, delle
"foibe" e degli "infoibamenti" avvenuti in Istria nell'autunno del
1943, prima che i tedeschi l'occupassero con la creazione dell'Adriatisches Künstenland,
e dopo la fine della guerra, e a Trieste nei "quaranta giorni" dell'occupazione
jugoslava - maggio-giugno 1945 -, ma anche di quelli successivi. Senza una precisa
storicizzazione, i fatti e gli eventi collegati - le scomparse, le deportazioni di
migliaia di italiani -, da ultimo, il drammatico esodo dall'Istria, sono condannati ad una
spiegabilità metastorica o astorica.
A inquadrare precisamente i fatti obbliga lo scrupolo al quale si è tenuti generalmente
in sede di ricostruzione storica, ma induce anche la delicatezza particolare del tema
delle foibe, tra "i più frequentati come ha scritto ancora Raoul Pupo - nel
dibattito del e sul dopoguerra nella Venezia Giulia, e allo stesso tempo uno dei segnali
più palesi dei limiti e delle distorsioni di quel confronto" (10).
Si tratta, anche qui, del modo italiano di "fare storia" di fronte a
quell'esigenza, così intensamente avvertita da uno studioso come Rosario Romeo, di
riunire l'Italia alla sua storia, perché "un paese idealmente separato dal proprio
passato, è un paese in crisi di identità e, dunque, senza valori da cui trarre
ispirazione e senza quel sentimento di fiducia in se stesso che nasce dalla coscienza di
uno svolgimento coerente in cui il passato si pone come premessa e garanzia per il
futuro" (11). Lasciare che il "lungo dopoguerra" si chiuda definitivamente
senza tentare di colmare la "separazione dal passato" denunciata da Romeo
significa, del resto, perdere l'occasione di comprendere il vero senso delle cose accadute
cinquant'anni fa, lasciandosi paralizzare dal timore che ciò renda, in qualche modo,
necessaria quella riconciliazione dell'irriconciliabile, che sarebbe, quella sì,
storicamente priva di senso.
é ben vero, d'altra parte, che la contestualizzazione dei singoli eventi - le
deportazioni, le eliminazioni fisiche, gli "infoibamenti", insomma tutti gli
orrori della stretta finale di eventi prodotti da fattori più lontani e dilatati -
presenta il rischio di una loro mimetizzazione: tutto spiegare è tutto giustificare, teme
qualcuno. Per evitarlo, è necessario, dunque, guardarsi da due rischi opposti: dal
chiudersi nella microstoria, da un lato; dal tutto stemperare in una dimensione
macrostorica, dall'altro.
A rendere ancor più ardua quest'operazione intellettuale sta "l'immensa congerie di
pubblicistica accumulatasi con il trascorrere degli anni", della quale ha parlato
Fulvio Salimbeni, un dibattito da vedersi "costantemente nei suoi risvolti anche
psicologici, in relazione con le coeve vicende politiche, istituzionali e ideologiche, che
ne spiegano contraddizioni, involuzioni, difficoltà, accelerazioni improvvise quanto
bruschi arresti e pesanti condizionamenti e remore nell'affrontare aspetti ed elementi del
caso" (12). Perché la discussione aperta, per motivi schiettamente politici,
l'estate scorsa non si riduca ad un episodio di questo dibattito, bisognerebbe che gli
storici si sottraessero ad una chiamata in campo ad adiuvandum, alzando, invece, la
traiettoria del proprio specifico apporto.
Le foibe, dunque: un sostantivo che, al di qua del Tagliamento, ha forse solo il valore di
un termine scientifico (dal latino fovea, fossa, anfratto, voragine naturale del terreno
carsico, cavità imbutiforme che sprofonda in verticale per decine di metri, talvolta con
salti di centinaia) (13), mentre, al di là dell'Isonzo ne ha certamente un altro, anche
simbolico. Con esso, si designano certamente gli "infoibamenti", ma anche le
deportazioni, le carceri, i campi di concentramento jugoslavi, così come tutti i luoghi
di occultamento di soldati uccisi in combattimento, di vittime di esecuzioni sommarie, di
vendette personali, di atti di criminalità comune, tutte accomunate nel destino di questa
sepoltura inumana. Anche se si trattò di deportazioni in campi di concentramento dai
quali, magari, ci si salvò in parte, rientrando senza dichiararlo, come accadde a molti
militari della Repubblica sociale italiana; anche se la cosa riguardò soldati tedeschi
caduti nella fase finale della guerra; anche se fu l'esito di uno spirito di vendetta
furibonda, la scomparsa, magari in mare, come i Luxardo, "dietro gli scogli di
Zara" (14), di tanti uomini e donne dalla faccia della terra, in un'area
caratterizzata da un sottosuolo naturalmente predisposto ad inghiottire, dà alla parola
che riassume tanti, diversi e pur simili, eventi, foibe, un suono sinistro. Foibe come
violenza indiscriminata, come massacro senza giustificazione, feroce e disumano, che unì
nello stesso destino collaborazionisti e innocenti, quasi un'onda infernale, in cui non è
possibile discernere.
Distinguere, invece, e frequentemente, è il compito degli storici. Ed è quello che è
stato fatto, anche con il difficile lavoro di "quantificazione", che può
sembrare macabro, ed è, invece, segno di serietà e di umanità dolente. Il dibattito
triestino e giuliano, dentro e fuori dei confini nazionali, ha spesso esasperato i
calcoli, le cifre sono state, talvolta, sparate alla cieca. Gli studiosi, ma non soltanto
loro, hanno, invece, fatto un buon lavoro. Si è arrivati a indicare cifre attorno alle
quattro-cinque migliaia, anche se nessuno, di coloro che ne hanno titolo, rinuncia ai
propri convincimenti. C'è chi ripete che, di qualunque cifra si tratti, la questione non
cambia sul piano sostanziale. Non è vero: anche il numero ha una sua rilevanza (15). Ma
è vero, senza dubbio, che quel che conta è il "perché" dei massacri. Veniamo,
dunque, a quelle che sono parse le diverse linee interpretative in campo.
Lungo tutto l'arco temporale che va dal 1945 ai nostri giorni, s'è consolidato,
innanzitutto, il giudizio che le foibe abbiano costituito l'esecuzione di un consapevole
progetto di sterminio della nazione italiana nella Venezia Giulia, elaborato dallo
sciovinismo balcanico e manovrato da comunisti. é la tesi del "genocidio
nazionale", che oggi, con la discutibile leggerezza della fase di "conversazione
pubblica" della quale siamo, insieme, protagonisti e vittime, si preferisce chiamare
"pulizia etnica". Al di là dei suoi connotati ideologici e politici originari,
la tesi del "genocidio nazionale" è divenuta un dato di esperienza: quella,
psicologica e morale, di molta parte degli esuli, e delle loro organizzazioni più legate
al sentimento di nazionalità italiana dei giuliano-dalmati. D'altra parte, perché
istriani, fiumani, dalmati rimasti a Zara dopo il 1921-1922, avrebbero abbandonato le loro
terre, se non per non morire, i più, ma anche "per non sottostare a un regime che si
rivelava in tutta la sua crudeltà, ed anche, a prescindere dal regime politico, per
evitare una convivenza difficile per la diversità di lingua, costumi, cultura"? (16)
I nemici da eliminare furono, in realtà, non gli italiani in quanto tali, ma i
reazionari, tutti quelli, insomma, che non accettavano le posizioni politiche
riconducibili al Fronte di liberazione jugoslavo. Dunque, anche chi era antifascista,
aveva aderito alla Resistenza ma non era comunista. Distinzioni troppo sottili, queste,
sottigliezze ideologiche? Resta il dato di fatto, ricordato da Pupo, dell'"espulsione
di massa di un'intera componente nazionale dalla propria terra, che sanzionò
l'incompatibilità storica della presenza italiana con l'affermarsi dello stato comunista
jugoslavo" (17). Rispetto all'esodo, dunque, che si configurò come un'
"espulsione" vera e propria di quanti, italiani, non accettarono la piega della
storia della propria terra, non si può non accettare il giudizio di Elio Apih che ha
parlato, a proposito dei "quaranta giorni" triestini della primavera del 1945,
di un "dramma oltre lo scenario" delle foibe. "La presenza di volontà
organizzata - così lo storico triestino - non è dubbia. Eliminazione fisica
dell'oppositore e nemico (di forze armate giudicate collaborazioniste) e, insieme,
intimidazione e, col giustizialismo sommario, coinvolgimento nella formazione violenta di
un nuovo potere. Tale pare la logica dei fatti. La spontaneità del furor popolare si
cementa in una sorta di patto di palingenesi sociale, attestato e garantito dalla
punizione dei colpevoli, che basta individuare anche sommariamente perché il loro ruolo
è simbolico prima che personale" (18).
Al polo interpretativo opposto, le posizioni (anche storiografiche) di parte jugoslava, e
della minoranza slovena in Italia, che ispirarono a lungo la pretesa di "negare la
strage". Dal dicembre 1945 in poi - fino ai primi, timidi e circospetti accenni
innovativi della fine degli anni Ottanta, e dei primi Novanta, oggi relativamente
consolidati (19) - il motivo dominante fu quello di considerare tutti gli italiani, della
cui scomparsa si chiedeva conto da parte alleata, come fascisti, caduti o scomparsi in
combattimento a fianco dei tedeschi, o criminali di guerra. Ma si trattava di una tesi
miserabile: la "caccia al fascista", infatti, si esercitò, perfino con maggiore
precisione, nei confronti di antifascisti, i componenti dei Comitati di Liberazione
Nazionale di Trieste e di Gorizia, e gli esponenti della Resistenza e del movimento
autonomistico di Fiume (20). Un "paradosso" che si spiega avendo riguardo al
fatto che, ad avversare il "pieno e totalitario" controllo del nuovo regime
jugoslavo di tipo stalinistico erano, assai più che i fascisti sconfitti, gli
antifascisti democratici, e cioè non comunisti, che la Resistenza l'avevano fatta e si
erano così legittimati. Siano stati, dunque, i comandi militari jugoslavi e le nuove
autorità civili, ovvero, come qualcuno ha ipotizzato, gli organi della polizia politica
(21); si sia o meno sommata, all'azione di questi ultimi, quella di gruppi di
avventurieri, di criminali "capaci di approfittare del clima di generale confusione
esistente allora in città" (22), negare la strage è stata la riprova, negli
jugoslavi e anche nella minoranza slovena "ortodossa" in Italia,
dell'incapacità di guardare, con spirito, critico ed autocritico, a quel tragico periodo.
A sé, rispetto ai due blocchi interpretativi sommariamente delineati, è stato, nei
decenni del "lungo dopoguerra", quel gruppo di opere di studiosi giuliani di
diversa formazione che, nell'ambito dell'attività dell'Istituto regionale per la storia
del movimento di liberazione nel Friuli-Venezia Giulia, hanno tentato di inserire anche le
vicende di cui stiamo parlando all'interno del quadro risultante dall'impatto della
politica e delle istituzioni del fascismo sui rapporti fra slavi e italiani nella Venezia
Giulia. Impostazione ineccepibile, anche se non si può ridurre il fenomeno delle foibe a
un "eccesso di reazione" alla lunga catena di precedenti violenze di segno
opposto. Così facendo, infatti, si corre il rischio di far prevalere preoccupazioni
ideologico-politiche su quelle del rigore storico: è quello che accade se ci si limita a
guardare alla dialettica città-campagna in Venezia Giulia e si applica anche alle foibe
lo schema della "rivolta contadina" (23). Occorreva, invece, inserire senza
remore, anche le foibe nel quadro più largo rappresentato dal processo di costruzione del
comunismo tra guerra e dopoguerra. é l'approccio di studiosi che riescono così a
valutare comparativamente il comportamento tenuto dai partigiani comunisti per instaurare
la propria autonomia sia nei confronti di sloveni e croati anticomunisti o non comunisti,
sia in quelli dei giuliani di "sentimenti italiani" (24). é l'approccio che
conduce Elio Apih ad affermare che "i fatti hanno anche motivazione antitaliana, ma
questa non pare preminente" perché, "nel 1945, Trieste fu, per quaranta giorni,
lambita dall'onda di una rivoluzione" (25).
Ma forse, oggi, è possibile andare oltre, assumendo come ipotesi interpretativa forte
quella del secondo conflitto mondiale come guerra totale, come guerra che "nutre nel
suo seno la guerra civile" (26). Come in una guerra di religione, contenente in sé
motivi economici, politici, sociali, nazionali, la violenza dilagò dappertutto e si
personalizzò, a livello individuale e di gruppo. Nei paesi invasi dalle truppe dell'Asse,
portare un'arma equivalse sempre più a una licenza di uccidere. Nella Jugoslavia,
l'incitazione alle rappresaglie indiscriminate, insieme burocratiche e personalizzate,
produsse, dai diversi lati, una ferocia, un imbarbarimento, che difficilmente si riescono
a spiegare con i consueti criteri di analisi dei conflitti bellici e dei loro risvolti
(27). E in Jugoslavia, "rivalità e odi etnici, ideologici, sociali apparvero
crudelmente mescolati nelle lotte fra ustascia, belogardisti, cetnici, il Fronte di
liberazione nazionale diretto da Tito e numerose altre formazioni, con gli occupanti
italiani che cercavano di giocare i vari movimenti gli uni contro gli altri" (28): un
micidiale intreccio che ebbe, tra gli altri effetti, alla scala giuliana, quello della
finale cancellazione della comunità veneto-italiana dell'Istria e della Dalmazia,
risultato della pratica della violenza totale che ha il suo simbolo nelle foibe, e
nell'esodo dei trecentocinquantamila connazionali dalla Venezia Giulia. Una pagina di
storia italiana, quest'ultima, che ebbe aspetti odiosi anche in patria. Come ha ricordato
Francesco Semi, "non si sarebbero mai aspettati , gli esuli, un'organizzazione
avversa al loro esodo. Il Partito comunista organizzò a Venezia, a Milano e Bologna,
massiccie manifestazioni contro di loro. A Venezia, all'arrivo della nave con i profughi
da Pola, a Milano e Bologna alle comitive che giungevano con autocarri, fischi, urli e
infami parolacce accolsero i fratelli infelici, che la propaganda indicava come fascisti,
fuggiti in odio al comunismo" (29). Era, invece, accaduto il contrario.
Ma anche quello di "guerra civile europea" può diventare, se usato
ideologicamente, uno schema fuorviante per capire che cosa si sia creato nel cuore del
Novecento, un secolo di massacri senza limiti geografici ed umani. Tra i primi testimoni
di quel che si andava concretando fu Karl Polanyi che, in Europe To-Day, 1937,
colse, come "caratteristica più sensazionale della storia contemporanea la frequenza
con la quale, nel quadro degli eventi internazionali, si intrecciavano guerre esterne e
guerre civili" (30). L'analisi economica dell'autore della Grande trasformazione,
1944, può essere ancor oggi attuale, e capace di evitare che, nel "secolo delle
ideologie", si finisca per disideologizzare la storiografia, ricaricandola, poi, di
opposte, quanto metafisiche, ideologizzazioni. Quanto alle foibe come tema della
"conversazione pubblica" italiana, l'auspicio è che tutti, storici ma anche
insegnanti, intellettuali ma anche pubbliche autorità, addetti all'informazione ma anche
scrittori, artisti, registi (siamo in un'epoca in cui i media possono compiere grandi
misfatti ma anche operazioni virtuose), sappiano andar oltre la miope convenienza politica
dei pentimenti e dei revisionismi di comodo. é l'unico modo, oltretutto, di risarcire chi
ha troppo patito perché gli si chieda anche di essere magnanimo, e di rassegnarsi.
Note
- 1) Cfr. N. GALLERANO (a cura di), L'uso pubblico della storia.
Franco Angeli, Milano 1995, p.7.
- 2) Cfr. R. SPAZZALI, Foibe: un dibattito ancora aperto. Tesi politica
e storiografica giuliana tra scontro e confronto, Editrice Lega Nazionale, Trieste
1990, passim. L'opera, davvero imparziale, dello studioso triestino ricostruisce la
pluridecennale polemica politica attorno al tema.
- 3) I riferimenti a documenti e interventi di natura strettamente
politica, dei quali hanno dato notizia gli organi di informazione, sono, in questo
scritto, necessariamente dati per noti. Mi limiterò, in ogni caso, agli elementi
essenziali di una "conversazione pubblica" svoltasi sotto gli occhi dell'intero
paese.
- 4) Cfr., tra la ricca documentazione in materia, La scuola italiana e
la storia recente dei giuliano dalmati, Atti del convegno di Pordenone, 29 ottobre
1989, Associazione delle comunità istriane, Trieste, 1990.
- 5) R. PUPO, L'età contemporanea in F. SALIMBENI (a cura di), Istria.
Storia di una regione di frontiera, Morcelliana, Brescia 1994, p. 131.
- 6) R. PUPO. L'età contemporanea in F. SALIMBENI (a cura di), Istria,
cit., p. 131.
- 7) Cfr. R. PUPO, Venezia Giulia. Immagini e problemi, Editrice
Goriziana, Gorizia 1992, p.l43. La magistrale sintesi di Pupo è stata resa possibile,
naturalmente, anche dalle molte opere edite tra gli anni Sessanta e i giorni nostri. Ci
limitiamo ad indicarne alcune: E. MASERATI, L'occupazione jugoslava di Trieste (Maggio
Giugno 1945), Del Bianco, Udine 1963; G. FOGAR, Sotto l'occupazione nazista nelle
province orientali, Del Bianco, Udine 1963; B.C. NOVAK, Trieste 1941-1954. La lotta
politica, etnica e ideologica, Mursia, Milano 1973; D. de CASTRO, La questione di
Trieste. L'azione politica e diplomatica italiana dal 1943 al 1954. Liut, Trieste
1981.
- 8) Cfr. T. SALA, La crisi finale nel litorale adriatico. 1944-1945,
Del Bianco, Udine 1962 e G. COX, La corsa per Trieste, Editrice Goriziana, Gorizia 1985.
- 9) R. PUPO, Venezia Giulia, cit., p. 185.
- 10) R. PUPO, Un panorama interpretativo, Quaderni del Centro studi
economico-politici "Ezio Vanoni", nn. 20-21, aprile-settembre 1990, pp. 33-52
(la cit. è a p. 33). II "Quaderno" è interamente dedicato al tema Foibe:
politica e storia e contiene, tra l'altro, i saggi storici di R. SPAZZALI. Le foibe
istriane: sinestesia di una tragedia (pp. 53-68), di G. FOGAR Problemi di
quantificazione (pp. 69-81) e D. de CASTRO, Proposte per una commissione d'indagine
sulle foibe e sulle fosse comuni (pp. 82-87).
- 11) R. ROMEO, Scritti politici. 1953-1987, Milano 1990, p. 40.
- 12) F. SALIMBENI, Prefazione a R. SPAZZALI, Foibe, cit., p.
12.
- 13) Ma chi ha seguito in questi anni le polemiche sul Bus de la Lum sa
che neppur questo è vero.
- 14) Cfr. N. LUXARDO DE FRANCHI, Dietro gli scogli di Zara,
Editrice Goriziana, Gorizia 1992.
- 15) Per una disamina accurata delle "quantificazioni" proposte,
cfr. R. SPAZZALI, Foibe, cit. Uno schema riassuntivo è nel mio Più luce sulle foibe,
"II Ponte", a. XLVII, n. 4, aprile 1991, pp. 93-102. Di recente, Francesco Semi,
nel suo bel volume La cultura istriana nella civilta europea, Alcione Editore,
Venezia, 1996, ha parlato di ottomila "infoibati".
- 16) F. SEMI, Istria e Dalmazia. Uomini e tempi. I. Istria e Fiume,
Del Bianco, Udine 1991, p. 424.
- 17) R. PUPO, Venezia Giulia, cit., p. 243. Sull'esodo, cfr. C.
COLUMMI - L. FERRARI - G. NASSISI - G. TRANI, Storia di un esodo. Istria 1945-1956,
Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli-Venezia Giulia,
Trieste, 1980, unico studio organico sul problema, ma vedi ora, anche la buona sintesi di
F. MOLINARI, Istria contesa, Mursia, Milano 1996.
- 18) E. APIH Trieste, Laterza, Bari 1988, p. 166.
- 19) Cfr. R SPAZZALI, Foibe, cit., in particolare alle pp. 599 e
ss. Sulle maggiori novità relative all'accresciuta disponibilità di fonti slovene e
croate, cfr. F. SALIMBENI, Istria, cit., pp. 147-148. Da quattro anni sono, del
resto, al lavoro due commissioni miste, una italo-croata e una italo-slovena, che stanno
acquisendo prove e documenti. Non si tiene conto, quì, della pubblicistica, in
particolare di quella di destra, che spesso non si limita, in questi anni Novanta, alla
riproposizione di punti di vista ideologici, ma compie anch'essa sforzi interpretativi
più equilibrati.
- 20) Cfr. E. MASERATI, op. at., pp. 117-122.
- 21) E' la tesi contenuta in M. PACOR, Confine orientale. Questione
nazionale e resistenza nel Friuli-Venezia Giulia, Feltrinelli, Milano 1964.
- 22) E. MASERATI, op. cit., pp. 98-100.
- 23) Cfr. C. COLUMMI, Guerra, occupazione nazista e resistenza nella
Venezia Giulia: un preambolo necessario, in Storia di un esodo, cit., in
particolare alle pp. 36-39.
- 24) Cfr. B. NOVAK, Trieste 1941-1954 La lotta politica, etnica e
ideologica, Mursia, Milano 1973 e D. de CASTRO, La questione di Trieste, cit.
- 25) E. APIH, Trieste, cit., p. 166.
- 26) C. PAVONE, La seconda guerra mondiale: una guerra civile europea?
in G. RANZATO (a cura di), Guerre fratricide. Le guerre civili in età contemporanea,
Bollati Boringhieri, Torino 1994, p. 117.
- 27) Cfr. R SALA, 1941-1945: gli italiani nella penisola balcanica. Sui
monti della solitudine, "Storia e Dossier", VII (1992), 62 (maggio),
p. 18.
- 28) C. PAVONE, op. at., p. 123.
- 29) F. SEMI, Istria e Fiume. cit., p. 424.
30) K. POLANYI, Europa 1937, a cura di M. CANGLKNI,
Dontelli, Roma 1995, p. 5.
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