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Dossier: Porzus e le Foibe

La strage di Porzus, la verità del partigiano Lino

Parla monsignor Aldo Moretti,
medaglia d'oro al valor militare

di Alberto Bobbio


E' un posto di mezza montagna sepolto nell’ombra degli alberi. Monsignor
Aldo Moretti, 87 anni, il partigiano "Lino", medaglia d’oro al valor militare,
getta lo sguardo sulla valle, sulle cime dei monti, sulle foreste e sui prati che
scivolano verso il Natisone e il passo di Caporetto, terre cariche di destino
per le popolazioni del Friuli, terre spalmate di sangue e di sacrifici, dove il
passato non passa mai.
Saliamo alle malghe di Porzus dove il bosco nasconde un’infamia, due
piccoli edifici di pietra, il soffitto bassissimo, un tavolo di sasso all’aperto, il
selciato intorno. Eccolo il caposaldo dell’orrore. Qui, il 7 febbraio 1945, i
partigiani comunisti trucidarono i partigiani verdi, cattolici, liberali, moderati
riluttanti all’idea di mettersi sotto il comando delle formazioni titine.
Monsignor Aldo Moretti le aveva fondate quelle formazioni cattoliche,
insieme con altri due preti, un anno prima, e aveva scelto il nome di Brigate
Osoppo, il paese friulano che insorse durante il Risorgimento contro
l’occupazione austriaca. Ora è lì davanti alla lapide che ricorda i suoi
ragazzi «soffocati nel sangue da fraterna mano assassina». Gli scende una
lacrima sul viso asciutto, recita il salmo del giusto che muore e ha come un
tremito: questo è il luogo della memoria opprimente.
L’auto corre tra i campi di granturco sulle strade del Friuli orientale. Il
vecchio prete racconta la sua storia di cappellano militare in Africa, ferito e
catturato dagli inglesi, prigioniero sul canale di Suez e poi scambiato a
Smirne. «Tornai a casa a maggio del 1942. Accettai un invito a Siena, dove
pregai perché i nostri soldati potessero vincere. E lì accadde qualcosa. Al
termine del discorso mi avvicinò un ometto. Disse poche parole: "Cambierà
tutto, sa... cambierà". Era Giorgio La Pira».
La chiesetta di Marsur appare dietro la curva. Segnava il confine nel
settembre del 1944 tra le terre in mano ai nazifascisti e la fragile repubblica
partigiana del Natisone, una manciata di giorni di libertà, di sacrificio, di
sogni. Moretti si emoziona. Ha una memoria lucida, le parole scivolano via
sicure. Povoletto, paese della battaglia tra partigiani, fascisti e tedeschi,
quando settanta carabinieri passarono armi e bagagli con i partigiani per
non dover uccidere altri italiani. Poi Attimis, Faedis, le valli che salgono
verso il confine sloveno, terre che secondo i partigiani comunisti avrebbero
dovuto essere consegnate a Tito, terre slovene perché lì c’erano e ci sono
ancora italiani che parlano la lingua slovena: «La Grande Slovenia, volevano
i partigiani comunisti. Noi volevamo solo combattere per la libertà, non per il comunismo, ed eravamo favorevoli a lasciare ad un referendum dopo la
liberazione la scelta sui confini».
Il borgo di Porzus ora è abbracciato dai boschi. Sui prati spuntano i covoni:
«Allora era tutto erba. Dalla Pedemontana ci vedevano i tedeschi». Il luogo
si chiama Topli Vrh, cima calda. Più che malghe erano fienili, piccole stalle
dove le mucche stavano a fatica, umide d’estate, gelide d’inverno: «Il nostro comando», dice Moretti. Oggi il bosco le nasconde alla vista su tutti i lati: «Allora no. Davanti al precipizio, accanto al sentiero, c’era un prato, il prato delle talpe. Bolla, il comandante, alzava la bandiera, bandiera italiana,
bandiera con lo stemma sabaudo. Io lo mettevo in guardia: attento, gli
dicevo, la vedono i comunisti e i partigiani sloveni, quello stemma a loro
ricorda il fascismo, toglila. E lui no, cocciuto, perché credeva sopra ogni
cosa all’Italia, senza compromessi, senza tante prudenze politiche».
"Bolla" era il nome di battaglia di Francesco De Gregori, ufficiale degli alpini, monarchico, onesto e convinto militare, che non mollava mai il cappello con l’aquila e il fazzoletto verde di partigiano moderato. Era lo zio del cantautore. Era stato lui, il 5 ottobre 1944, a dare la risposta negativa ai capi delle brigate garibaldine che volevano anche i partigiani cattolici sotto comando comunista alle dipendenze del IX Corpus jugoslavo. L’incontro era avvenuto al cimitero di Oborza di Prepotto. L’idea di Tito era quella, finita la guerra, di annettersi il Friuli orientale. Tito strappò a Togliatti il consenso e stabilì che tutte le formazioni partigiane friulane passassero sotto il suo comando. «Noi non avevamo mai avuto dubbi nel rifiutare», ricorda Moretti.
«Avevamo sempre operato insieme, anche se noi cattolici ci
preoccupavamo, oltre che della onestà dei fini, anche della onesta dei
mezzi. Ci furono discussioni assai accese con i comandanti comunisti
sulla necessità di azioni che comportavano sacrifici di vite umane».
Nascono anche da questo atteggiamento più umanitario le accuse di
tradimento che in questi anni sono state rivolte ai fazzoletti verdi per
giustificare l’eccidio di Porzus, che viene alimentato dalla paura nei
confronti di tutto ciò che potrebbe ostacolare una costruzione rapida del
socialismo internazionale.  È una brutta storia, quella degli episodi che precedono la strage. Storia di contrapposizioni ideologiche che sfiorano livelli parossistici, dove si muore per uno sguardo, un’allusione, una voce buttata là. È una tragedia sulla quale convergono ragioni militari e interessi internazionali, che ha molte matrici e che lascia dopo quasi mezzo secolo ancora aperti molti interrogativi.

Liquidare i partigiani ribelli

L’8 settembre 1944 Vincenzo Bianchi, nome di battaglia "Vittorio",
rappresentante del Partito comunista italiano presso il IX Corpus titino, che
era tornato da Mosca insieme con Togliatti, riceve una lettera da Edvard
Kardelj, ideologo e braccio destro di Tito, in cui lo si invita a liquidare le
formazioni partigiane che, in Friuli, non accettano di porsi agli ordini del IX
Corpus.
I partigiani verdi rivendicano la propria libertà e tornano in montagna, da soli. Risalgono le strade che portano a Porzus. È inverno. Molti tornano a casa, aspettando la primavera. Vicino a Porzus nel villaggio di Canebola, dove si trova il comando garibaldino, il 7 novembre si fa festa per annunciare la solenne adesione alle formazioni titine. Bolla convoca i suoi: «Ci vogliono far sloggiare. Chi vuole andarsene se ne vada, noi restiamo». Restarono in venti alle malghe.
Ma sotto, in pianura, comincia a scattare la trappola. Girano con sempre
maggiore insistenza voci di tradimento da parte dei verdi. Conferma Moretti: «Qualche intesa umanitaria, nessun tradimento. Tentavamo solo di
anticipare la pace in un angolo del fronte». Poi le voci si infittiscono, fino a
riferire di contatti con i repubblichini della X Mas di Valerio Borghese.
Che cosa c’era di vero? Moretti conferma che Cino Boccazzi, un partigiano della Osoppo preso prigioniero dai fascisti della X Mas, ricattato sulla sorte della moglie e dei figli, fu rimandato a Udine per cercare un contatto con la Osoppo, con la quale Valerio Borghese voleva collaborare per difendere il confine orientale dalle pretese titine, in modo da farsi  un’immagine di patriota in vista della fine della guerra.
Boccazzi ne aveva parlato con l’ufficiale inglese Rowort, che lavorava
clandestinamente a Udine, nome di battaglia "Nikolson". Egli prende tempo
prima di sentire il suo comando a Londra e ricevere una risposta negativa,
ma intanto i sospetti aumentano, sulla scorta anche dell’ingenuità del capo
missione inglese. Gli inglesi conoscevano bene la forte collaborazione che
c’era all’inizio tra partigiani cattolici e partigiani comunisti. Al punto da
esserne preoccupati; al punto, secondo Moretti, «di lavorare per dividerci,
anzi di sacrificarci per gettare l’ombra del discredito sulle formazioni
comuniste, alle dipendenze di un esercito, quello jugoslavo, che ormai era
visto come conquistatore e non più come alleato. Insomma gli Alleati erano
preoccupati del loro futuro governo nella zona».

Un processo prima della strage

E scatta la trappola. Tutto ruota attorno alla figura di una donna, Elda
Turchetti. Moretti la ricorda bene: «Era una ragazza di Pagnacco, il paese
dove i tedeschi avevano un deposito di carburante. Gli informatori inglesi
raccolgono voci su amicizie della ragazza con alcuni tedeschi. Cosa
normale, in un piccolo paese. Radio Londra la denuncia come spia. Lei,
impaurita, si rivolge a un amico partigiano, che la porta da "Giacca", Mario
Toffanin, capo di una brigata gappista, uomo duro, sprezzante». Toffanin è
il partigiano che comanderà la strage a Porzus. Ma Toffanin non la uccide,
come accadeva sempre per le spie, e la consegna a Tullio Bonitti, capo
della polizia interna della Osoppo. Bonitti la fa salire a Porzus in attesa del
processo partigiano. 
Moretti entra con noi in una delle due malghe: «A Natale eravamo qui tutti
insieme. La bufera spingeva la neve fin sotto la porta. La Elda dormiva
accanto al fuoco, un po’ in disparte. Noi partigiani dall’altra parte. "Bolla" non voleva storie. Il 1° febbraio del 1945, sette giorni prima della strage, ci fu il processo. Assolta».
Ma intanto un’altra voce si aggiunge sui sospetti di connivenza con il
fascismo. L’ordine arriva dal Pci di Udine, ma viene incaricato Toffanin,
uomo feroce, ossessionato dalla presenza dei traditori. Ha una settantina di
uomini. Arriva alle malghe e quando vede Elda Turchetti, dirà in questi anni
in molte interviste, non ha dubbi sul tradimento di quelli della Osoppo.
Spara, uccide, e fa prigionieri altri 16 partigiani, che ucciderà, dopo processi sommari, nel corso dei dieci giorni successivi. Li troverà Moretti, a giugno, a guerra finita, sepolti sotto gli alberi di Bosco Romagno. Tra loro c’è anche il fratello di Pier Paolo Pasolini, Guido, il partigiano "Ermes". C’è scritto sul cippo di pietra: «Caduti pai nestris fogolars».
Moretti ora è stanco. Stanco di raccontare lo scannatoio e le bugie, la
crudeltà e l’ingiustizia. Porzus è una ferita ancora aperta da queste parti.
Per anni si è identificato il comunismo con la lingua slovena delle
popolazioni del Friuli orientale. Per anni un’organizzazione segreta che
portava lo stesso nome (Osoppo) delle brigate verdi, alle dirette dipendenze dell’esercito italiano, ha operato per cercare di snazionalizzare la comunità slovena del Friuli, perseguitando sacerdoti e insegnanti. Forse pensavano di vendicare Porzus combattendo una personale guerra fredda sul confine orientale, fomentando un altro odio, questa volta verso gli sloveni.
Ora anche su questa storia con coraggio si fa luce e per la prima volta in
Friuli un libro (Gli anni bui della Slavia) racconta le attività delle
organizzazioni segrete. È dedicato «ai sacerdoti della Slavia friulana che
hanno lottato e sofferto per la dignità della gente». Il vecchio monsignore,
che anni fa aveva approvato l’esistenza di queste formazioni in funzione di
propaganda anticomunista, oggi parla di «gravi e ripetuti errori»: «Noi
combattemmo in montagna per la libertà e la patria, non per il nazionalismo
italiano o sloveno che sia».
E oggi, dopo tanti anni, scendendo da Porzus va a trovare Giuseppe
Bernardi, partigiano garibaldino, sindaco di Cividale, uno che stava dall’altra parte, ma che è convinto che quelli che sono morti siano degli eroi. E gli racconta il sogno. Quello di salire, un giorno prima di morire, alle malghe di Porzus a benedire una lapide con questa insegna: «I fatti di sangue qui compiuti ci ammoniscono che vanno rispettate in ogni comunità di qualunque popolo e la patria e la nazionalità». Oggi le malghe di Porzus
sono un monumento, non ancora un ammonimento.

(da Famiglia Cristiana)









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